Son Sei Sorelle

Dall'eBook "Viaggio in Italia" a cura di Ciro De Rosa e Salvatore Esposito, edito da SquiLibri

Posso parlare da osservatore schizofrenico di Roberto De Simone, e mi auguro di essere ispirato proprio da quella schizofrenia che mi permette di parlare di ciò che ho fatto per queste mie ricerche, senza ripetere osservazioni e riflessioni già note. Vorrei soffermarmi su alcune cose, per quello che riguarda l’emblematicità con la quale io tratto certi materiali. Il titolo “Son Sei Sorelle” mi è venuto in mente, in parte suggerito proprio dall’editore, perché guardavo alla tradizione. Poi, pensai ad un altro titolo: “Erano Sei Sorelle”, perché non ci sono più, ma ci ho ripensato ancora una volta, e mi sono detto “o ci sono tutte e sei o niente!”. La settima c’è, ma è invisibile, perché è colei che fa ritornare le Sei Sorelle, che possono essere le stagioni dell’anno, come l’primavera e l’estate, mentre quella brutta e nera rappresenta invece l’autunno e l’inverno, in un unico personaggio. Questo volume è così un’opera mai iniziata e mai conclusa! Quest’opera non è mai cominciata per me, perché non so quando ho preso a lavorarci. Non si può dire conclusa, perché continuo ad osservare, a girare, a vedere, a confrontare ciò che ho raccolto. Posso dire solamente che per me la ricerca è qualche cosa di esaltante, qualche cosa che mi fa ritornare all’età di otto, nove anni, ed è come se improvvisamente il passato della mia infanzia, che non ricordo, mi piombasse addosso, alle spalle, inondandomi come uno tsunami, mi travolge. Alla fine, io non ricordo, dettagliatamente, che cosa ho rivelato, perché questo qualcosa me lo ricorderò con il tempo. Ecco perché un’opera come questa ha richiesto tanto tempo per essere compilata. Dico un’altar cosa: io non mi sono mai emozionato riferendomi al passato, io mi emoziono, e mi emozionerò, perché è l’azione del passato se rimane ferma nel suo passato è qualcosa di concluso, di terminato, ma ritorna. Ed è per questo che l’opera non è mai finita, e non la terminerò nemmeno quando morirò, perché ho fiducia di continuarla nella tradizione dei morti; lì continuerò a sperimentare, forse, il rapporto dell’oralità nel mondo dei morti. Anche perché lì non c’è scrittura, o se c’è è una scrittura che non ha più il tempo, che è al di fuori del tempo, è una scrittura che, diremmo, solo metastorica. Mentre noi qui siamo, purtroppo, soggetti alla prigione della Storia, una storia che non ci consente di comprendere la cultura che animava questa tradizione, che va definita come aristocratica ed elitaria. Non è vero che la tradizione popolare è popolare nel senso di tradizione di massa, ma è qualcosa di estraneo alla massa, perché non tende a massificare l’individuo all’interno di un solo concetto imposto dall’alto. Ma instaura una collettività in cui io sono allo stesso tempo individuo. E questo volume vuole metterlo in risalto: (i protagonisti sono) gli egregi esecutori di un’opera collettiva, sono collettività, perché la collettività in loro si rispecchiava, condivideva il loro dire, il loro cantare, il loro agire performativo; un agire in continua mutazione: perciò non fisso nel tempo, come un documento storico. Questi sono documenti di un momento ben preciso, infatti, se gli stessi individui oggi ripetessero questi brani, li rifarebbero in maniera diversa, perché la caratteristica della tradizione è la creatività all’interno di una ripetitività. 

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