In morte del Maestro De Simone

Per chi considera Napoli un luogo di complessa stratificazione culturale quasi fosse un libro a cielo aperto da provare a decodificare, Roberto De Simone ha rappresentato l’intellettuale di casa, lo studioso con cui eri in dialogo costante, testi alla mano, alla ricerca di prospettive euristiche, di conferme mai indulgenti. Sorprendente è rilevare quanto il suo operato, come compositore, drammaturgo, regista teatrale, musicologo, abbia unito nel segno della conoscenza e del godimento estetico individui che per generazione ed estrazione culturale appaiono distanti. Per esempio, nel florido mondo del mercato delle musicassette false di Napoli c’erano venditori che orgogliosamente esponevano sulle bancarelle la copia de “La Gatta Cenerentola”, questo è riferito per testimonianza diretta. Per quanto riguarda chi scrive l’incontro con De Simone risale a quando appena iscritta all’università mi imbattei nei sette lp de La tradizione popolare in Campania, un compendio eccezionale degli stili di canto e delle antiche forme popolari (ninnenanne, tammurriate, canti a ffigliola, balli) poi ripubblicato in cd con il titolo “Son sei sorelle” da Squilibri (2010), a casa di un noto avvocato napoletano che con lo stesso orgoglio dei bancarellai abusivi mi introdusse al rarissimo oggetto che avevo tra le mani. Tempo dopo l’avvocato mi disse che quei dischi erano scomparsi da casa sua e ho sempre nutrito il sospetto che avesse pensato che il trafugamento fosse opera mia. Il lascito di De Simone è immenso non solo in termini di opere vere e proprie ma soprattutto perché in Italia attraverso il suo insegnamento abbiamo imparato a leggere la cultura popolare come
depositaria di una tradizione antica e preziosa contro ogni oleografia che schiaccia la realtà sul piano del presente, a ricollocare il mondo dell’oralità nella sua dimensione metastorica, a considerarlo a partire dalle fonti che quel mondo stesso esprime restituendogli quel carattere comunitario precipuo e irripetibile. Una visione poetica più che scientifica, ma in ogni caso necessaria. Quando il compositore incontrò i giovani membri della costituenda Nuova Compagnia di Canto Popolare, allora formata da Giovanni Mauriello, Eugenio Bennato e Carlo d’Angiò ai quali in seguito si sarebbero aggiunti Patrizia Schettino, Peppe Barra, Patrizio Trampetti e poi Fausta Vetere in sostituzione della Schettino, non esitò a indirizzarli verso una strada diversa dal semplice “ricalco”. In quegli anni insieme a quei ragazzi c’era Edoardo Bennato che con il brano emblematico "Rinnegato" (1973) aveva rotto i ponti con la tradizione ma non mancò di tributare al maestro un riconoscimento esplicito (“Avete letto mai Roberto De Simone?/ Ha fatto un lungo viaggio nella tradizione/ E dice che in Italia, col passar degli anni/ La musica peggiora e non si va più avanti"). Negli anni Sessanta grazie alla forza dirompente delle ricerche compiute nel decennio precedente da Ernesto de Martino, Diego Carpitella e Alan Lomax e alle suggestioni derivate dalla lettura di Claude Levi-Strauss, dal lavoro di Pasolini sulla poesia popolare italiana avviene per De Simone l’incontro con la musica popolare nella quale il compositore rileva quella qualità funzionale che sentiva carente nella musica appresa in conservatorio. Fu chiaro per lui che la costruzione della tradizione attraverso le forme e i comportamenti stereotipati del rito, fosse l’unica risposta possibile per l’uomo di fronte al senso di spaesamento radicale che lo coglie in presenza di eventi estremi come il lutto o lo sradicamento dal paese di origine. De Simone fu critico nei confronti del folk revival che vedeva come la vuota riproduzione di una dimensione dell’umano che può manifestarsi autenticamente solo nella forma che le è propria. Spronò i giovani della Nuova Compagnia di Canto Popolare a volgere lo sguardo alle manifestazioni dei contesti popolari nel momento reale in cui quei canti e quelle musiche si mostrano, nei momenti rituali della festa contadina, pastorale ma anche dei contesti urbani. 

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