Dario Muci – Talassa (Zero Zero Nove/Self/Believe, 2024)

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Nell’arco di oltre vent’anni di attività, Dario Muci ha coniugato l’intensa attività concertistica e discografica con la ricerca sul campo, segnalandosi non solo per le sue indiscutibili doti artistiche, ma anche per la profonda sensibilità nell’esplorare i sentieri meno battuti della musica tradizionale salentina. Allo stesso modo, non trascurabile è la sua capacità di muoversi attraverso ambiti musicali ed espressivi differenti, avendo collaborato alla realizzazione di colonne sonore per film, documentari e spettacoli teatrali. Appassionatosi alla musica accanto al nonno Carmelo Marsano contadino e mandataro, e frequentando la “putea” del barbiere e musicoterapeuta Luigi Stifani, ha mantenuto sempre vivo il contatto con gli ultimi depositari della tradizione, quegli alberi di canto che rappresentando un patrimonio culturale inestimabile, dando vita ad un “piccolo archivio di tradizione orale” nel quale ha raccolto registrazioni audio e video, ma anche fotografie e altri materiali che documentano suoni, canti e racconti, leggende, storie, poesie e altre forme di espressione. Nel corso degli anni, non sono mancate diverse pubblicazioni proprio tratte dai suoi archivi come “Sorelle Gaballo - Canti polivocali del Salento Nardò-Arneo” edito da Kurumuny nel 2008, il documentario “La musica delle barberìe” per la regia di Mattia Soranzo del 2016, e più di recente, con la nascita di quella bella realtà che è l’etichetta Nauna Cantieri Musicali, “Sorelle Gaballo – I canti narrativi a Nardò” nel 2018, “I Calsolaro – barba, capelli e ballabili” nel 2022 e “Coro Popolare di Terra d’Otranto – Canti e leggende del popolo idruntino”. Tutto questo si è tradotto in una produzione discografica sempre di alto profilo, a partire da “Nauna” inciso nel 2000 con i Dakkamè, passando per “Mandatari”, opera prima come solista del 2007 e quel gioiello che era “Centueuna” della SalentOrkestra con Massimiliano Morabito, Giancarlo Paglialunga, Marco Tuma
 e Gianluca Longo, fino a giungere a “Sulu” del 2011 dedicato ai cantastorie, ai due dischi dedicati al repertorio musicale delle barberie “Rutulì” del 2013 e “Barberia e canti del Salento” del 2016 e il più recente “Marea” in duo con Enza Pagliara. A distanza di sei anni da quest’ultimo, Dario Muci ha intrapreso una nuova fase del suo percorso artistico e, vestendo i panni del moderno cantastorie, ha dato alle stampe “Talassa” (dal greco θαλασσα, “mare”), album nel quale ha raccolto otto brani inediti che compongono idealmente un unico canto di denuncia e di speranza, raccontando la sua terra e le sue contraddizioni. Sono storie legate al passato, al mondo contadino, ma anche di stringente attualità come il caporalato, i dramma dei migranti e la difesa dell’ambiente. Storie di terra e mare che il musicista salentino ci ha raccontato nel corso di una lunga intervista, raccolta durante la settimana di seminari di canto, musica e danza popolare di Mare e Miniere.

“Talassa”, il tuo nuovo album ha avuto una gestazione abbastanza lunga e rappresenta una svolta nella tua produzione discografica, essendo il tuo primo lavoro di brani inediti…
Diversamente dai miei precedenti album ed in particolare quelli dedicati alla polifonia o alle barberie dove ci sono brani della tradizione spesso mai “editi”, “Talassa” nasce dall’esigenza di scrivere qualcosa di completamente nuovo con testi e musiche mie. In alcuni casi ho firmato entrambi, in altri ho messo la musica, come le poesie di Rocco Cataldi e di Giuseppe Semeraro. È stato qualcosa che mi è venuto da dentro che mi ha spinto a scrivere questo disco. Ad un certo punto, mi sono detto, devo fare un lavoro nuovo che racconti di oggi, in stile cantastorie, un lavoro di denuncia ma anche di gioia e di speranza per 
un nuovo Salento. Sono otto anni che sto lavorando a questo disco, durante i quali parallelamente mi sono dedicato a diverse produzioni sulla ricerca sul campo e la divulgazione di musiche di tradizione orale. Dai canti polivocali delle Sorelle Gaballo alle musiche da barberia con Antonio Calsolaro, dal Coro di Terra d’Otranto al cantautore come Miro Durante, passando per il progetto “Suddissimo” dedicato a Matteo Salvatore e Adriana Doriani. Sono stati tutti progetti importanti che, però, mi hanno tolto il tempo necessario da dedicare a Talassa. Questa, in parte, è stata una fortuna perché mi ha consentito di lavorare a lungo e meglio sui brani…

Probabilmente se li avessi incisi otto anni fa, lo avresti fatto in modo diverso…
Sicuramente!! Infatti, mai tenere nel cassetto un disco così a lungo. I brani sono cambiati di anno in anno, ci sono diverse versioni di ognuno e se ti facessi ascoltare le prime tracce faresti fatica a riconoscerli. La struttura di base è rimasta quella iniziale perché sono nati per voce e chitarra, mentre le parti musicali, i riff, gli strumentali sono nati successivamente. Tutto succede sui treni, negli hotel, in macchina, mentre aspetto un autobus, così… come nel quotidiano di ogni artista o creativo. Quando scrivo mi faccio prendere dal luogo in cui sto e persino da cosa ho mangiato; e se, per la testa mi passa una frasetta musicale la registro subito sul telefono. Un modo un po’ bizzarro di fare musica ma efficiente.

Per gran parte della tua carriera la musica tradizionale l’hai ricercata e reinterpretata, con “Talassa” l’hai fatta tua al punto da andare anche oltre le sue strutture…
Spero di aver seminato bene in questi anni. Per me è importante essere sempre se stessi. E’ un disco di tradizione in movimento, un lavoro che tra cinquant’anni racconta di oggi. Talassa è l’ennesimo atto d’amore per la mia terra.  Qualcosa che mi viene dall’anima e che non riesco più a trattenere. Talassa è il mare che abbiamo dentro, la nostra interiorità, così potente e profonda, calma, misteriosa, ma anche agitata e ansiosa. È un luogo di straordinaria bellezza con molte parti ancora inesplorate e sconosciute, con i suoi riflessi di luce…l’amore, la speranza, la gioia.

Il primo brano in ordine di tempo che hai scritto per questo disco è “Mohammed”. Una canzone che tratta un tema attualissimo: si muore ancora di lavoro e per il lavoro…
È spaventoso che ancora oggi succeda che si muoia sul lavoro, di fatica, di stanchezza come è accaduto a “Mohammed”. Solo qualche giorno fa nell’Agro Pontino è morto un bracciante dopo che aveva perso un braccio e, invece di soccorrerlo, lo hanno abbandonato in strada. Lo voglio a ricordare a chi prende questi poveri cristi come ladri di lavoro, mentre con la loro vita e il loro sacrificio, fanno funzionare i meccanismi di un’ economia marcia e malata, che tutti vorremo sana e sicura.

Certamente quello che canti tu non è un Salento da cartolina per citare gli Aramirè o quello del G7… 
La gente ha bisogno di divertirsi e credo sia la prima cosa, perché stiamo vivendo un momento in cui c’è veramente tanta sofferenza. Mi rivolgo a chi sta avvelenando le nostre acque, la campagna, gli ulivi che
per secoli hanno visto e sentito cantare e lavorare i nostri nonni, ai braccianti sfruttati, quelli di ieri e di oggi, ai migranti abbandonati per strada e in mare. Sicuramente non ho né il ruolo né il compito di risolvere i problemi della gente, ma nel mio piccolo, spero che le mie canzoni portino un po di luce su quello che finge di non vedere. In queste canzoni sono un diario aperto.

Ciò che colpisce di “Talassa” è come questo disco racchiuda il tuo immaginario musicale, la ricchezza delle tue ispirazioni e delle tue passioni musicali. Quali sono state le coordinate lungo le quali si è mossa la tua ispirazione?
Il riferimento che arriva per primo è sicuramente quello ai cantastorie come Ciccio Busacca, del quale mi ha colpito sempre la profondità e la visceralità della voce, che sembra venire dalla terra, o Enzo Del Re con la sua bellezza interpretativa, o ancora Matteo Salvatore al quale abbiamo dedicato il progetto “Suddissimo” con Enza Pagliara, Roberto e Emanuele Licci. I loro dischi continuo ad ascoltarli, così come quelli di Rosa Balistrieri, o quello di Pino Veneziano che mi ha influenzato tantissimo. Come si fa a non rimanere incantati dai cantastorie… e non è un caso che i brani di Talassa come “A Li Furisi”, “Mohammed”, “Ommuammare”, abbiano quella struttura tipica dei cunti cantati che nascono per soli voci e chitarra, proprio come le storie che questi “personaggi mitici” hanno composto, scritto e portato nelle piazze. 

Ci puoi raccontare come si sono svolte le sessions di registrazione del disco?
Nella fase produttiva del lavoro, oltre alla documentazione testuale e all’indagine mirata delle fonti, mi sono inoltrato in un percorso musicale molto personale, per creare un felice momento di incontro e di scambio tra gli stili che più amo ascoltare. Per raccontare al meglio queste storie di vita di oggi, così tristemente simile alle vicende attraversate dai nostri antenati, ho coinvolto musicisti provenienti da ambienti musicali differenti, con l’intento di arricchire di maggiori suggestioni e dettagli precisi un progetto discografico di articolata e variegata composizione, per questo ho immaginato un ambientazione sonora decisamente “urban”, con contaminazioni classiche, fusion, world, dub.

“Talassa” è anche un disco di incontri, a partire da quello con Enza Pagliara…
Io ed Enza lavoriamo insieme quotidianamente. Pensiamo sempre a qualcosa o qualcuno che ci riporti nelle campagne o in un mondo di mare che non c’è più. Pensiamo a una melodia, a quella strofa che cercavamo o ad un anziano che ci ha insegnato un canto. Poi analizziamo, ricerchiamo e ricantiamo. Il ricordo, poi, va a quegli incontri, del tutto casuali, che ahimè non ritorneranno più. Lei è la Voce. La voce della terra, ma ha anche la grandezza del mare. “Talassa” non è nato per caso. “Talassa” è nato perché ha nel mare la sua massima fonte di ispirazione. Metaforicamente, quel mare è anche la persona che mi sta accanto. 

Altro ospite è Nabil Salameh in “Ommuammare”…
Quando ho scritto questo brano, Nabil è stata la prima persona a cui ho pensato per cantarlo a due voci perché la sua voce mi riporta al Mediterraneo. Lui canta con una profondità e un intensità che sembra venire dal mare e questa è la cosa che mi interessava di più.  Questo brano viene dopo aver letto Frontiera di Alessandro Leogrande, una quasi preghiera ispirata alla tragedia dei tanti, troppi morti nel Mar Mediterraneo.

Poi c'è l’incontro con Raphael Gualazzi?
Mi sono fatto mille problemi prima di decidermi a chiamarlo. Anni fa, ci invitò a casa sua e ci fece ascoltare alcuni brani inediti ed anche noi gli abbiamo fatto ascoltare qualcosa che non avevamo ancora pubblicato. Insomma, ci siamo sempre scambiati bellezza. L’anno scorso venne ospite da noi a San Cesario ed è stato in quel momento che pensai di coinvolgerlo e chiesi ad Enza cosa ne pensasse. Lei mi disse di parlargliene e che sarebbe stato contentissimo. Ci ho ripensato ancora, cosciente anche di tutte le dinamiche che ci sono intorno a lui, con il management, i diritti, ecc. Niente! Lo chiamo, gliene parlo.. e mi rispose dicendo: “mandami il brano perché voglio ascoltarlo”; gli piaceva molto quello che facevo con Enza. Dopo averlo ascoltato mi richiamò: “le storie come quelle di Mohammed vanno raccontate ogni giorno” e mi ringraziò pure. Accettò da subito e mi disse anche che lo avrebbe arrangiato con piacere e, nonostante avesse impegni urgenti e fosse nel mezzo di un tour, trovò una giornata da dedicarmi nel suo studio di Milano. Persona umile e gentile, oltre ad essere un grande Artista!

In “Sant’Asili” incontri Treble dei Sud Sound System e Rocky G. Vox. E’ un brano di denuncia ma anche, in qualche modo, la chiusura di un cerchio…
Sant’Asili, o meglio San Basilio, è una bellissima spiaggia sull’Adriatico, punto di approdo di TAP (Trans Adriatic Pipeline). A cinquanta metri da quella porcata che hanno costruito c’era appunto un presidio No TAP e Treble, che è di quelle parti, è stato uno tra i più attivi. Sul tragitto stabilito da TAP e SNAM (diramazione interna) teatro di espropri e svendite di terreni, in meno di un anno si sono seccati tutti gli alberi di ulivo. Intere famiglie hanno buttato il sangue una vita per comprare quelle terre e portare avanti la famiglia. Quello che è accaduto è di una gravità immensa, sotto tutti i punti di vista, per non parlare dell’impatto ambientale e di cosa ne rimarrà tra un po di anni. Chi meglio di Treble e Rocky G.Vox poteva interpretare con me questo brano. Ho frequentato anch’io il presidio e un paio di notti sono andato lì per suonare per i ragazzi di cui ne ho sposato personalmente la causa. Ritenevo che fosse una grande pazzia questo progetto. Io non ci stavo, come non ci stavano migliaia di persone. Treble era in prima linea e anch’io mi sono voluto documentare intervistando la gente e partecipando, quando potevo, alle loro iniziative. Le manifestazioni pacifiche erano stupende, le persone si esprimevano con poesie, musica e canti originalissimi. Dopo che ascoltò il mio brano, Treble mi invitò con Enza a casa sua perché voleva inciderlo; era rimasto colpito dal testo, che era la storia di tutti i manifestanti.  Io non me lo sono fatto ripetere due volte perché sono un grande ammiratore dei Sud Sound System e di lui. Sant’Asili è un brano contro tutte le grandi opere, specialmente quelle che coinvolgono il mare.

Dal punto di vista compositivo come si è indirizzato il lavoro di scrittura di questo brano?
Amo e colleziono in casa piccoli libri senza editore, che si trovano nei Tabacchi o negli alimentari, scritti
da gente semplice a cui interessa solo di lasciare un ricordo per il proprio paese, (diciamo i libri che preferisco). Ma il Salento è la patria anche di Fiore, Bodini, Verri, Macrì, Girolamo Comi, per citarne alcuni, e Rocco Cataldi, un poeta scrittore parabitano scomparso nel 2004, che descrive in modo unico il mondo contadino, con i suoi costumi e suoi riti scanditi dal tempo e dalla luna. Mi sono ispirato anche a lui per comporre i brani, facendo cenno a qualche sua poesia. 

Torniamo alla figura di Rocco Cataldi del quale hai messo in musica due poesie tra cui “Li furisi”…
“A li Furisi” è una bellissima cartolina del Salento degli anni Cinquanta. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini tornati a casa non avevano di che vivere, volevano la terra. Si sono dovuti rimboccare le maniche e con le donne hanno “buttato il sangue” per cercare di ritrovare prima di tutto una dignità, quella dignità che non è stata mai rispettata, e poi un futuro. Stiamo parlando di un periodo che sta tra il 1945 e il 1952.  La gente moriva di fame e i terreni erano nelle mani dei grandi proprietari terrieri. Dalle promesse mai mantenute sono nate alla fine le questioni meridionali. L’interesse verso la poesia di Rocco Cataldi nasce per caso. Andai a Parabita, infatti, ad intervistare un altro grande uomo di cultura salentino, un esperto di rivolte contadine, Aldo D’Antico, scomparso lo scorso anno. In quell’occasione, venne fuori il nome di Rocco Cataldi e mi regalò un suo libro. Ho scoperto un mondo, l’uso del dialetto in una nuova veste, unico, pieno di termini arcaici e bellissimi. Ho voluto saperne di più e, così, ho conosciuto i figli e la famiglia e con loro ho stretto un rapporto molto intenso. La descrizione che fa del Salento è bellissima perché racchiude tutta la ricchezza del nostro territorio e della nostra Cultura salentina.

L’altra poesia di Rocco Cataldi che hai messo in musica è “Moi ca nc’è lu sule”…
C’è un concetto filosofico in questi versi: “Te frate a frate moi ca nc’è lu sule/fatte nu pienu all’anima te luce/e ffanni e fanni e fatte luce/ca quandu minte e ttanti e nnu la troi/O ci la tori va senza lucignu/nu rresci ddumi mancu ‘na candila/e unu rretu l’addhu tispiettusi/li pospiri te mosciane la lingua/ e mmorene ritendu”. “Da fratello a fratello, ora che c’è il sole, riempi l’anima di luce, fatti luce e illumina che quando tramonta questa luce la cerchi e non la trovi o se la trovi non ha più scintilla e non può accendere nemmeno una candela. Uno dietro l’altro i fiammiferi ti fanno la lingua e muoiono ridendo. Per certi versi potrei pensare anche a un Mario Sgalambro del Salento. Non voglio esagerare, ma stiamo parlando di questo. 

Ulivi, invece, è su liriche di Giuseppe Semeraro…
Qualcuno ha detto che Ulivi rimanda a certe cose di Franco Battiato che certamente è un mio riferimento, qualche altro, invece, ha detto che ricorda Lucio Dalla di cui amo brani come “Futura”, “Caruso” o “Come è profondo il mare”. C’è questo fraseggio poetico, molto cadenzato in alcuni punti che li può ricordare. In realtà, la poesia di Giuseppe Semeraro è lunga e io l’ho adattata perché non mi sarei mai permesso di tagliarla senza criterio. La scrittura di Giuseppe Semeraro è straordinaria nel cogliere quest’immagine forte con gli ulivi, al tramonto, belli anche se ormai morti, senza frutti, senza foglie. Sono quattro versi
però pieni di amore. La musica che ho pensato per queste parole è molto dolce e nasce dalla voglia di rivederli ancora verdi e fruttuosi, come lo sono stati per duemila anni.

Abbiamo parlato di denuncia, di protesta ma dove c’è la speranza in “Talassa”?
Dovranno passare chissà quanti anni, ma credo in un futuro in cui i valori spirituali  e la conoscenza culturale avrà un ruolo predominante nella società.  Non voglio credere che non ci sia più niente da fare

C’è una matrice anche autobiografica in “Talassa”…
In tutti i brani c’è qualcosa di autobiografico, ma in particolare c’è nel brano che dà il titolo all’album. “Talassa”, l’ho dedicata al mare ma anche alla persona che mi sta accanto. C'è anche la mia gioventù, il mio modo di vedere il mare. Sono di Santa Maria al Bagno e quando ero piccolo vedevo le persone che entravano in acqua piano, non si immergevano subito. Questo per dirti che non c’è bisogno di arrivare subito (per primi) nella vita, ma bisogna godersi ogni momento, piano piano. È un po' la filosofia dell'acqua, quella che supera ogni cosa e di ogni cosa si abbevera. L'acqua è così, scorre, va ovunque.

Hai già presentato il disco dal vivo, come si evolvono questi nuovi brani sul palco?
Non è stato un discorso semplice, soprattutto per me che vengo da una scuola tradizionale. Ho dovuto rivoluzionare un po’ tutto il mio approccio al live perché stiamo lavorando con le sequenze. Usiamo le cuffie e non i monitor e questo da un lato distrugge un po’ tutto, ma dall’altro ci consente una forma di
esecuzione di altissima qualità. Ad accompagnarmi c’è un quartetto composto da musicisti che conosco da una vita come Giorgio Distante alla tuba e alla tromba, Gianluca Longo alla mandola e mandolino, Marco Rollo uno sperimentatore ma anche un musicista classico che si divide tra tastiere, pianoforte e synth. C’è anche Alessandro Lorusso del gruppo DUB, Insintesi. Io suono pochissimo la chitarra e questo mi consente di concentrarmi maggiormente sul canto, sulla voce e sui miei racconti, anche perché i temi delle canzoni richiedono concentrazione. 

Oltre al disco nella sua interezza proponi anche altri brani in concerto?
Eseguo altri brani, inediti, scritti ex novo e mai pubblicati o eseguiti; ma anche delle rielaborazioni di alcuni canti della tradizione. C'è, insomma, il giusto equilibrio tra composizioni nuove e tradizione. C'è un suono urbano molto presente e dall'altra parte c'è anche la delicatezza di una storia di mare cantata per chitarra e voce. 



Dario Muci – Talassa (Zero Zero Nove/Self/Believe, 2024)
“Talassa” è questo il titolo del nuovo album di Dario Muci, la sua prima raccolta di brani inediti di cui firma testi e musiche, un lavoro frutto di una gestazione durata otto anni nel corso dei quali, pian piano, hanno preso forma otto brani di rara intensità e potenza espressiva nel quale si intrecciano dolore e bellezza, amore e morte, denuncia e speranza. Non casuale, in questo senso, è la scelta del titolo, come scrive il musicista salentino nella presentazione del disco: “Talassa è l’ennesimo atto d’amore per la mia terra. Qualcosa che mi viene dall’anima e che non riesco più a trattenere. Talassa è il mare che abbiamo dentro, la nostra interiorità,  così potente e profonda, calma, misteriosa, ma anche agitata e ansiosa. È un luogo di straordinaria bellezza con molte parti ancora inesplorate e sconosciute, con i suoi riflessi di luce…l’amore, la speranza, la gioia”. Si tratta di storie che traggono ispirazione da fatti di cronaca o memorie del passato, ma anche dagli studi sull’immigrazione dell’indimenticato Alessandro Leogrande o dagli scritti di Vittorio Bodini sulle rivolte dell’Arneo, storie di drammatica urgenza di migranti, di sfruttamento sul lavoro, di lotta per la difesa dell’ambiente e di ulivi che conservano la loro bellezza anche quando sono orami secchi. I testi di Muci (eccetto “Ulivi” su testo di Giuseppe Semeraro e “Moi ca nc’è lu sule” e “A lli furisi” su liriche di Rocco Cataldi) mescolano il dialetto salentino, il grico, l’italiano e l’arabo, e affondano le radici nella tradizione dei cantastorie come Otello Profazio, Orazio Strano e Matteo Salvatore, ma anche alla canzone d’autore italiana che si intravede sullo sfondo. Tutto ciò, si è tradotto a livello musicale in un suono urban, moderno con attraversamenti sonori che vedono la world music incrociare la fusion, il dub, il gospel, la trance e l’elettronica. Ad accompagnare, Dario Muci in questa nuova avventura sono alcuni tra i strumentisti di maggior talento della scena musicale salentina: Roberto Chiga (percussioni), Giovanni Chirico (sax tenore e baritono), Vito de Lorenzi (percussioni), Claudia De Ventura (voce), Giorgio Distante (tuba, tromba), Adolfo La Volpe (oud), Gianluca Longo (mandola e mandolino), Alessandro Lorusso (dub master), Matteo Resta (basso), Marco Rollo (piano), Marco Schiavone (violoncello) e Marco Tuma (fiati), a cui si aggiungono gli ospiti Enza Pagliara, Raphael Gualazzi, Nabil Salameh, Treble e Rocky G. Vox. Ad aprire il disco sono liriche del poeta salentino Rocco Cataldi di “A li furisi” su cui Dario Muci ha costruito un abito sonoro elegante ed evocativo giocato sull’elettronica, le corde e il pianoforte su cui si inseriscono le voci. E’ una scheggia di passato in cui è descritta la campagna salentina degli anni Sessanta e in controluce emerge in contrasto la condizione di sfruttamento a cui sono sottoposti i contadini oggi, per lo più stranieri. Il racconto delle lotte in difesa dell’ambiente del popolo salentino, ed in particolare contro i gasdotti del Mediterraneo, sono affidate alla superba  “Sant’Asili” che ci conduce nei territori del dub con l’arrangiamento in levare di Giorgio Distante, scandito dai fiati e la voce di Muci che duetta con Treble, Rocky G. Vox e Enza Pagliara. Si prosegue con la preghiera laica al Dio del mare, “Ommuammare”, uno dei brani più toccanti del disco con le voci di Dario Muci e Nabil Salameh che, sulla trama dell’oud di Adolfo La Volte, intrecciando salentino e in arabo raccontando il dramma dei tanti migranti che trovano la morte nelle acque del Mediterraneo, abbandonati da scafisti senza scrupoli ma anche da insensate scelte politiche. I versi di Rocco Cataldi tornano nella splendida “Moi can nc’è lu sule”, un brano che non avrebbe sfigurato in un disco di Franco Battiato e che ci consegna una riflessione dal profondo tratto filosofico sulla bellezza e l’importanza di trasmetterla agli altri. Ad esaltarne la potenza lirica è l’arrangiamento minimale con il pianoforte e l’elettronica in cui sul finale si inserisce il solo di ciaramella irachena di Marco Tuma di grande suggestione. La pianistica “Mohammed” suonata e arrangiata da Raphael Gualazzi vede la partecipazione alle voci di Enza Pagliara e Claudia De Ventura che armonizzano nel refrain “Amara terra mara” e racconta la commovente storia di Abdullah Mohammed morto, il 20 luglio 2015, nelle campagne di Nardò mentre raccoglieva pomodori sotto il sole cocente. Se lo struggente canto d’amore in grico “Talassa”  spicca per l’arrangiamento cameristico con violoncello e flauto traverso, nella successiva “Sciurnatieri” è un'altra istantanea di prepotente attualità con la drammatica descrizione dello sfruttamento dei braccianti a giornata. Il vertice di tutto il disco arriva con la conclusiva “Ulivi” su testo di Giuseppe Semeraro in cui viene descritto un tramonto con gli ulivi ormai secchi che appaiono di una bellezza quasi divina, mai vista prima. La voce di Muci è avvolta dall’incanto acustico delle corde di Gianluca Longo, arricchite dal violoncello di Marco Schiavone e il clarinetto di Marco Tuma. “Talassa” è, dunque, un disco di fulminante bellezza, un esempio di come lo studio e la ricerca consapevole sulla musica di tradizione orale possa essere una importante base ispirativa affinché possano essere il fondamento di un repertorio d'autore.


Salvatore Esposito

Foto di Daniele Met

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