#BF-CHOICE A quattro anni dall’esordio discografico “Evocazioni e Invocazioni”, acclamato dalla stampa specializzata più autorevole, Davide Ambrogio – polistrumentista, cantante dalla voce “antica” e compositore originario di Cataforio (RC) – approda a una nuova e significativa tappa del suo percorso di ricerca sui timbri e sulla parola cantata e recitata. Si muove tra le lingue calabre e sicule, facendo un uso controllato ma incisivo dell’elettronica insieme ai suoi compagni di viaggio, a cominciare da Walter Laureti, con cui Ambrogio collabora. “Mater Nullius” è un lavoro visionario che esplora la disconnessione dell’uomo contemporaneo dalla natura e il bisogno di una rinascita umana e spirituale. Quattordici stazioni di una personale Via Crucis narrano una trasformazione interiore, simboleggiata dal dialogo tra la razionalità dell’uomo moderno e il suo lato inconscio. La scaturigine di “Mater Nullius” – registrato ad Alia (PA), tra “Il Bosco” della famiglia Cortese e le grotte della Gurfa – risiede nella costruzione di una scrittura che attinge ai codici sonori dei rituali della Settimana Santa nel Sud Italia. Così, gli strumenti della Passione, la chitarra, i tamburi, le voci, i synth e l’elettronica modellano una densa e dinamica texture, come racconta lo stesso musicista calabrese.
Cosa è successo da “Evocazioni e Invocazioni” a “Mater Nullius”?
Il mio primo album ha avuto un processo di gestazione lungo, iniziato nella sua prima forma dal vivo nel 2018 e poi concluso nel 2021. Ho continuato a suonarlo e cantarlo fino all’ultimo concerto in solo fatto proprio nel 2025, anche se subito dopo l’uscita di “Evocazioni e Invocazioni” avevo già in mente un suono diverso. Tuttavia, ho preferito far decantare il lavoro, respirando ed assaporando tutte le cose belle che sono successe grazie a quel disco, almeno fino a gennaio 2022, mese in cui ho preso il primo appunto su “Mater Nullius”. Il primo anno di lavoro è stato dedicato principalmente allo studio del codice sonoro della Settimana Santa e alla ricerca degli strumenti adatti per la musica che avevo in mente. I due suoni principali dell’album li ho trovati grazie al lavoro di due artigiani, Bruno Marzano e Massimo Olla, che hanno costruito, proprio per il disco, due strumenti a cui sono molto affezionato: un tamburo della Settimana Santa calabrese e un basso steel in acciaio con delle molle. Il periodo successivo, durato circa sei mesi, è stato dedicato alla sperimentazione timbrica fatta con Walter Laureti, soprattutto al Bosco e alle grotte della Gurfa ad Alia. Dopo una prima pre-produzione, siamo passati alla produzione vera e propria e alla scrittura dei testi, un lavoro che è durato un altro anno e mezzo. Il lavoro è stato concluso interamente a marzo 2025.
Che rapporto hai con la Settimana Santa, i suoi rituali e ritmi? Come ti ci poni? Da credente? Da studioso? Da artista che si immerge nella devozione e nel senso di appartenenza a un luogo espresso attraverso la ritualità?
La mia posizione in questo lavoro è stata ibrida. Da una parte, il mio sguardo e le mie orecchie erano focalizzati sull’idea che volevo esprimere attraverso l’album; dall’altra, le mie emozioni e il mio sentire sono legati a un vissuto personale che mi riporta dove sono nato, a Cataforìo, ai suoi riti e alla sua memoria sonora. Negli ultimi due anni, ho approfondito molto lo studio delle religioni, soprattutto con le parole di Marija Gimbutas e Mircea Eliade, ed ho lasciato più spazio alla mia parte spirituale. Mi sento un “Homo religiosus” che non si riconosce perfettamente nella chiesa. Questo lavoro è anche una critica ad
Perché il titolo “Mater Nullius”?
“Mater Nullius” nasce da un profondo bisogno di raccontare un momento storico di disconnessione dalla terra, intesa simbolicamente come madre. Il titolo, che significa letteralmente madre di nessuno, è una riflessione sulla relazione fragile e complessa che l'uomo moderno intrattiene con la natura e con sé stesso. Nasce dalla combinazione di Terra Mater e terra nullius – terra di nessuno – termine spesso usato per giustificare conquiste e colonizzazioni.
Le registrazioni del nuovo album hanno preso forma ad Alia in Sicilia. Com’è nata questa scelta/opportunità e come ha influito sul modo di suonare, di cantare, di vivere il periodo di “definizione” dei brani?
Registrare in luoghi come il “Bosco” di Alia e le Grotte della Gurfa è stata un'esperienza unica e fondamentale per la realizzazione dell'album. La relazione tra suono e spazio è stata per me essenziale: non credo alla musica come prodotto astratto, ma come espressione nata da un incontro tra persone, luoghi ed emozioni. La grotta, con la sua risonanza naturale e il suo mistero, è stata una "co-autrice" dell'album. Ogni suono che abbiamo prodotto (anche e soprattutto l’elettronica) si è misurato con l'eco di queste pietre, e questo ha dato all'album una profondità e una fisicità che non avrei potuto ottenere in uno studio tradizionale. Anche il “Bosco” ha lasciato il suo segno: un luogo di calma e isolamento, perfetto per entrare in uno stato di ascolto profondo, per lasciare che le idee e le emozioni si depositassero prima di trasformarle in musica. Il paesaggio è quindi diventato un partner creativo, una presenza viva.
L’album è aperto dal battente sulla pelle del tamburo e dalla voce parlata: qual è la relazione (auspicata) fra questo messaggio e il resto dell’album?
Ho scelto di iniziare l’album con il tamburu a mottu, una marcia percussiva che riprende la solennità dell’inizio della Settimana Santa, per introdurre un discorso di presentazione dell’intero album: una presa di coscienza sulla crisi in corso da parte del protagonista. Spero che questo possa suscitare domande, riflessioni, ma anche un senso di partecipazione e immersione in questo suono. Vorrei che questo album fosse un invito a fermarsi, a respirare, a guardare dentro quella parte di noi che spesso, forse, mettiamo da parte: il nostro lato più infantile, stupido, folle, ma anche femminile e sacro.
Come si è sviluppata la collaborazione con Anna Ida Cortese e Gianvincenzo Pugliese?
Nella prima fase e nella pre-produzione è stato coinvolto Gianvincenzo Pugliese, con il compito di scrivere i testi dell’intero album in un dialetto calabrese con influenze siciliane, sulla base di un lavoro concettuale e tematico che avevo già creato. Dopo questo primo tentativo, la nostra collaborazione è terminata per divergenze artistiche e di produzione, anche se nell’album sono presenti tre brani in cui sono stati utilizzati dei suoi scritti. Dopo questa rottura, mi si è presentata una nuova strada che non avevo mai ipotizzato: la possibilità di essere, per la prima volta, anche autore dei testi. È stato un viaggio bellissimo nei temi e nei suoni delle parole, percorso giorno dopo giorno con accanto Anna Ida Cortese, grazie alla quale ho trovato la forza di ripartire, rimettermi in gioco e addentrarmi nel senso più profondo dell’album. La sua figura è stata fondamentale, e posso dire con certezza che senza la sua cura, attenzione, qualità e pazienza non ce l’avrei mai fatta a terminare il lavoro come avrei voluto.
Che rapporto hai avuto e hai con l’Aspromonte e le sue sonorità?
In questo secondo album c’è un leggero distacco dal mio paese d’origine, perché il focus è stato soprattutto orientato sulla Sicilia. L’Aspromonte, però, rimane sempre un punto di riferimento, di pensiero
Qual è il ruolo dell’elettronica e del sound design?
L’elettronica non è stata concepita come un semplice ornamento, ma come uno strumento organico e entrale, pensato per amplificare le emozioni dell’album, creando atmosfere sognanti, inquietanti, o più dolci e avvolgenti. Il lavoro con Walter Laureti è stato fondamentale per trovare un equilibrio tra le sonorità acustiche e quelle elettroniche, per mantenere una coerenza tra i due mondi senza perdere l’essenza corporea del suono. Per me, non c’era modo migliore di tradurre in musica il dialogo tra il protagonista e il suo inconscio primitivo: un contrasto tra due modi di vedere la realtà. Walter è stato un compagno di viaggio dall’inizio alla fine, presente in ogni fase di creazione. È lui che ha guidato la sperimentazione acustica, prodotto l’album, immaginato le varie direzioni sonore da percorrere, e preso scelte musicali decisive che hanno dato vita al suono finale di “Mater Nullius”. Abbiamo registrato tutto insieme, in una piccola biblioteca di legno nel bosco in Sicilia e nelle grotte della Gurfa. Si è occupato anche del mixaggio ed è autore della maggior parte dei brani. Il suo essere sempre in ascolto, unito alle sue incredibili qualità musicali, lo rende davvero unico.
La tua ricerca sulla voce come si è evoluta e dove ti porterà?
In “Mater Nullius”, la mia ricerca vocale si è concentrata su un timbro particolare, che affonda le radici soprattutto nei canti della Settimana Santa siciliana. Il mio obiettivo era esprimere quel contrasto tra due mondi opposti, un tema che pervade l’intero album. Per questo ho alternato voci taglienti, pungenti e talvolta urlate, a timbri più pacati, gravi e silenziosi. Mi ha affascinato esplorare questi territori vocali, luoghi che prima non avevo completamente esplorato. Non so dire con certezza dove mi porterà questa ricerca, ma mi lascerò guidare dalle esperienze e dalle influenze che mi circondano.
Dopo la crisi annunciata nel primo brano, inizia per me il vero viaggio del protagonista, che entra nel bosco, la prima delle dodici porte dell'album. Il bosco rappresenta l’ingresso in una realtà onirica, una foresta simbolica, archetipo di sacralità, immersa nella notte e popolata di tamburi, voci e suoni elettronici che provengono dalla grotta della Gurfa. Quest’ultima è una vera protagonista dell’album, con la sua dimensione misteriosa e potente.
Raccontaci dell’ossessività danzante di “Sordi”
In ogni tappa dell’album, il protagonista affronta un tema diverso. In “Sordi”, al protagonista viene ricordata la fine alla quale tutti siamo destinati, e l’inutilità del denaro nel cercare di scampare a questo destino. Il brano rappresenta per me una danza delirante e giocosa, una presa in giro di chi pensa di poter sfuggire a quella realtà inesorabile.
Cosa rappresenta “Ballu du diavuli”?
“Ballu di diavuli” arriva alla sesta tappa, dove si compie la catabasi, la discesa agli inferi. Ogni brano è una sorta di morte simbolica e rituale. Qui, il protagonista scende nelle profondità, accompagnato dalla sua ombra, il suo Caronte, la sua parte primitiva. Affronta l'oscurità per poi risalire,
trasformato da questa esperienza.
E “Turba!”?
Nella decima tappa, il protagonista si confronta con il tema del potere e della tirannia. Qui è la turba che canta, un popolo urlante in festa per un re sterile, morente. Il re non mangia più, non lavora più, non procrea più e non ammazza più. È l’immagine di un potere che svanisce, lasciando solo la parodia di sé stesso.
Sì, “Orbi” è ispirata alla figura dei cantastorie ciechi di Palermo, ma più che una riproduzione, è un viaggio sensoriale nel mistero della percezione. Ho voluto creare una piccola danza, un’esicasmo, dove il buio rivela tutto ciò che la vista non può cogliere.
“Vallje” ci spinge nel vortice della danza in area arbereshe
“Vallje” è un’interpretazione della danza arbëreshë, una tradizione che mi affascina molto. Il brano è stato riadattato con un nuovo testo, come invocazione alla Luna nuova, un simbolo di rinnovamento e trasformazione.
E il passaggio a “Vasha”?
Vasha è per me l’ultima porta, l’ultimo passo del viaggio. È un rituale di matrimonio tra le due parti opposte protagoniste dell’album: il passato e il moderno, il razionale e l’irrazionale, il buio e la luce, la magia e la tecnica, il sacro e il profano. Una danza a spirale, simbolo di morte e rinascita.
Il viaggio arriva a compimento con “Miserere” …
L’album si conclude con “Miserere”, uno strumentale in cui è la grotta stessa a cantare. Le voci dei bambini e delle bambine di Cataforìo annunciano, urlanti: “Sonau tri a missa / Ha suonato tre volte la campana". Il viaggio è giunto al termine, in un finale che evoca la fine di un ciclo, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo.
Hai trovato un suono percussivo tuo, ampio, risonante, pervasivo: da dove viene questa ricerca e come caratterizza i concerti dal vivo e il rapporto col pubblico?
Ho cercato un timbro che toccasse la pancia di chi ascolta, che provocasse una reazione fisica ed emotiva. Il tamburo utilizzato nell’album ha questo potere, anche con un battito leggero. Durante il processo creativo, ho pensato che il corpo e la danza dovessero essere protagonisti assoluti. Quindi ho cercato di costruire un percorso musicale che alternasse momenti di raccoglimento e riflessione a danze in cui il
movimento fosse centrale. Spero che questa energia e questa trasformazione siano percepibili anche dal vivo, durante i concerti.
Che rapporto c’è fra la dimensione performativa del tuo fare musica e i laboratori e le esperienze educative di cui sei protagonista?
Da ormai quattro anni, conduco laboratori sul canto di tradizione orale, e questi incontri sono esperienze straordinarie, che mescolano storie ed esperienze di persone diverse. Mi stanno dando tantissimo sia a livello umano che artistico. Non riuscirei a spiegare tutte le emozioni che sto vivendo, ma posso dire che la connessione tra il lavoro performativo e quello educativo è nella dimensione collettiva del suono. Cerco sempre di pensare a qualcosa che possa abbracciare più persone, senza rinunciare alla profondità e alla qualità. Non credo di avere ancora sviluppato un’estetica intima. Piuttosto, sono in un percorso di esplorazione e ricerca.
Ci parli più diffusamente di questi laboratori e degli esiti?
Voci in Ascolto è un progetto che ho creato nel 2021 con l'intento di riscoprire e valorizzare il canto di tradizione orale italiana. La mia idea era quella di creare uno spazio di connessione, dove persone con esperienze e background diversi potessero incontrarsi e approfondire insieme lo strumento-voce e i
repertori vocali della nostra tradizione. La sua forza, secondo me, sta nella sua capacità di creare un ambiente aperto, in cui la voce diventa uno strumento di ricerca e di scambio, un linguaggio universale che unisce le persone e le tradizioni, superando le barriere culturali e geografiche. Sicuramente non potevo aspettarmi una partecipazione così ampia. Attualmente, i laboratori che facciamo (io e Giulia Prete) a Roma, San Vito dei Normanni, Palermo e Padova sono quasi sempre pieni, con persone di tutte le età. E questo lo trovo incredibile.
Per rinnovare la musica tradizionale in Italia occorre “buttare il cuore oltre l’ostacolo”? “Uccidere i padri” revivalistici?
Non saprei rispondere a questa domanda perché in realtà non penso troppo in questi termini. Cerco di approcciarmi alla musica di tradizione orale approfondendo il più possibile, rispettando quel suono ma rimanendo sempre distaccato di qualche metro, onde evitare storture e idealizzazioni. Credo che il tema dell’innovazione di una tradizione sia troppo complesso per riuscire a contestualizzarlo bene. Nel mio piccolo, come autore e didatta, cerco solo di approfondire il più possibile un codice, un timbro e un’estetica che mi toccano profondamente, rispettando le persone che la utilizzano ancora oggi. Continuo a pensare che, ancora nel 2025, non ci si renda conto del suo valore umano, musicale e culturale. Per me è un suono che non va nobilitato, anzi. Va, a mio avviso, ricercato, studiato e curato nella sua origine. Il rischio che sento adesso è che, per rendere qualcosa più digeribile e masticabile, perdiamo tutti insieme la sua forza espressiva, trasformando un qualcosa di potente, sacro e rituale in un altro ennesimo oggetto di consumo. Semplice, leggero, di moda. Ma che non scuote.
Dopo le anteprime a Napoli e Palermo, sarai in concerto a Parigi il 10 novembre. Poi cosa succederà? Come si proietta dal vivo “Mater Nullius”?
Presenterò dal vivo questo album a San Vito dei Normanni il 6 novembre, a La Maroquinerie a Parigi il 10, il 21 a Firenze all’Heart Beat Festival ed il 23 a Torino, a Magazzino sul Po. Stiamo lavorando per migliorare la forma di questo live per la stagione successiva. L’album è stato pensato, strutturato e registrato come un concerto dal vivo, quindi la sua forma rimane identica. La formazione completa è composta da me, Walter Laureti all’elettronica, Gabriele Bazza alla voce e alla chitarra, Vincenzo Gagliani e Federico Laganà alle percussioni e Davide Faraoni ai suoni. Non vedo l’ora!
Ciro De Rosa e Alessio Surian
Davide Ambrogio – Mater Nullius (ViaVox, 2025)
Un colpo sul tamburo; una densa onda sonora comincia ad espandersi; vibrazioni che prendono corpo da fonti che si intrecciano: dalla pelle battuta, da parole - come pietre – scandite dalla lingua, dalle corde frizionate dalla mano. C’è un gioco di rimandi in apertura di “Mater Nullius” fra la prima traccia, segnata dalla solennità del tamburo e dei versi declamati, e l’andamento dinamico innestato dalla tripla percussività di chitarra, lallazione e timpano, innervata dal fluire dell’elettronica, a sostenere il canto che attraversa “Boscu”. A sollecitare un ascolto attento è la consistenza e l’articolata spazializzazione delle diverse componenti dell’amalgama sonoro, una materialità e qualità sonora che diventano immediatamente “presenti”. A quattro anni di distanza dal primo album, il nuovo lavoro discografico di Davide Ambrogio permette di apprezzare lo sviluppo e la portata della sua ricerca musicale, compositiva e interpretativa legata alle ecologie sonore e alle lingue calabro-sicule senza timori riguardo ad incursioni elettroniche quando ad offrirle sono le mani sapienti di Walter Laureti. Completa il trio di musicisti Vincenzo Gagliani alle percussioni. Continua così anche l’esplorazione del dialogo acustico e poetico (ma anche spirituale e politico) fra Aspromonte e Sicilia occidentale che in “Evocazioni e Invocazioni” riprendeva i versi di Ignazio Buttitta e in “A San Michele” coinvolgeva Gianvincenzo Pugliese: proprio questo brano aveva vinto il Premio “Musica contro le Mafie” (undicesima edizione). Il comune percorso di ricerca sul senso attuale della religiosità popolare è stato il motore delle nuove registrazioni, ma la collaborazione si è limitata a soli tre brani, “Orbi”, “Spadi” e “Valije”. Quest’ultime due, pur brevi, una accanto all’altra esaltano il potere ritmico della voce, sia solitaria, legata alla cantilena, sia “dilatata” dall’impasto timbrico corale. “Spadi” è occasione per un felice contrappunto voce-percussioni capace di trasmettere un’immediata energia danzante e di farsi apprezzare nelle sottili e riuscite scelte relative agli accenti e alle variazioni timbriche. “Valije” offre la meraviglia di una melodia tratta da una danza arbëreshë che sembra assumere le sembianze di un canto di lavoro, del respiro corale di un gruppo di battipali mentre scava un solco foriero di transizione e cambiamenti. Il senso del ballo pervade anche “Orbi”, scandita da voce e chitarra a solcare le infinite traiettorie percorribili attraverso luce e buio, la cecità di certi cantastorie, la luminosità del loro ascolto e delle loro narrazioni amplificate e intensificate dalle parabole stabilite da elettronica e percussioni. Per contro, “Arsa” e “Parti” fanno largo al tempo della pausa: nel primo caso (nella quarta traccia) si fa ricorso agli ostinati di voce e chitarra per costruire un andamento riflessivo, notturno che, insieme all’elettronica, permette di allargare e restringere, a fisarmonica, lo spettro del nostro campo percettivo; nella successiva “Parti” la nuda voce traccia il perimetro affettivo in cui da lì a poco s’innesteranno la voce e il coro dello “Stabat”, a raccontare e far vibrare un dolore che era stato annunciato ed ora prende forma. Fermato il tempo, “Ballu di diavuli” (il brano più esteso, sei minuti) può operare la sintesi e mettere sullo stesso piano orchestrale paesaggi sonori, elettronica, voci e percussioni, de-costruendo due minuti di viaggio ambientale e spirituale che approda nell’esplosione del canto percussivo. Arrivati alla decima tappa, “Turba!” e tre tracce dopo con “Vasha” vengono riassunte e incarnati tutti gli elementi di questo rituale, a partire dalla sua natura collettiva abbinata a una mirata ricerca di sonorità e polifonie percussive apparentemente distanti dal “suono tradizionale”, ma che hanno la capacità di coglierne il cuore pulsante. “Vaiu di notti” affida ad una voce capace di orizzonti sconfinati la condivisione di sentimenti intimi e collettivi, riproposizione di un ossimoro solo apparente, come quello fra l’abbinamento di paesaggi sonori locali, strumenti antichi e elettronica, sublimato nel “Miserere” finale.
Alessio Surian
Foto di Valeria Taccone









