Hommage a Roberto De Simone

Si è detto tanto del Maestro De Simone e tanto ancora viene detto, ora che ci ha lasciato, non solo dai molti fortunati che hanno condiviso con lui esperienze artistiche ma anche da parte di quel coro di “eduardiani” che il Maestro elesse a categoria significativa della decadenza, intesa come “letteraturizzazione” della aristocrazia del gesto e dell’oralità che da sempre hanno animato Il teatro popolare napoletano. Un punto, questo, davvero significativo. Voglio mettere in luce il dettaglio in questo breve hommage al Maestro con un procedimento induttivo, vale a dire dal particolare al generale. Un generale che, dopotutto, è noto. Roberto De Simone è stato Maestro indiscusso già dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso di un’arte complessa e minacciata dall’omologazione ch’era la summa sapienziale e alchemica del teatro popolare (e musicale) della tradizione napoletana. Lo faceva ad un tempo con le armi del ricercatore sul campo, dell’antropologo, del raffinato trascrittore e arrangiatore, nonché compositore in pentagramma, del regista, del saggista, del visionario nel ricomporre insiemi significativi dai frammenti ritrovati e dalle sopravvivenze folkloriche in Campania e non solo. I frutti si sono visti e hanno lasciato un segno indelebile e, dati gli esiti artistici, incontrovertibile. Tutti noi nelle diverse gradazioni di interpreti, autori e soprattutto spettatori, abbiamo dentro una qualche scintilla, eccentrica, di Roberto De Simone. La sua attività toccò vette apicali proprio in quei “Settanta” in cui, grazie a personaggi come de Martino, Lomax, Carpitella, Leydi e, a seguire, di un movimento, diventato massa critica sulle rivoluzioni studentesche e operaie del ‘68; grazie a quella forte disamina filosofica del neocapitalismo, che emanava dalla Scuola di Francoforte di Herbert Marcuse, era in atto uno sguardo e un recupero esistenziale, con forti connotazioni
ideologiche, del patrimonio presente in Italia in larghe fasce folkloriche che niente o poco avevano a che vedere, negli stilemi culturali più profondi, con il colto e il chiesastico. Lì, possiamo dire, il Maestro la fece da padrone. Da par suo, si capisce. La Compagnia di Canto Popolare non fu semplicemente un insieme di bravi cantori e musici di riproposta. Con la scrittura composita di un patrimonio recuperato, con gli arrangiamenti raffinati e una scelta di interpreti alchemica, essa inaugura una fenomenologia del popolare capace di penetrare per sorpresa e intrattenimento, il tempo nuovo. Capace di vivere nelle manifestazioni di piazza e nei teatri allora per lo più di marca borghese. Fu un progetto vincente che sebbene accusato di un manierismo che ottundeva gli esiti originari e ritualistici del loro repertorio, produsse spazio a molte formazioni concettualmente analoghe magari più dure, politiche, operaie e proletarie. La Compagnia dei Settanta era una “machina/desimoniana”, magari celibe, ma perfetta. In questo senso, ma sullo stesso piano fenomenologico, esplose a Spoleto nel ‘76, la “Gatta Cenerentola” e questa volta il Maestro mise in scena una ‘macchina teatrale’ che segnò il passo decisivo verso la consacrazione del “popolare” all’interno dell’Arte Contemporanea. La Gatta entrava dalla porta principale a furor di popolo ammirata e teneramente amata dagli artisti più eccentrici e gettonati della Avanguardia Teatrale, della Danza Internazionale, della Musica. 

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