Davide Ambrogio – Evocazioni e Invocazioni (Catalea, 2021)

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Risonanze antiche nella voce di Davide Ambrogio, originario di Cataforìo, Calabria grecanica aspromontana. Classe 1990, cantante, polistrumentista e compositore di residenza a Roma, dove ha compiuto i suoi studi musicali e accademici, Ambrogio è uno dei quattro protagonisti del progetto Linguamadre. Su queste pagine lo avevamo già incontrato con il gruppo-laboratorio Musaica e seguendo i laboratori di “Mare e Miniere”. Non da ultimo, nel 2020, con la cronaca del suo successo al contest Ethnos Gener/Azioni. Il suo linguaggio sonoro affonda nella ricerca sui timbri, sull’esplorazione melodica e ritmica del dialetto che non nasce da un bisogno di colore locale ma da un sentimento reale di vicinanza alla terra. Davide incrocia strumenti acustici ed elettronica, tradizione e sound designing, canto e spoken word nel suo esordio da solista “Evocazioni e Invocazioni”, nove tracce tra le quali “A San Michele”, uno dei brani di punta dell’album, ha vinto la XI edizione di “Musica contro le Mafie”. Un lavoro che incarna l’esperienza estatica ed estetica del suono, che si fa esplorazione della profondità del canto non traducendosi in ricerca filologica, ma ponendo l’enfasi sul potere della phoné e del ritmo. Musica che è anche espressione del rito, evocato e invocato: la voce diventa il medium per indagare se stessi e per comunicare con gli altri. Il dialetto dell’Aspromonte meridionale e del cosentino diventa funzionale alla cadenza e al colore del canto, le parole sono trattate soprattutto come elementi sonori, spesso spogliate del loro significato, come spiega Ambrogio. 
Ai testi tradizionali, poi, si aggiungono una poesia di Ignazio Buttitta e liriche di Gianvincenzo Pugliese. Di consensi “Evocazioni e Invocazioni” ne sta già avendo, considerato che è entrato nella prestigiosa Transglobal World Music Chart, la classifica mondiale degli album delle musiche del mondo. Delle ispirazioni e delle procedure creative di questo lavoro parliamo con Davide Ambrogio.

Nel tuo percorso formativo ci sono sia l’apprendimento diretto con musicisti italiani sia il programma Erasmus+, che ti ha portato a fare esperienze accademiche all’estero. Cosa ti hanno dato queste diverse modi di studio?
Le esperienze passate mi hanno insegnato il valore della diversità e hanno messo in evidenza l’unicità del luogo dal quale provengo, Cataforìo, piccolo paese in Aspromonte. L’ascolto di musiche lontane dal mio percorso e lo studio di vari strumenti con insegnanti diversi mi hanno aiutato fortemente ad abbattere barriere mentali che molto spesso limitano il processo  creativo di un artista. La grande sorpresa è stata vedere che c’era un elemento comune che legava i vari approcci che guidavano il suono, dalle launeddas alle percussioni, dalla danza polacca alla zampogna aspromontana. Questo filo era il canto.

Come nasci come cantante?
Credo per necessità. Dopo aver iniziato a suonare la chitarra elettrica, ho esplorato con le mie mani più di ottanta strumenti con risultati quasi sempre mediocri, ad essere sincero. A un certo punto ho iniziato a restringere il campo chiamando accanto a me pochi strumenti, i veri amici. Su tutti: zampogna, chitarra e lira. Ma non bastava perché sentivo che suonando uno strumento dovevo sempre attraversare un filtro tra la mia intimità e le mani. Il canto mi consente, invece, di abbatterlo e creare una connessione forte tra il mio stomaco e il suono. L’emozione si trasforma in musica, senza pensarci.
 
Quali le fonti sonore italiane?
La prima cosa che mi viene in mente è casa. Ovvero quel paesaggio sonoro che puoi trovare in Calabria, in Aspromonte e in quei luoghi dove c’è un rapporto diretto tra canto e comunità. Ho anche una fortissima passione per i canti di tradizione orale, specialmente quelli del Sud dell’Italia con i quali sento una risonanza maggiore. Di questi canti amo le forme, i timbri e i contesti. Apprezzo tantissimo il lavoro svolto da artiste e artisti che hanno saputo cogliere la linfa di questo suono ed abitarlo con sapere, bellezza ed eleganza. I primi due nomi che ti direi di getto sono Giovanna Marini e Paolo Angeli.

E quelle al di fuori dei confini?
Potrei farti alcuni nomi che mi hanno colpito negli ultimi anni: Shye  Ben Tzur, DakhaBrakha e Danyel Waro. 
Nell’ultimo periodo, invece, sono stato folgorato da “The Book of Traps and Lessons” del rapper, poeta Kae Tempest. Ma, con molta onestà, devo confessarti che ho ricominciato ad ascoltare musica dopo circa un anno e mezzo di pausa. Ho la tendenza a prendere i suoni che mi colpiscono e cucirmeli addosso. Non penso sia sbagliata come cosa, ma per questo disco avevo     bisogno di osservare me stesso in profondità e, con molta calma, ascoltare e dare spazio a una mia intimità e verità.

Come mai il titolo “Evocazioni e Invocazioni”?
Il titolo viene da una selezione di musiche subsahariane regalatami da Letizia Aprile, amica e coordinatrice dell’orchestra di musica etnica dell’università La Sapienza di Roma. Una raccolta che lei aveva così intitolato. È stata la prima persona a dirmi, con occhi sinceri, che potevo trasformare la mia passione in lavoro. Non potevo ricevere in dono nome migliore per un disco che restituisce rito, funzione e sacralità alla voce e al canto.
 
Qual è il tuo rapporto con la ritualità tradizionale popolare?
Mi sento molto fortunato quando penso al rapporto che ho avuto con la musica. Non ho mai subito nessuna imposizione. Non ho mai conosciuto la musica in senso gerarchico come spesso accade. 
Ho potuto apprezzare il suono in riferimento alla sua funzione ed ho imparato la musica come una lingua, senza passare dalla grammatica. Una lingua che nella Valle del Sant’Agata, in Aspromonte, parla d’identità e di comunità. Mi ci sono ritrovato in mezzo da attore, suonando per la danza, cantando per necessità e non solo per contesti performativi e spettacolari. Ed è solo in quei momenti che trovo una straordinaria comunione tra tutte le persone che cantano, suonano, guardano, ascoltano o stanno in silenzio. Hanno tutti lo stesso ruolo e fanno tutti parte della stessa dimensione.

Attraverso quali fasi è passata la creazione di questo disco?
L’idea del disco è nata tre anni fa al Club 55 di Roma con uno spettacolo in solo organizzato dal grande Gianmichele Montanaro; un concerto fissato direi “al buio” perché non sapevo assolutamente come realizzare il tutto. Ma sapevo esattamente cosa suonare, ovvero x brani legati a x funzioni diverse. Ricordo esattamente l’euforia della prima anche se accompagnata da una grande paura di stare da solo sul palco. Negli archivi di etnomusicologia, ascoltando canti di lavoro, canti di protesta, scongiuri, ninna nanne e lamenti funebri ogni funzione svela un’autenticità comunicativa inconfondibile, del tutto lontana da necessità performative, radicata nel rito che la ospita. Perché, che servissero a scandire ciclicamente il tempo, alleviare il dolore o la fatica, allontanare una minaccia o indurre al sonno, la ragione del proprio canto restava in ogni cantore chiarissima. 
Questo mi affascina tantissimo: allontanarmi dall'aspetto  forzatamente performativo per dare al canto un altro tipo di senso, provando nel frattempo a scoprire la ragione del mio canto. Così ho iniziato a tessere una tela fatta di suoni, persone e luoghi. Ho iniziato a lavorare nel mio studio a Roma come un artigiano limando sempre di più quest’opera, lasciando uno spazio per interiorizzare i brani e farli respirare, coltivare il dubbio e aprire nuovi varchi. Questo tempo è durato più di un anno, utile per togliere il superfluo e darmi la possibilità di registrare il tutto con calma. Ma solo nell’ultimo periodo ho capito il “perché” ho realizzato tutto ciò. E la risposta che sento non è legata alla gioia di esibirsi o scoprirsi capaci di crescere tecnicamente e dare prova di queste o quelle qualità. Col tempo, ho capito che cantare per me significa varcare una soglia. Aprire uno spazio all’interno del quale tutto mi affascina. Durante la produzione dello spettacolo “Il canzoniere di Pasolini” ho potuto confrontarmi con persone con cui non avevo mai suonato, che parlavano una lingua diversa dalla mia. Durante la residenza, trovandomi tra l’atonalità del Duo Bottasso e l’incredibile bravura  di Elsa Martin dovevo riuscire ad allargare i miei confini musicali per la creazione di un discorso comune: ed è stato bellissimo.  Ringrazio ancora il Premio Parodi, Mare e Miniere ed il Premio Loano per questa magnifica possibilità.

Cosa lasciarsi dietro del “canone” del folk revival e verso dove guardare per parlare con linguaggi di oggi?
Penso che uno spunto di riflessione possa arrivare dalle parole che utilizziamo per parlare di questa musica. “Revival” sta per rinascita. Dovremmo chiederci perché è morto quel modo di “fare musica”, quanto sia difficile far rinascere qualcosa e, soprattutto, se ha senso farlo. Di solito una tradizione non rinasce ma si trasforma, mantenendo nel presente sempre un contatto col passato. E la stessa cosa vale per la parola “popolare” che rischia nella sua ambiguità, purtroppo, di creare confusione. Nel ”popolare” oggi ci troviamo Colapesce e Di Martino, Gianna Nannini (cito Assante, Castaldo e varie trasmissioni fatte su Rai2) Tosca, Musicultura, la canzone d’autore, il rap, il neomelodico, il folk, la world music e la musica etnica. Definirei la musica di tradizione orale “impopolare”, proprio perché in Italia rischia di essere un linguaggio di nicchia, per addetti ai lavori, per musei ed archivi. E quindi staccata dal popolo. Secondo me perché parla al passato, con discorsi vecchi rivolti a persone  

Che ruolo assegni all’improvvisazione?
Un ruolo fondamentale per lo studio e la composizione. L’improvvisazione non lascia spazio al ragionamento e quindi ti consente di esprimere in un istante ciò che senti. Quasi tutti i brani  del disco sono stati composti improvvisando parole inventate che rispondevano a un’esigenza ritmica e timbrica. 
Mi ha sorpreso  ascoltare il nuovo disco di Iosonouncane,“IRA”, perché io creo i  brani esattamente alla stessa maniera, con la differenza che in un  secondo momento adatto i fonemi a un testo.

Nei testi, attingi alla tradizione orale, ma c’è anche una poesia di Ignazio Buttitta, una ninna nanna registrata da Lomax e alcune composizioni di Gianvincenzo Pugliese. 
È stato importante per me scegliere un linguaggio specifico prima ancora che una lingua, in grado di percorrere due possibili direzioni comunicative insite nei suoni e nella voce: l’atto sonoro del significante o l’espressione del significato. Per questa ragione, il peso della lingua si trasforma nel corso dell’album. Le parole passano da un peso zero nella prima parte del disco a una densità quasi totale nella seconda parte. Il suono traccia una linea netta tra la libertà dell’evocazione, in cui il canto potrebbe restare a-linguistico, pur continuando a comunicare, e la specificità dell’invocazione, in cui ogni riferimento diventa nominale. La scelta del dialetto fa sì che chi ascolta non debba necessariamente concentrarsi sul testo. Le parole utilizzate (dal dialetto dell’Aspromonte meridionale e Cosentino) sono trattate, nella maggior parte dei brani, come elementi sonori, svestite del loro significato. Il dialetto diventa funzionale alla cadenza e anche laddove il significato del testo resta rilevante, il timbro vocale e strumentale precede la parola, facendo spazio al suono che già di per sé comunica qualcosa a livello archetipico. La collaborazione con Gianvincenzo Pugliese (autore del testo di “A San Michele”, “A San Rocco” e 
“Canto dal Carcere”) è stata preziosa nei brani in cui la parola assumeva un significato maggiore e andava posta su un piano diverso. Gianvincenzo è stato in grado di trovare una perfetta sintonia tra il significato delle parole e il loro suono, cosa non facile soprattutto per brani poetici e dialettali. C’è anche uno spazio per un testo registrato da Lomax a Cardeto (un paese vicino a Cataforìo) nel 1954 nel brano “Veniti Sonnu”  e una poesia intitolata “U Misteru” di Buttitta, il grandissimo poeta di Bagheria. Tengo particolarmente a quelle parole e a questa poesia cantata, soprattutto perché chiude una sua straordinaria raccolta intitolata “La mia vita vorrei scriverla cantando”.

Proprio con un brano scritto con Pugliese, “A San Michele”, hai vinto l’XI edizione di “Musica contro le Mafie”. Di che canto si tratta?
È un canto che mette in luce lo scontro tra opposti: vita e morte, giustizia e criminalità, domande e risposte. L’invocazione a San Michele (protettore della ‘ndrangheta e della polizia di Stato) si fa lamento funebre nella voce di un figlio che ha perso il padre, ammazzato dagli affiliati al suo stesso clan. Lo scontro generazionale all’interno delle associazioni mafiose è il seme che ha dato vita a questo brano, 
creato per evidenziare le difficoltà dei figli della ‘ndrangheta e la volontà di reagire a catene familiari, in nome della legalità.
 
C’è il richiamo alla religiosità popolare ma anche la denuncia delle diseguaglianze in "La panza ciangi e lu cani ridi”…
Questo brano nasce, invece, da un racconto di mia madre su una canzone contro la tessera del pane cantata dagli abitanti di Cataforìo durante il periodo fascista. Anche qui la storia diventa una scusa per poter raccontare un suono, quello della voce che  protesta. Il canto qui ha un altro volto. Diventa diretto, chiaro,  identitario e si trasforma con un crescendo: dall’assolo del provocatore si passa al brusio della folla che diventa lentamente unisono nella comunità.

L’esclusione sociale è il tema di “Canto dal carcere”.
Ogni tipo di inclusione diventa esclusione. Ogni creazione di un “Noi” diventa identificazione di un “Voi”. Il carcere è il luogo dell’altro, del diverso e dello straniero ed era questo il contesto adatto per inserire un altro tipo di canto, quello dell’individuo isolato che nella solitudine riconosce il proprio suono e la propria libertà. Proprio in questi giorni il tema “carceri” è tornato all’attenzione di tutti con i fatti di Santa Maria Capua Vetere e si discute sulla pena e sulla rieducazione. Siamo molto lontani però dall’affrontare pubblicamente il tema dell’esclusione.

In che formati è disponibile l’album?
L’album è stato realizzato in tre differenti formati: digitale, CD e vinile. In aggiunta ci sarà un elemento a me molto caro. Insieme a Valeria Taccone, fotografa, e Silvia Calogiuri, mia collaboratrice, abbiamo realizzato un cofanetto che avrà al suo interno il CD, il vinile e un libro che racconta, attraverso le immagini e le parole, il processo e i pensieri che hanno accompagnato la creazione dell’album. 

Come si tradurrà dal vivo “Evocazioni e Invocazioni”?
“Evocazioni e Invocazioni” è nato come concerto in solo. Sul palco ci sono io alle prese con quella che chiamo “la bancarella”, ovvero un set creato insieme al musicista e sound designer Walter Laureti  composto da chitarra, lira, zumpettana, tamburo, loop station ed electronics. Per le date in estate l’assetto rimarrà uguale, ma ho già in mente un aspetto diverso, in trio e in quintetto, per un tour  europeo che farò a marzo/aprile 2022.



Davide Ambrogio – Evocazioni e Invocazioni (Catalea, 2021)
“’Evocazioni e Invocazioni’ risale alla radice del suono, per collegarlo al corpo sonoro che lo emette, al rito che lo evoca e lo invoca, perché si faccia presente”: così Davide Ambrogio spiega l’essenza del suo primo album solista. Nove brani che tracciano un sentiero con al centro il suono nella sua dimensione estetica ed estatica. Ambrogio canta, recita e suona chitarra acustica ed elettrica, chitarra con matite, lira calabrese, zampogna, davul, tamburello, synth, nagara, harmonium ed elettronica. Con lui a possedere le chiavi per entrare in questo ampio orizzonte di suoni sono Filippo De Laura (violoncello, chitarra con arco, bodhrán, dholak, timpano, pedal steel guitar, balalaika, banjola), Valerio Camporini Faggioni e Walter Laureti (elettronica), Valeria Taccone (voce) e Simone Pulvano (davul, bendir). “A Sant’Andrea” segna l’ingresso ma anche il rapporto con la memoria e il senso del luogo (con le parole della nonna dedicate alla terra e al paese, al passato, al presente ed al futuro). Nella litania “ “A Santa Rusulia” una voce (Valeria Taccone) rievoca uno scongiuro che se non allontana il male, almeno allevia i dolori dell’individuo. “A San Rocco” è uno dei temi più potenti dell’album su un ostinato di chitarra percossa da matite, un tessuto percussivo e un coro che evoca il canto qawwali, la voce a invocare il numen, protettore dalle epidemie e dalle catastrofi naturali. In un crescendo, dopo quattro minuti circa, entra la zampogna a condurre il ritmo, e a lanciare il “sonu a ballo”, che diventa il mezzo per raggiungere uno stato alterato. Infine, si invoca lo “scirocco” , il vento in grado di soffiare e portare via i problemi, di spostare il male: evviva Santu Roccu! La successiva “Veniti Sonnu” è il riadattamento per voci e corde di una ninnananna registrata da Alan Loamx a Cardeto (RC) nel 1954, arpeggi limpidi e cristallini conducono a un’atmosfera rarefatta, quasi prossima a forme di folk scandinavo. “A San Michele” è il brano con cui  Ambrogio ha vinto l’undicesima edizione del Premio ”Musica contro le Mafie”. Scritto con Gianvincenzo Pugliese, il canto è un lamento, un urlo di rabbia consapevole e un’invocazione su un ritmo incalzante. Si chiama il santo simbolo, nella religiosità popolare, di verità e giustizia. L’ineffabilità del sacro ritorna in “Mistero”, spazio inaccessibile alla verità e al significato, raccogliendo le parole di Ignazio Buttitta. “La panza ciangi e lu cani ridi” è un canto di protesta, che “unifica e accorda” il brusio iniziale causato dalle insofferenze dei membri della comunità. Diseguaglianza, giustizia sociale e memoria storica (soprattutto la sua perdita) sono gli amplificatori di questo canto. L’isolamento dell’individuo e il tempo sospeso diventano spazio di riflessione profonda nel “Canto dal Carcere”, tra spoken word e rap, con un epilogo in cui il ritmo dei tamburi a cornice chiama, così il canto diventa conforto rivolgendosi a tutte le persone che vivono la medesima condizione. “L’accordo”, ultimo brano del disco, si configura come fine del viaggio, una transizione dal suono orchestrale, attraverso voce ed elettronica minimale, al silenzio. Un ventaglio di impressioni diverse trova consonanza in un  modo “altro” di ascoltare, suonare e vivere la musica. Davide Ambrogio è un musicista e compositore dalla grande forza performativa, il cui stile combina stilemi sonori e metriche del canto tradizionale con poesia di strada, timbri acustici e sonorità elettroniche. “Evocazioni e Invocazioni” è canto inquieto e drammatico, è suono emozionale che si radica nel presente, di quegli album che si vorrebbe vedere raggiungere tanti per non rimanere conoscenza di pochi. È un lavoro perfino coraggioso, perché accetta la sfida di superare i cliché del revivalismo folk e, pur manifestando qualche impeto di gioventù (forse un lavoro di produzione esterno avrebbe mediato e limato qualche eccesso di uso delle macchine e di curvatura  recitativa), si fa voce della e nella contemporaneità, senza perdere la “memoria che resta”.


Ciro De Rosa

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