Ed è quello che contraddistingueva una volta anche la storia della musica. La parzialità della cultura cosiddetta ufficiale rispetto all’interezza della cultura intesa nel senso di una cultura popolare. Perché la cultura popolare si base sull’oralità, la tradizione rimane all’interno di qualcosa che non si può identificare in una sola espressione, ma è la miriade multiforme di varianti, sono varianti gli stessi corpi e le voci degli esecutori, che si fa protagonista del rito. Non sempre la tradizione è composta di agenti, di personaggi che cantano e di pubblico rituale che assiste e partecipa: a volte, la tradizione può essere costituita dagli stessi attori e cantanti che diventano anche pubblico. Questo aspetto mi è stato chiarito osservando la zona del casertano. Ricordo che era l’inizio degli anni Settanta, quando conducevo le mie ricerche con il supporto di Gianni Gugliotta; fu lui che mi suggerì l’idea di verificare il rituale di Sant’Antonio Abate, con i carri fatti di percussioni e di una musica originalissima, anche questa improntata all’improvvisazione del momento, all’estro di un capogruppo che ne impartiva gli ordini con un fischietto. Questo rito si connotava con un dato che, in realtà, è comune a tutte le manifestazioni popolari: la violenza. Il rito popolare è violento, è qualcosa di violento che tende a fracassare, a squilibrare i livelli di Storia e di non-Storia, e a farci cadere in una dimensione che molto spesso si traduce come vera e propria trance. Se osservate attentamente i volti fotografati da Mimmo Jodice, nemmeno nel momento dell’esecuzione del rito, ma dell’esecuzione in studio, vedrete gli stessi atteggiamenti estatici che si notano durante le esecuzioni rituali di queste festività. Da ciò, la mia impressione sulla cultura che non può essere solamente affidata a ciò che la Storia ci rimanda attraverso lo scritto. Ma bisogna che questo documento venga integrato da quella componente orale, che noi possiamo soltanto immaginare, ma che non ci è stata tramandata per via scritta. Ecco la mia necessità, nel momento in cui rivisito Monteverdi o rivisito Pergolesi, è immaginare quello che non c’è nella partitura scritta, ciò che manca, perfino nelle partiture di autori più recenti, come Stravinskij: che cosa ha sentito l’autore nello scrivere sul rigo musicale, sul pentagramma questi suoni. E qui entra in ballo quello che io chiamo la creatività artistica, l’immaginazione, fantasia pura. Leggendo i documenti, non tanto quelli ufficiali della Storia, che sono ancora improntati ad una sorta positivismo in ritardo, ma attraverso le pieghe della Storia, è importante per capire la realtà della storia, rileggere quei documenti che ci sono arrivati da fonti non ufficiali, attraverso una canzone, un’annotazione di un viaggiatore, una lettera scritta da Metastasio su Farinelli in soccorso del musicista Porpora, suo maestro. Questi documenti sono spesso più importanti di quelli ufficiali, perché ci dicono l’agire performativo dei cantanti o degli esecutori di un determinato periodo storico. I cantanti del Settecento non cantavano come cantano i cantanti d’oggi all’opera. Nel momento in cui un autore come Pergolesi scrive un’aria, la compone, poi annota che va ripetuta daccapo fino al segno e poi si giunge al finale, presuppone che si ripeta reinventandola dall’inizio, e questo senza che l’autore abbia scritto nulla, ma attivando una prassi già consolidata e assorbita senza bisogno di doverla mettere per iscritto. Oggi che non c’è un cantante in grado di reinventare quella parte che Pergolesi non ha scritto, io mi sento autorizzato a farlo, perché io sono il destinatario di quel documento, in cui ci dice di ripetere tutto daccapo, con le dovute varianti. Magari poi mi faccio aiutare dal cantante per altre cose, ma penso che questo tipo di cultura sia alla base di un rinnovamento della cultura, che escluda l’univocità di un linguaggio accademico putrefatto, di quell’italiano che parla Berlusconi, che parla D’Alema, un italiano falso di fondo, perché non ha varianti.
Se fate caso dicono tutti le stesse cose, tutti, perché non hanno varianti, non hanno la capacità di variare il linguaggio e renderlo comunicativo, perché non comunicano nulla. Se non c’è una rivoluzione culturale che metta al muro il rinnovamento del linguaggio, noi non avremo una nuova nazione. È un problema strettamente culturale. Ci alterneremo con questo o quello: io farò, io dirò, è tutto al futuro, ma il presente dov’è? Il passato dov’è? Non c’è! Questo libro è anche una testimonianza del passato, ma cosa racconta? Racconta anche la gestazione di questa ricerca avvenuta nell’arco di sette-otto anni. Io ho proposto alla Regione Campania, alla Sovrintendenza, la partecipazione all’opera, che sarebbe stata doverosa dato il contenuto campano dell’opera, ma la cosa è stata sempre deviata, rimandata, mai conclusa. Perché il regime bassoliniano e Roberto De Simone erano molto spesso in contrasto. Vuoi perché io non ho una lingua in vendita, come ce l’hanno tanti, e per lingua intendo il linguaggio, che sono le parole così come vanno dette, chiaramente, senza equivoci, né, praticamente, ci si può comprare il silenzio, che è dei vigliacchi. Noi ci attiviamo con il suono, che è alla base della civiltà umana, la parola, il logos, che è divino, il suono, parola, musica, corpo umano, che è una fonte di energia straordinaria, di cui i politici non tengono conto, perché credono che siamo una massa di idioti ignoranti, di corpi senza pensieri. Noi, con un volume del genere, attiviamo i nostri pensieri, perché li rendiamo balsamo, come fuoco, come carboni ardenti che incendiano. La parola vera incendia, la parola da sola riscalda, ma non incendia, riscalda menti assuefatte, menti comprate, menti non creative, quelle che si adeguano al conosciuto. Parli di libertà e io penso alla parola Libertà, ma non si capisce cosa sia la libertà, se libertà di una persona è essere in grado di uscire da casa propria e andare dove gli pare, la libertà vera è pensare criticamente! La cultura popolare insegna la verità del linguaggio, che scaturisce dalla riproposta del passato in una proiezione futura. Son Sei Sorelle è anche un’accusa al potere passato della Campania, alla stessa Regione gestita per diciassette anni dagli stessi colori politici di sinistra, che ha rifiutato ogni accordo con risposte evasive. È un’accusa a tutto ciò che oggi viene fatto in nome del mondo popolare, allestendo Notti delle tammorre, Notti delle tarante, Notti di qua e di là. Questo è un macigno che schiaccia queste cose, e le schiaccia con profonda forza. In realtà, a Caserta potrei vedere oggi alcuni volti che sono stati miei collaboratori, evidentemente un’opera del genere a questi rifacitori successivi dell’opera incominciata da me non interessa, o forse quest’opera è una cartina di tornasole attraverso cui voi potete capire la fasulleria di cose che si propongono con i termini di popolare, tammurriate, tammorre, Madonne: tutte parole vuote di significato, perché non inserite nel lessico in cui hanno avuto valore. Il mio lavoro è questo, e lo continuerò ancora. Avrei voluto in Campania offrire alla Regione Campania anche le mie raccolte anche di stampe, una splendida raccolta di testimonianze di terracotta sul mondo del presepe popolare, che, di fatto, in Campania è esaltato solo nella forma aristocratica del pastore settecentesco – per carità esteticamente bello – ma dal punto di vista religioso privo di contenuto, perché riflettere il denaro che c’è voluto per comprare quei pezzi. Un museo della Campania è stato promosso da me più volte, anche al già nominato Bassolino e alla sua squadra, ma non ha mai trovato accoglimento, né per una conversione, né per un luogo dove accogliere queste cose.
Ultimamente mi chiedevo, che fare? Lo donerò alla Svizzera, lo manderò all’estero. È una testimonianza troppo importante per essere venduto alla mia morte in un negozio di antiquariato. È una raccolta unica che racconta il dato più importante della collettività popolare: la religiosità. La religiosità, che è sparita anche dall’ufficialità della Chiesa, cancellata da canti orribili, che non possono assolutamente essere rappresentativi di un’istituzione millenaria, come la Chiesa. È per questo che la maggior parte di questi canti sono dedicati alla Settimana santa. Molti sono dedicati a momenti profani, quali il Carnevale, che rientrano sempre tra i momenti religiosi, a momenti di raccolta, di lavoro. Io conoscevo, nella zona di Marcianise, un cantatore straordinario, Alfredo Ordano, che era un raccoglitore di canapa. Fu lui a trasmettermi ciò che cantavano i raccoglitori di canapa, quando eseguivano il loro lavoro. Questo l’ho potuto fare qui vicino, nel beneventano, dove ho raccolto i gruppi corali che si attivavano per Montevergine. Era difficilissimo negli anni Sessanta raggiungere quelle località, dove era attivo il canto di lavoro. Per me, anche il Cilento è stato una base importante per la raccolta di canti di lavoro, così come Caserta, dove ho registrato i canti alla carbonara, che erano canti di lavoro. Lì ho registrato i canti di questo Alfredo Ordano, che penso sia uno dei più strepitosi cantanti o cantatori che abbia incontrato. Anzi, invito a trasmettere come conclusione di questa prolusione un po’ disordinata, pindarica, accozzata insieme con l’unità stilistica dei canti di Ordano. 1 Sono dei canti di profondo contenuto erotico, straordinari, un contenuto erotico che non va inquadrati nell’ambito della provocazione morale, ma va inquadrato nella stessa religiosità di cui fa parte l’erotismo, una componente importante della religiosità popolare. Va notata l’aristocrazia, la sublime intonazione di questo cantante, che non ha nulla da invidiare ai grandi cantanti della lirica o della musica leggera, aggiungendo a questo quella sacralità epica, che lo rendeva unico nel suo genere. Purtroppo questo prezioso interprete è defunto, era anziano quando l’ho conosciuto, ma fu disponibilissimo tanto da essere venuto in sala di incisione per poter esprimere con la sua voce l’identità canora della zona casertana.
Roberto De Simone
Trascrizione a cura di Salvatore Esposito dell’intervento tenuto il 20 maggio 2011, nel corso della presentazione del volume di Roberto De Simone, Son Sei Sorelle. Rituali e canti della tradizione in Campania, Roma, Squilibri, 2010 presso il Teatro Comunale di Caserta.
1 È trasmessa la traccia n. 4 del CD 4 allegato al volume Son Sei Sorelle. Si tratta di canti per la lavorazione della canapa, interpretati da Alfredo Ordano (voce), registrati a Marcianise (CE) nel 1972.
Illustrazioni del Maestro Vincenzo Cacace