La copertina recita “cinq titres inédits” perché Malicorne recupera brani di sei anni prima come “Pierre De Grenoble” e “Le Prince d’Orange” (interpretato a cappella) che appartenevano al periodo di
Gabriel e Marie immediatamente antecedente alla fondazione del gruppo. Due canzoni epocali anche per Malicorne. Nella prima sono evidenti le affinità con l’anonima ballata “La Licenza” (anche se in quel caso è specificato all’inizio che la ragazza era già malata al momento della partenza del soldato) derivata da “La Sposa Morta” ampiamente diffusa a partire dal XVI secolo in una moltitudine di varianti testuali. In coda a "Pierre de Grenoble" i Malicorne inseriscono la melodia del ballo medievale “Schiarazula marazula” antico canto friulano, odiato dall’Inquisizione, risalente a prima del 1500, che in origine sembra fosse stata una danza della pioggia. Questa melodia si deve al Maestro friulano Giorgio Mainerio (“Il primo libro dei balli accomodati per cantar et sonar d'ogni sorte de instromenti”, 1578). “Schiarazula Marazula” (Schiaràzzola Maràzzola) deriva dal repertorio dei Benandanti, setta eterodossa dai forti tratti giudeo-cristiani che solitamente erano armati di "sciarazz" e "marazz" (ovvero canna e finocchio). Si tratta dell’eterna sfida dell’uomo alla Morte così spesso trattata in arte (memorabile la scena della partita a scacchi nel film Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman). L’originale melodia furlana in fa# minore è stata “branduardata” presso il pubblico musicale moderno italiano nel 1977 in apertura de “La Pulce D’Acqua”, con la ritmica del Wutischend Heer (Esercito Furioso). Ma il tema del Trionfo Della Morte è celebre, la Danza Macabra appare negli affreschi di Clusone (Bergamo) (1485) o nel dipinto di Simone Baschenis de Averara (1539) sulla facciata sud della chiesa di San Vigilio a Pinzolo (Trento) dove l’iscrizione recita: “Io sont la morte che porto corona/Sonte Signora de ognia persona/At cossi son fiera forte et dura/Che trapaso le porte et ultra le mura”. La seconda canzone narra della tragica morte in battaglia di René de Nassau (Renato di Chalon). È lui il “bel Prince d’Orange” che combatté con Carlo V d’Asburgo contro il re Francesco I di Francia nel corso della guerra dei Cent’anni, finendo ucciso a soli venticinque anni nell'assedio di Saint-Dizier del 1544 allorquando Ferrante Gonzaga l’assediò, venendo poi raggiunto anche dall’ esercito asburgico. Un testimone oculare riportò in una lettera i dettagli di morte e sepoltura di questo personaggio assai poco amato dai Francesi. Il manoscritto d’inizio XVIII secolo è oggi conservato alla Bibliothèque Nationale, Département des Manuscrits di Parigi e restituisce una versione radicalmente differente dello stesso avvenimento. Il celebre ritornello antimilitarista “Que maudit soit la guerre” venne, con tutta probabilità, aggiunto riprendendolo da una complainte composta l’indomani della morte (1524) dello spadaccino medievale Pierre Terrail de Bayard (o Bayart, italianizzato in Baiardo), noto come il "cavaliere senza macchia e senza paura". In effetti nel documento sopracitato il ritornello elenca una serie suggestiva di note musicali che terminano con l’escamazione “ut”, una versione in forma rinascimentale (con interventi solistici di bag pipe prima e viola poi) ad opera di Rans & Glagel è udibile all’interno del cd Van Antwerpen tot Parijs (2001). La canzone testualmente e melodicamente è uguale a quella dei Malicorne ma più veloce nel tempo, in forma di ballata a due voci miste con tonalità differenti. La si ritrova pure in conclusione dell’esordio discografico del trio Gallican (Arion, 1979). Hugh de Courson oramai è sempre più assorbito dai propri disparati progetti musicali e attività lontane dal gruppo che compie alcuni concerti senza la sua presenza e con formazione allargata (i due Yacoub, Vercambre, Kowalski, Patrick Le Mercier,
Dominique Regef, Jean-Pierre Arnoux). Anche Laurent annuncia che quella di Le Stadium del 12 dicembre 1978 sarà l’ultima sua apparizione in seno a Malicorne, abbandona in favore di musica più allegra, Yacoub, a questo punto, mediterà di formare un duo con Patrick Le Mercier, vista la predisposizione di quest’ultimo sia all’improvvisazione che all’uso di cornamusa, cromorno e canto. Poi cambia idea e rifonda Malicorne con Marie, Olivier e musicisti provenienti da differenti contesti: Le Mercier, abile chitarrista rock-blues (che ha partecipato a Bière Brune Et Misere Noire di Serge Bouzouki) e il violoncellista Regef che si destreggia anche con rebecca e ghironda elettro-acustica a effetti di pedale. Dominique, membro fondatore di Mélusine e precedente accompagnatore di Steve Waring, fa parte, contemporaneamente, anche del gruppo di Phlippe Mathé. Il batterista infine sarà Arnoux, ex-Mahjun (inizialmente Yacoub aveva pensato a Dave Oberlé che, nonostante stesse lasciando i Gryphon, declinò cortesemente l’invito) che metterà a disposizione la sua abitazione a Savigny (Normandia) per le prove. Resta da citare l’unico inglese della nuova formazione, Brian Gulland, vecchia conoscenza nell’ambiente folk in quanto membro anch’egli di Gryphon, specialista in controfagotto, flauti barocchi e cromorno. Nuovi membri, nuovo look tutto in bianco per parificare ogni componente, nuova etichetta, tastiere e batteria...le premesse iniziali del nuovo disco del 1979, non lasciano per niente tranquilli i tradizionali ascoltatori. È però anche vero che la figura di Gabriel gode, in ambito folk, di ampio credito! Malicorne riprende il filo tematico dove il volume IV l’aveva lasciato, pur cambiando orizzonte sonoro, abbandona i cori folk in favore di questa strumentazione ritmica e progressive, seppur affiancata da suoni inusuali per il rock come quelli di controfagotto, ghironda e spinetta dei Vosgi. Si è immersi in un universo musicale ambiguo e ombroso, illuminato appena, ogni tanto, da qualche lumicino bucolico. I racconti ripartono da storie di trasformazione animalesche precedentemente parzialmente trattate, come nel caso de “Le Blanche Biche”, “Margot”, “Voici Venir Le Joli Mai”. Yacoub meditava da tempo di occuparsene più organicamente, d’altronde da Almanach in poi erano sempre stati soggetti tematici a occupare i progetti del gruppo, in più aveva fatto la conoscenza di Claude Seignolle, autore di racconti e novelle popolari in stile fantastico. I due artisti si erano mossi un po’ nel medesimo territorio e lo scrittore aveva suggerito a Gabriel di occuparsi maggiormente di mitologia. Ci sono personaggi come il diavolo che si ritrovano sovente per tramite degli animali, un gesto o un’attitudine giudicata inopportuna possono facilmente condurre, talvolta all’istante, alla comparsa del demonio e alla conseguente minaccia d’inferno. Un appropriato esempio di come la tradizione orale venisse utilizzata come strumento di ordine sociale. Il più delle volte il tema ha offerto vantaggio di mescolare mito e realtà, ogni epoca possiede i propri mostri favolosi anche se che in Francia la tradizione di canti su animali reali e immaginari, è meno presente rispetto a Germania o Inghilterra. Ad osservare l’esistenza umana attraverso lo specchio deformante e rivelatore di un Bestiario nell’enorme zoo dell’Umanità, risulta fondamentale il posto legato alla remota sacralità del regno animale. Le bestie
aprono porte simboliche, reali o fantastiche che siano, custodiscono antiche sapienze dimenticate, da secoli sono allegorie viventi, enigmi, canti fuori dal tempo, suoni che evocano movenze, sentimenti immaginifici che permettono di deformarsi. Non hanno reciso, come ha fatto l’uomo, la propria ancestrale natura con secoli di “evoluzione” e oggi appaiono come unico ponte da attraversare per addentrarsi nella più profonda e celata radura della natura. In questo senso paiono rappresentare una estensione della personalità umana, come nella fiaba metaforica “Les Transformations” presente in tutte le culture. Malicorne nel consacrare un intero disco agli animali, li identifica come simboli filosofici, morali, teologici, allegorici; lascia che siano loro a parlare di istinti, debolezze, terrori e desideri dell’uomo con favolose descrizioni. Queste caleidoscopiche canzoni potrebbero tracciare quasi un trattato scientifico attraverso varie fenomenologie comportamentali, si legano all’Orfismo antico, alla religione misterica sull’origine divina dell’anima. Nella cultura popolare è sostenuto che quando si muore si vada “nel mondo delle verità” luogo poetico che si spiega solamente con il mito, Malicorne tende con questo disco, a collocarsi in una dimensione più vasta, dal respiro più universale. La possibilità di mescolare gli stili e le sonorità classiche su una base folk-rock offre grandi possibilità a ciascun strumentista. Appaiono quindi animali da tutte le parti e una bestia implacabile su tutte: il tristo mietitore, l’occhio inquietante del lupo dall’iride arrossato aveva avvertito, anche se inizialmente l’immagine di copertina avrebbe dovuto essere un corvo inchiodato su una porta (spaventapasseri da stregoneria, fotografato da Hans Silvester e rifiutato dalla distribuzione per eccesso di macabrità). Tra elettricità e acustica il gruppo gioca a mescolare le carte e i colori di differenti stili musicali all’epoca in voga. Una serie di concerti “animaleschi” si svolge anche in Italia a Genova, Roma, Firenze, Torino e infine al cinema-teatro Cristallo di Milano, grazie anche a Radio Popolare, il 26 ottobre 1979, dove trovano spazio buona parte dei brani che compongono Le Bestiaire (in apertura del secondo set anche un estratto dal Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini). La formazione comprende oltre ai due Yacoub, Arnoux, Kowalski e Le Mercier. Il pubblico francese comunque non apprezza particolarmente i recenti cambiamenti in seno al gruppo che nel giugno del 1980, si prende una pausa di riflessione sulla direzione futura da assumere. Gulland torna in Inghilterra, Regef non appare più indispensabile. Nell’agosto dell’80 la moda del folk viene perfino ufficialmente dichiarata “terminata” sulle righe della rivista di riferimento “L’Escargot Folk”. Su quest’onda molti gruppi cadono in disgrazia, il termine stesso tende a sparire sostituito da “trad” con un significato spogliato di ogni ideologia o rivendicazione. L’anno seguente la sinistra francese vince le elezioni nazionali e tutta una buona parte della generazione anticonformista si allinea a posizioni più istituzionali e meno radicali, anche in arte. L’apertura di “Le Sept Jours De Mai” presenta i vari animali offerti da un amante all’amata, ciascuno dotato di un simbolo (fedeltà, longevità, dolcezza) su un accompagnamento di ghironda e armonica poco armonioso e canto a due salmodiato fino al finale dove diventa puro sostegno armonico dai piccoli tocchi senza parole, qualcuno ha voluto percepire in questo brano l’influenza dei Magma. Malicorne cambia titolo alla simbolica filastrocca infantile “La Perdriole” e propone una versione proveniente dai Paesi della Loira, su una musica funky-rock. La canzone, basata su generosità e fedeltà, verrà incisa, in Bretagna l’anno dopo, in maniera similare, anche da Mirlintatouille nel proprio secondo disco dalla coloratissima copertina "animalesca". Il tradizionale guascone “La Mule” (su musica “a
cappella” composta da Yacoub dopo aver ascoltato i Pastori Sardi di Orgosolo esibirsi alla Cittadella Universitaria di Parigi nel 1977) è la triste storia di una donna accusata di stregoneria, l’armonizzazione vocale è volutamente non lineare, cambia in intensità e trabocca di trovate polifoniche. Le voci dai timbri molto differenti in cui spicca quella di Gabriel così ricca di fioriture lontane dagli stili di canto tradizionale. Il nuovo menù vario dei Malicorne propone il contrasto tra il duo di ghironde di Marie-Dominique e il basso martellato da disco-music in “La Branle Des Chevaux”, le sonorità free-jazz nella lunga “Les Transformations” variante della celebre “Métamorphoses”. Regef si basa per l’adattamento, su un paio di versioni melodiche tradizionali nella ricerca di una trama musicale su questo dialogo a due voci, componendo un inizio introduttivo a cappella, una linea centrale recto-tono e una bourée finale. Gli strati strumentali stridenti di sassofono, controfagotto e chitarra elettrica saturata più la voce priva di elaborazione (in tono recitativo e senza abbellimenti) sono in contrasto con la poetica delle parole, producendo nell’insieme un efficace effetto di trance sonora. La tensione tra la dinamica strumentale evocante questo inseguimento continuo e il canto intimo che sembra appartenere ad un altro spazio temporale, l’hanno resa tuttavia difficilmente interpretabile dal vivo. Les Transformations è una filastrocca enumerativa che come tante altre simili, affonda le radici nelle nebbie del tempo, una delle più celebri e diffusa in tutto l’Occidente e non solamente nei paesi francofoni ma anche in Italia, Spagna, Gran Bretagna perfino in Unione Sovietica. È la cumulativa descrizione di una ossessiva caccia romantica che in Francia viene datata 1724 ma probabilmente è ancora più antica. Ci sono versioni in cui la fanciulla ha l'ultima parola ma più spesso è l’insistente corteggiatore a concluderla, nel caso di una versione proposta l’anno precedente dal gruppo medieval-progressista francese Sourdeline (sotto il titolo Si J’Avais Un Galant in Jeanne D’Aymé, 1978) contempla addirittura un rafforzativo “volentieri” finale di soddisfazione. Ma anche questa interpretata da Malicorne non scherza visto che l’uomo afferma che sposerà la ragazza viva o morta. Le varianti sono tante tra elementi naturali e religiosi “mi farò luna nel firmamento...e io prenderò la forma di una nuvola bianca che copre la luna” oppure "se tu ti metti nei panni di una vergine, in Paradiso, io mi metterò nei panni di San Pietro, avrò le chiavi e aprirò il cuore della mia amata". Tre anni prima il gruppo Melusine ne aveva offerta una versione folk-acustica nel proprio secondo disco, raccolta nel gennaio 1974 da un agricoltore del Monte Lozère (Cevenne, parte sud-orientale del Massiccio Centrale francese) con variazioni testuali di lui medesimo. Non mancano certo sonorità elettroniche in “Chasse Gallery” dalle atmosfere lugubri e angoscianti. Inizia con urla, frullare d’ali di uccelli notturni, raschi di gola e ogni sorta di rumori e scricchiolii degni di scultura sonora ottenuti con i pedali di una ghironda in versione diabolica. Yacoub canta un testo vandeano costellato di terminologie locali (garache, alouby, chéroge, trélaude) che evoca le cacce maledette. Quindi il cortigiano strumentale “Le Ballet Des Coqs”, estratto dalla raccolta di danze del XV/XVI secolo “Terpsichore” con arrangiamento di Gulland per quattro controfagotti, quattro rebecche e quattro flauti, incrocia con sapienza musica popolare e aristocratica. “Alexandre-Danse Bulgare” riprende il mito del lupo mannaro, peccato per il missaggio indecente che penalizza la voce eterea di Marie, autrice tra l’altro del testo del secondo tema. Il finale è
affidato a “Jean Des Loups” composizione originale (la prima) di Gabriel Yacoub influenzato dalla lettura di Claude Seignolle e narra di un uomo che ha capacità di comunicazione coi lupi. Sembra quasi una compensazione della selvaggia canzone precedente “Alexandre”. Uomo e il lupo in effetti hanno molto in comune, vivono prevalentemente in gruppo, le loro rispettive società si fondano sulla famiglia che per un lupo rappresenta tutto: protezione, guida, identificazione, difesa, scopo, affetto. In ogni branco una coppia di lupi rimane fedele per sempre e questo animale è talmente intelligente d’aver valutato l’uomo come gravissimo pericolo, assolutamente da evitare, anzi, si potrebbe affermare che il lupo tema unicamente l’uomo e perciò non lo attacca. In occasione della criptica narrazione di questo incontro fantastico Yacoub mescola musicalmente una parte barocca di clavicembalo e flauti nelle strofe, con una rockeggiante nel ritornello, condita di assolo finale violinistico in stile “fairportiano” a richiamo di danza. La teatrale esecuzione possiede ricchezza di variazioni d’intensità, passaggi epici di chitarra e violino, sonorità campestri, marcia percussiva, accenti neoclassici. L’arrangiamento di legni e corde è opera di Brian Gulland. Salutati definitivamente Colin, Pierre, la Pernette, Martin, Daniel, la pie Margot, le Prince d'Orange...
Flavio Poltronieri
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