Eugenio Bennato – Canzoni Di Contrabbando (Taranta Power/iCompany, 2016)

Eugenio Bennato non ha bisogno di presentazioni, a parlare per lui è la sua carriera ultraquarantennale passata attraverso l’esperienza con la Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone, e i Musicanova, ed approdata ad un fortunato percorso come solista, che lo ha visto incrociare la tradizione musicale napoletana con i suoni e i ritmi del Mediterraneo. In occasione della pubblicazione dell’antologia “Canzoni Di Contrabbando”, lo abbiamo intervistato per farci raccontare questo nuovo progetto discografico, e ripercorrere le tappe principali della sua carriera. 

Com’è nata l’idea di realizzare l’antologia “Canzoni di Contrabbando”?
L’esigenza è quella di compendiare in un’antologia dei momenti di una carriera molto articolata e lunga, nel corso della quale ho pubblicato circa dodici, tredici album ed ho voluto raccoglierne i momenti più significativi seguendo un filo conduttore che è racchiuso nel titolo “Canzoni di Contrabbando”. Le canzoni che ho scritto, negli anni, in alcuni casi hanno raggiunto una grande popolarità come nel caso di “Brigante Se More”, tuttavia il successo è arrivato seguendo strade diverse, oscure, appunto di contrabbando, non seguendo la diffusione discografica o dei media in senso stretto. “Brigante Se More” in questo senso è emblematica perché la conoscono tutti e in tanti pensano sia addirittura un canto tradizionale perché l’hanno conosciuta per vie alternative rispetto alle logiche commerciali. Questo vale anche per altre tappe come “Ritmo di Contrabbando”, “Che Il Mediterraneo Sia”, oppure le canzoni su Ninco Nanco, che adesso è diventata una figura quasi di culto per un pubblico vastissimo che è venuto a conoscenza della storia negata dell’unità d’Italia. Ho pensato quindi che era era giusto fare un’antologia di tutti questi brani, anche per i tour all’estero dove sono interessatissimi ai vari temi che ho trattato.

Il singolo che ha anticipato l’uscita di “Canzoni di Contrabbando”, “Mon père et ma mère” rappresenta un ulteriore evoluzione del tuo songwriting…
La pubblicazione agli inizi degli anni Duemila di “Che Il Mediterraneo Sia” ha rappresentato una nuova ed ulteriore fase della mia carriera, in quanto aprivo le sonorità della nostra tradizione popolari a quelle di un  Mediterraneo affine dal punto di vista musicale dal rap arabo, alle percussioni del Nord Africa la sponda sud del Mare Nostrum, fino all’Africa del ritmo. “Mon père et ma mère” è la storia di Enric Parfait, un ragazzo partito dal Camerun nell’Africa Equatoriale e che, dopo aver attraversato il Sahara, arriva sulle coste del Mediterraneo. Si tratta di una storia vera perché l’ho raccolta un po’ di mesi fa dalla viva voce di questo ragazzo, incontrato a Tangeri, il quale mi ha regalato un foglietto con questi versi: “Mio padre e mia madre si son conosciuti in galera, in eredità mi hanno lasciato la miseria”. Mi ha colpito molto l’efficacia quasi ironica di questi versi e la loro musicalità, ed il francese che ci racconta l’andamento di un Sud del Mondo colonizzato e che aspira ad affacciarsi in Occidente. Ho decritto questo incontro con una melodia semplice, come lo sono quelle africane. Mia figlia, che è italo-francese e vive a Tangeri, dopo aver ascoltato ne è rimasta colpita in quanto coglieva il suo vivere quotidiano, ed è voluta intervenire con un rap che sottolinea alla sua maniera tutto ciò. Il tutto è avvenuto in maniera molto spontanea, molto scugnizza, e mi ha fatto piacere accogliere anche lei in questo brano.

In “Canzoni di Contrabbando” sono presenti anche alcuni brani reincisi per l’occasione…
La maggior parte dei brani sono stati remixati, altri invece ho deciso di registrarli nuovamente anche per dare una compattezza sonora a composizioni distribuite in un arco temporale molto ampio. Per quello che mi riguarda, questa è stata l’opportunità di constatare che brani scritti trent’anni fa possono essere tranquillamente riletti con il sound attuale, quello che ho raggiunto negli ultimi anni e che rappresenta un punto di forza della mia produzione. 

Com’è nata l’idea di registrare nuovamente “Brigante Se More”…
In realtà questo brano non l’ho mai cantato su disco perché a suo tempo nel disco dei Musicanova la cantava Carlo D’Angiò e la sua voce mi sembrava più adatta perché più ruvida e di grande impatto. 
E’ stato poi reinterpretato da tantissimi artisti e  durante i concerti accade spesso che a cantarla è il pubblico. In questa versione abbiamo pensato ad un’interpretazione in cui sono presene io con accanto Carlo D’Angiò che è il co-autore, e Pietra Montecorvino che è una delle voci italiane più intense della musica popolare. 

Dalla tua esperienza con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, passando per l’esperienza con i Musicanova, com’è cambiato il tuo approccio alla musica tradizionale?
All’inizio c’era l’entusiasmo e il rispetto per una scoperta straordinaria. Quando entrammo in contatto con le tammurriate del Vesuvio o del Casertano, le tarantelle del Gargano, le votate di organetto e chitarra battente calabresi, o ancora la musica popolare napoletana dei secoli passati, era il periodo in cui i giovani erano attratti dalla Beat Generation e dal rock e noi facemmo qualcosa di provocatorio, ma era dettato da un interesse artistico ed estetico. La Nuova Compagnia di Canto Popolare, diretta da Roberto De Simone e sponsorizzata da Eduardo De Filippo che ci portò al Festival di Spoleto, è come una scuola frequentata per anni che mi ha reso cosciente della necessità di inventare sulle strutture tradizionali qualcosa di nuovo che avessero a che fare con il presente. Nacque, così, l’idea di Musicanova con Carlo D’Angiò che rappresentava il primo tentativo da parte di due giovani dell’epoca di proporre brani originali su strutture popolari. Fu un exploit insperato perché non avremmo immaginato il successo di brani come “Brigante Se More” o “Pizzica Minore”, diventati veri e propri classici della musica popolare italiana.

Con l’inizio del tuo percorso come solista è arrivata anche la scelta di cominciare a scrivere anche testi in italiano…
E’ stato inevitabile perché la formula musicale utilizzata con i Musicanova non escludeva affatto l’uso dell’italiano, una lingua che Fabrizio De André aveva portato fuori dai “canoni” della canzonetta italiana. Sulla fascinazione estetica e le emozioni che arrivano dalla tradizione sono nati brani in italiano come “Le Città di Mare” e “Sole Sole” che avevano quel contenuto di “canzoni di contrabbando” e questa definizione mi sembra per nulla casuale. Agli inizi degli anni Novanta è arrivata un’ulteriore intuizione offertami dall’immagine della taranta. Era l’evoluzione ulteriore di quel percorso che avevamo contribuito a creare in Italia con la Nuova Compagnia di Canto Popolare con la quale proponevamo la tradizione in senso stretto e sotto varie forme, ma senza porre l’accento sulla sua valenza trasgressiva, prettamente ritmica, quel qualcosa che ci pone in contatto con gli altri Sud del mondo. Dall’associazione tra l’immagine della taranta e la potenza del ritmo prese vita l’idea di Taranta Power.   

In retrospettiva, qual è stata l’importanza di Taranta Power…
Taranta Power ha rappresentato una rivoluzione nella scena musicale e nella cultura italiana, innanzitutto perché ha contribuito ad avvicinare alla musica tradizionale e alla world music tanti giovani, allontanandoli dalla diffidenza verso questi generi musicali, e ha rappresentato una sfida verso l’inaridimento dello studio intellettuale. In quel periodo il termine tarantella aveva un connotato nostalgico e folcloristico, mentre Taranta Power rimandava all’idea trasgressiva del rock, al senso di opposizione verso la globalizzazione e la mercificazione della musica. C’è stata la riscoperta delle nostre radici, di questo universo che ci appartiene e che in quanto tale ci ha dato la possibilità di aprirci anche alla world music dalla quale l’Italia era stata assente nei decenni precedenti. 
Man mano il pubblico si è fatto più ampio e più cosciente, e questo nonostante i limiti dei grandi numeri, perché quando un festival come La Notte della Taranta diventa un fenomeno di massa, inevitabilmente c’è la necessità di controllare la qualità artistica, e la buona fede dei suoni. Questi sono certamente problemi da affrontare costantemente, ma c’è anche la coscienza di aver contribuito a salvare dall’oblio la cultura popolare del Sud Italia che alle soglie del 2000 poteva scomparire in modo definitivo. Abbiamo, quindi, colto nel segno perché è diventato un reale fenomeno di arte e cultura che si manifesta in decine di festival in migliaia di ragazzi che, per la prima volta da generazioni, imparato le tecniche per suonare il tamburo a cornice o della chitarra battente o ancora i passi delle danze tradizionali come la pizzica e la tarantella.

Quanto è stata importante per te l’esperienza con i Cantori di Carpino…
E’ stata fondamentale perché parliamo di un percorso che non è stato intellettuale, ma artistico. All’epoca i Cantori di Carpino erano solo dei contadini sconosciuti, ed ebbi modo di assistere ad un loro concerto che fecero in privato per me e Carlo D’Angiò rimasi molto colpito. Era la cosa più bella che avevo visto nella mia vita. Venimmo rapiti dalla magia e dal mistero di queste melodie che si snodavano senza inizio e senza fine. Un’emozione fortissima soprattutto per chi come me scopriva per la prima volta quei canti. Riscoprivamo, così, le nostre radici che vengono dalla Magna Grecia e da millenni di arte e di storia che si è pietrificata in questa musica tradizionale.

Dal primo incontro siete poi arrivati a registrare in studio…
Era il risultato di un lungo amore. Quando portai l’ottantenne Andrea Sacco e gli altri in studio, questo ambiente per loro quasi marziano, era la prima volta che indossavano una cuffia, vedevano un amplificatore o un banco da mix, ed il problema era metterli a loro agio e creare un’empatia per cui riuscissero, nonostante la novità dello studio, a dare il meglio. In questo senso quel disco è una delle cose di cui vado più fiero perché ha rappresentato un passaggio importante. Le registrazioni degli anziani cantori venivano fatte su registratori portatili nelle osterie e nelle cantine con una resa tecnica molto rozza, con il rischio che per le generazioni future questo deficit portasse a non cogliere il loro straordinario livello musicale. Invece con quel disco riuscimmo a far in tempo per cogliere tutta la loro arte. Certo è un disco che appartiene a loro, ma credo di essere riuscito a far emergere tutto l’affetto per consegnare al futuro una testimonianza del loro grande livello artistico. Fra l’altro tra qualche mese Antonio Piccininno, che è uno degli interpreti del disco, compirà cento anni e mi ha invitato alla sua festa.

Il Maestro Roberto De Simone, in una recente intervista a L’Espresso, ha detto che “Napoli vive una deriva culturale ormai inarrestabile. A Napoli non piacciono più le invenzioni”. Cosa pensi di questa affermazione…
Ho un grande affetto e una immensa stima per Roberto De Simone, il quale mi ha dato tanto nella mia vita artistica, ma ritengo che queste affermazioni siano solo le riflessioni di una persona anziana, che io personalmente non mi sentirei di fare mai perché non corrisponde alla verità. E’ un po’ come darsi una martellata sui piedi perché fino a prova contraria lui è ancora vivo, e quindi potrebbe regalarci ancora qualche opera legata a Napoli. Napoli, nonostante tutte le sue contraddizioni, non finisce mai di stupirci, pensiamo solo alla grande arte di Pino Daniele. 
Non era scritto da nessuna parte che da Napoli venisse fuori uno scugnizzo che riusciva a fondere il blues e la tradizione classica napoletana in uno stile geniale ed inconfondibile. Che dire poi del rap che, con tutti i limiti di una manifestazione artistica ingenua, si è posto in un livello superiore a quello della media nazionale.  Napoli ci stupisce con il teatro, e penso ad esempio ad Enzo Moscato o ai tanti artisti dell’avanguardia che in quanto partenopei sono leader nel loro ambito. Forse Roberto De Simone ignora anche le mie canzoni di contrabbando e alla capacità che hanno di raccontare il presente, e tutto questo nasce da Napoli. 

Concludendo, come saranno i concerti di “Canzoni di Contrabbando”?
Saranno come tutti i miei concerti, certo non tutti i brani presenti nell’antologia li suono ad ogni concerto ma in effetti questo disco è un po’ lo specchio delle mie esibizioni dal vivo. Al di là di quella che può essere la mia capacità artistica e la mia popolarità, devo riconoscere che il pubblico che viene ai miei concerti non lo cambierei con nessun altro pubblico perché ha una marcia in più, ben distante dal divismo che falsa il rapporto con l’artista, e soprattutto dimostra una grande coscienza. Il mio è un pubblico protagonista, tant’è che spesso devo tenere a bada le varie tammorre che risuonano, a volte fuori tempo, tra il pubblico che non viene lì per caso ma per celebrare un rito di appartenenza.


Eugenio Bennato – Canzoni di Contrabbando (Taranta Power/iCompany, 2016)
A cinque anni di distanza da “Questione Meridionale”, Eugenio Bennato torna con “Canzoni di Contrabbando” antologia che, attraverso dodici brani (tra reincisioni e nuovi mixaggi) più un inedito, compendia il suo lungo percorso discografico che lo ha visto farsi interprete di un linguaggio sonoro che affonda le sue radici nella musica tradizionale napoletana per abbracciare i suoni del bacino dal Mediterraneo all’Africa, fonte viva di quelle ritmiche primitive che attraverso il deserto e poi il mare si sono innestate nella cultura popolare italiana. Da Napoli al Gargano, dalla Calabria al Nord Africa fino a toccare l’Africa Subsahariana, il cantautore napoletano ha fatto di ogni suo album la tappa di un viaggio di esplorazione, sperimentazione e ricerca attraverso i suoni del mondo, e cogliendo nel ritmo quella identità mediterranea che unisce popoli e nazioni diverse ha cantato quel suggestivo luogo dell’anima che è il Sud. Ad aprire il disco è la splendida “Mon père et ma mère”, un brano dalla ritmica trascinante nel quale è racchiusa la storia dell’incontro tra il cantautore napoletano e Enric Parfait, un giovane partito dal Camerun ed arrivato a Tangeri sulle coste del Mediterraneo dopo una avventurosa traversata nel deserto. “Mio padre e mia madre si son conosciuti in galera, in eredità mi hanno lasciato la miseria”, da questi pochi versi donatigli da quel ragazzo e che racchiudevano tutta la sua vita ha preso vita il brano inciso da Bennato con la partecipazione di Stefano “Mujura”, Ezio Lambiase, Sonia Totaro, Chiara Carnevale e la figlia, Eugenia, a cui è affidato lo spaccato rap del brano. Si prosegue con “Il Mondo Corre”, un brano dal taglio cantautorale che funge da perfetta introduzione per quel gioiello che è “Che il Mediterraneo Sia” dal disco omonimo del 2002 e che rappresenta l’evoluzione in chiave world del songwriting di Bennato. L’intensa rilettura di “Brigante Se More” con ospiti Pietra Montecorvino e Carlo D’Angiò rappresenta la versione definitiva e più compiuta di questo brano, oscurando le tante (e forse troppe) versioni di questo brano ascoltate in questi anni nei dischi di chi muove (spesso incautamente) i primi passi nella tradizione popolare. Se la struggente “Juzzella” è un’altra perla dal repertorio dei Musicanova, “Taranta Power”del 1998 è il manifesto sonoro e programmatico dell’approccio di Bennato alla world music con l’incontro tra i suoni della tradizione del Sud Italia e quelli del Mediterraneo. Altre pagine da ricordare del songbook del cantautore napoletano sono poi “Lucia e La Luna”, “Alfonsina y el mar”, ispirata alla poetessa argentina Alfonsina Storni Martignoni, e “Ritmo di contrabbando”, che aprono la strada alle vicende dei briganti protagonisti della controstoria dell’Unità d’Italia cantate ne “Il sorriso di Michela”, dedicata a Michelina De Cesare e “Ninco Nanco”. “Sponda Sud” e “La Città Del Mare”, completano un antologia ricca e ben costruita che ci offre un ritratto esaustivo del percorso artistico di Eugenio Bennato.  


Salvatore Esposito
Nuova Vecchia