Hommage a Roberto De Simone

Del resto, a ben guardare, il Maestro regista e compositore, ben conosceva le istanze che arrivavano dalle varie discipline del tempo: Teatro, Danza,  Teatro Musicale Contemporaneo. Anni dopo, siamo nel 1986, ebbi l’onore di collaborare con la Bausch per lo spettacolo Viktor, al teatro Argentina di Roma e più di una volta Pina parlò della Gatta Cenerentola, persino commovendosi, e ammettendo ch’era stata, nel profondo, uno dei suoi motivi di ispirazione. In quel periodo dei settanta, tuttavia, il Maestro, non pago del grande successo ottenuto, continuava la sua molteplice attività di ricercatore e compositore. Assistetti a diversi suoi interventi in ambito etnomusicologico durante i quali esemplificava quanto diceva con l’uso di una Tammorra, fatto inconsueto allora. Si aveva la chiara percezione che il Maestro arrivava da lontano. Dai canti e le accentazioni del mercato del cinque/seicento quando un giovane Mozart – stando alle cronache del 1770 – orecchiava in Carrozza tra i Quartieri e il San Carlo e trascriveva da ladro sublime. Arrivava dai Madrigali di Gesualdo, dal parolare delle moresche nella Napoli ch’era terra di musicisti “negri” e anticipavano di qualche secolo le musiche afroamericane di fusione e così via. Escursioni straordinarie che non trascuravano - ho capito con il tempo - quel settecento napoletano intriso dai saperi alchemici di persone come il Principe di San Severo. Il punto decisivo per De Simone è stato quel ribadire – e qui la sineddoche, il dettaglio che lo caratterizza, di cui parlavo – di com’era il teatro napoletano prima che fosse, diceva, “appiattito dal commediare” di Eduardo De Filippo omologandosi alla nuova cultura “nazionale” di tipo libresco, dimenticando (e facendo dimenticare) quell’infinito patrimonio di gesti codificato in termini di vero e proprio linguaggio formalizzato nei secoli. Una trasformazione per compiacere il mainstream del tempo e in primis “la bassa borghesia napoletana tutta caffè ragù e qualche altra stronzata”, diceva. A Eduardo contrapponeva, ad 
esempio, Totò che in questo senso rappresentava, anche nella cultura di massa dei sessanta, un autore di gesti. L’ appiattimento invece avveniva con l’operazione teatrale “defilippiana” in cui il teatro di tradizione (ma ancora vivissimo e politicamente efficace) veniva sommerso da un teatro che passava alla “mediaticità” trascurando in favore del testo scritto proprio elementi come l’oralità, la fonetica, la gestualità intesa come corpus danzante. Da teatro del gesto a teatro del testo, diceva. Ne fece di questo una battaglia epico/poetica e di resistenza culturale. In questo – va detto – non fu solo. Non dimentichiamo gli studi e le indagini di democinesica (di gestualità popolare) condotte da Diego Carpitella. Ma anche – ...not least – la scrittura scenica delle Avanguardie Teatrali Romane e poi Europee. La esasperata fonetica di Carmelo Bene disarticolando il testo, Il Tanz Theater di Pina Bausch o anche il terzo teatro Grotoskyano di Eugenio Barba e il suo Odin Teatret e molte delle nuove scritture della musica contemporanea postweberniana. In questo senso il Maestro De Simone era riuscito nella operazione, questa si alchemica, a mio parere, di percorrere una rivoluzione copernicana e allinearsi, dall’esplorazione profonda della tradizione, ai molti pianeti delle avanguardie culturali mondiali. Per la strenua difesa e profonda conoscenza di un mondo ricchissimo ch’egli intuiva contenere forti anticorpi al neocapitalismo e, in grado di difenderci dal mainstream, il Maestro è stato anche personaggio scomodo. Carattere difficile fu incapace di sopportare la stupidità dell’Accademia… va reso merito. Aggiungiamo la critica indefessa e a vari livelli, della cultura omologata di massa che ci ha invaso ancor prima di questa nostra condizione attuale che ora definirei: “tecnomologazione punto 2 di non ritorno”, che il Maestro, però, si è risparmiato, lasciandoci. Ma lo ha fatto in gran solitudine come ha rimproverato Riccardo Muti. R.I.P. Maestro Roberto De Simone. 

Luigi Cinque

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