La Cantiga de La Serena – La Novia (Zero Nove Nove, 2023)

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Abbiamo seguito con grande attenzione il percorso artistico compiuto da La Cantiga de La Serena, trio composto da Fabrizio Piepoli (voce, chitarra battente, chitarra classica, shruti box, daff, bendir, tamburello, qraqeb), Giorgia Santoro (flauto, bansuri, flauto contrabbasso, arpa celtica, duduk, sajat, cimbali, palmas, voce) e Adolfo La Volpe (oud, chitarra classica, tar, voce), tre eccellenti strumentisti e ricercatori con alle spalle background artistici differenti, ma accomunati dal desiderio di esplorare e rielaborare la musica antica e quella tradizionale del bacino del Mediterraneo per disvelare quell’ideale ponte culturale che lega Oriente ed Occidente. Nell’arco di tre lustri, ci hanno consegnato lavori pregevoli come il debutto “La Serena” del 2016, “La Fortuna” del 2019 e il più recente “La Mar” del 2021 che, riascoltati in sequenza, segnano le tappe di un viaggio appassionante che dalla Spagna tocca l’Italia, passa attraverso i Balcani e giunge in Estremo Oriente, mettendo in luce gli addentellati e le connessioni che legano mondi sonori solo in apparenza differenti. A distanza di due anni dal precedente li ritroviamo con “La Novia”, disco che amplia ancora di più il raggio delle loro ricerche sonore, spaziando dalla sempre presente tradizione sefardita alla musica popolare salentina, passando per la musica antica con l’omaggio a Claudio Monteverdi e classica il richiamo alla “Traviata” di Giuseppe Verdi per toccare i repertori siriano e libanese. Non casuale è anche la scelta del titolo “La Novia” rimanda all’archetipo della sposa, comune a molte culture del bacino del Mediterraneo e nel quale convergono simbologie mistiche esoteriche e filosofiche. Ad impreziosire il tutto la partecipazione di Nabil Bey Salameh dei
Radiodervish, il quartetto vocale Faraualla, il trio L’Escargot, Francesco D’Orazio al violino e Roberto Chiga alle percussioni. Abbiamo intervistato i tre musicisti pugliesi per farci raccontare la genesi di questo nuovo album. (Salvatore Esposito)
 
Come nasce "La Novia"?
Giorgia Santoro - La Novia nasce dal bisogno naturale di lasciare una traccia del percorso condiviso con i propri compagni di viaggio, nasce dalle chiacchierate, dagli ascolti, dalle idee condivise e anche dalle differenze. "La Novia" è infatti la metafora del matrimonio tra tradizioni e culture differenti che genera nuove creature musicali. In questo album il matrimonio avviene sia tra diverse tradizioni del Mediterraneo, sia tra due (apparentemente) diversi linguaggi: quello della musica "colta" e quello della musica tradizionale. La scelta dei brani ha seguito questo processo creativo che rappresenta il fulcro del nostro trio, le nostre diversità che confluiscono in un'idea comune frutto dei diversi contributi, ma con una nuova identità. 
 
Perché avete scelto l’immagine de "La Novia"?
Giorgia Santoro - La Novia (La Sposa) richiama un’immagine dal forte valore archetipico, in modo speciale nelle culture tradizionali del Mediterraneo, un simbolo dalle molte implicazioni mistiche, esoteriche e filosofiche, ma che al tempo stesso conserva nella modernità il forte impatto evocativo della promessa d’amore: unire in matrimoni simbolici canti, lingue, storie e tradizioni diverse, dando vita a creature nuove, differenti dalle matrici che le hanno generate, che, come detto, è il fulcro concettuale sul
quale si innesta la nostra ricerca. Questa volta in copertina c'è solo una figura femminile (che sono io) in un'immagine pregna di significati: una figura in movimento, il velo che diventa il velo della sposa o di una danzatrice, o addirittura la coda di una sirena, i sajat, il suono, la danza e varie simbologie della culture del Mediterraneo rappresentate nella loro essenzialità dallo sguardo di Giuseppe Pezzulla.

Quali sono le identità e le differenze sostanziali rispetto ai vostri dischi precedenti?
Adolfo La Volpe - In questo quarto disco, prodotto dalla Zero Nove Nove, proseguiamo la nostra navigazione attraverso un Mediterraneo del cuore e della immaginazione, caricando sul nostro veliero nuove spezie, nuovi profumi e  nuovi strumenti (l'arpa e il duduk, per esempio), ma soprattutto accogliendo felicemente nuovi passeggeri, magnifici musicisti ed amici con i quali condividiamo una lunga storia personale e musicale: le Faraualla, Nabil Bey Salameh, L'Escargot, e Francesco D'Orazio e Roberto Chiga i quali ci avevano già donato in precedenza i loro meravigliosi suoni.

Accanto alla tradizione sefardita che accompagna il vostro percorso musicale, ci sono altre tradizioni che si incontrano…
Adolfo La Volpe - La tradizione sefardita è per noi il vascello ideale per attraversare il Mediterraneo: una musica e una cultura da secoli in viaggio perenne, avvezza a confrontarsi con suoni, tradizioni culturali e linguaggi differenti e a farli propri con naturalezza. Accanto a questa tradizione a noi tanto cara, abbiamo
voluto raccontare il mondo arabo attraverso tre brani molto diversi tra loro. Infine, un posto di rilievo in questo disco è riservato al ricco patrimonio musicale del sud Italia, dal Salento al Gargano fino a Napoli. D'altro canto per noi le radici pugliesi rappresentano il braccio di un compasso fisso al centro, che consente all’altro di tracciare una circonferenza immaginaria che idealmente racchiude tutto il bacino del Mediterraneo.

Come si è sviluppata la ricerca e la scelta dei materiali da inserire nella scaletta?
Adolfo La Volpe - La scelta dei brani è avvenuta attraverso un processo fatto di ascolto, di ricerca delle fonti, di studio delle prassi esecutive, dei linguaggi e dei contesti storici e musicologici; a questa dedizione e rispetto per le tradizioni con le quali ci confrontiamo ha fatto come sempre da contraltare un sano ricorso alla immaginazione, alla libera associazione di suoni, di canti e di linguaggi, in una continua ricerca.
 
Come avete proceduto nella fase esecutiva e di arrangiamenti?
Adolfo La Volpe - Come era già accaduto per i precedenti dischi, i brani sono stati arrangiati collettivamente, provandoli e reimmaginandoli insieme, spesso guidati dalla sonorità di uno o più strumenti che ci sembrava restituissero bene il senso musicale e testuale del brano stesso. Una delle caratteristiche del nostro lavoro di arrangiamento è quella di aprire una finestra in un brano nella quale un altro brano trova spazio, come ne "La Novia", la titletrack, una cantiga sefardita nella quale abbiamo inserito delle strofe salentine, o nella Tarantella di S. Michele nella quale abbiamo utilizzato, per lo
strumentale finale, una tarantella raccolta dal Kircher. 
 
“Adio querida” è una romanza che riprende il tema della Traviata. Cosa significa unire questi due mondi?
Fabrizio Piepoli - Si parla spesso di influenze della musica popolare all’interno della musica “colta”, sappiamo quanto i grandi compositori classici per secoli si siano ispirati a melodie e temi popolari (si pensi alle tarantelle). Ma accade a volte che le grandi melodie “classiche”, come ad esempio le arie d’Opera, abbiano ispirato anonimi compositori di canti popolari. Verdi nel terzo atto di Traviata fa cantare a Violetta l’aria “Addio, del passato bei sogni ridenti” ed evidentemente all’epoca quella melodia è diventata così tremendamente popolare da essere citata all’interno di una cantiga in quel di Salonicco, Istanbul o Smirne. Per noi il senso di questa operazione è sottolineare il fatto che le melodie potenti viaggiano e trascendono i confini delle appartenenze di genere. Come musicisti non siamo affatto intimiditi o imbarazzati nell’accostare Verdi a una Cantiga sefardita. Ovviamente il segreto è nel trovare una veste stilistica, un arrangiamento efficace e la giusta narrazione che renda fluido il collegamento tra i brani.
 
In “Arvolicos d'almendra” il ladino incontra il griko. Cosa condividono queste due lingue? 
Fabrizio Piepoli - Sono due lingue della quotidianità, due lingue mediterranee che, come delle spugne, hanno assorbito elementi di altri idiomi. Quello che ci attrae sia del ladino che del griko è la profonda musicalità, il loro melos interno ma anche il loro essere lingue di scambio per così dire, di transito, di
incontro, dialogo. I greci usavano il termine “dialektòs” che significa colloquio, conversazione. Noi amiamo i suoni delle varie lingue del Mediterraneo, dei suoi dialetti, e operiamo spesso incroci, “colloqui” tra di essi.
 
Tra tradizione colta e popolare si incontrano ne “La Tarantella” ...
Giorgia Santoro - Un'altra caratteristica del nuovo album, come già detto, è quella di far dialogare la tradizione della musica "colta" con la tradizione popolare. Quando abbiamo ascoltato "La Tarantella a cinque voci con violini. Per la Nascita del Verbo" (è il titolo completo) di Cristoforo Caresana, ci ha affascinato indubbiamente la bellezza della musica e del testo, ma anche l'uso, ad opera del compositore, di uno schema musicale tipico del formulario seicentesco del tarantismo, dove il ragno viene identificato con Lucifero. Una tarantella d'autore che si ispira alle formule popolari dimostrando una grande modernità.

"Vorrei Volare" è parte del repertorio di Uccio Aloisi. Secondo voi cosa ha rappresentato questa figura di cantore? 
Giorgia Santoro - Uccio Aloisi è uno dei più rappresentativi cantori della tradizione musicale del Salento. Era dotato di una vocalità pura e di grande qualità, cantava il coraggio, la tristezza e l'amore e ha dedicato tutta la sua vita al lavoro e al canto, senza trascurare né l'uno né l’altro. Vorrei Volare è uno dei suoi canti più rappresentativi che esalta la sua eccezionale vocalità ed è al tempo stesso un canto che ci ha sempre affascinato, ed è per questo che abbiamo pensato di farne una nostra versione, modificando le strofe,
componendo uno strumentale e creando una coda finale che arriva come inaspettata.
 
Due brani provengono da Siria e Libano (“Almaya” e “Ya Mariam el bikr”). Una scelta significativa per due paesi musicalmente importanti accumunati pure dalle sofferenze. Ce ne parlate?
Fabrizio Piepoli - Percorro ormai da tempo un cammino musicale e didattico volto allo studio e alla diffusione della musica araba in Italia, attraverso l’attività concertistica e, da qualche anno, l’attività di docente nel Conservatorio di Lecce. Sono da sempre innamorato dei canti della tradizione cristiana maronita d’Oriente e delle voci di cantanti mediorientali come Fairouz, Majida el Roumi, Leena Chamammyan, Abeer Nehme legate a questo repertorio, per cui è stato naturale proporre a Giorgia e Adolfo di eseguire questa splendida “Ave Maria” in arabo. "Almaya" è un brano popolarissimo in tutto il Medioriente, non solo in Siria, dal carattere positivo e festoso mentre Ya Mariam ha l’atmosfera meditativa e intima di una preghiera, motivo per il quale abbiamo scelto di eseguirla con l'arpa. Ci è piaciuto celebrare questi due meravigliosi aspetti della grande tradizione araba: gioia e spiritualità.
 
“Longa farahfaza” di un altro nome di rilievo, l’egiziano Riad Al Sunbati… 
Fabrizio Piepoli - Riad al-Sunbati, compositore, poeta, virtuoso dell’oud, è stato un gigante della musica egiziana e, in generale, mediorientale del XX secolo, il cui talento e genio spaziava dalla musica alla poesia. Questa longa (stile di composizione strumentale classica di derivazione turco-ottomana) viene
anche chiamata “Longa Riad” ed è uno dei brani più suonati in assoluto da ensemble orientali, non solo arabi.  Abbiamo voluto omaggiare un uomo che ha contribuito fortemente ad unire Oriente e Occidente con la sua arte radicata nella conoscenza più profonda della musica classica araba ma nello stesso tempo aperta alle influenze degli stili musicali occidentali.
 
Concludete con il Monteverdi di “Si dolce è 'l tormento”. Come si inquadra nella scelta estetica de La Novia?
Giorgia Santoro - La forza del nostro progetto sta nell'eterogeneità dei nostri percorsi. Personalmente provengo dalla musica classica, sono infatti docente di flauto presso il Conservatorio di Monopoli. Ho sempre amato questo brano che avevo già proposto ad Adolfo e Fabrizio in passato, ma solo in questo disco ha visto la luce in una forma essenziale e delicatissima, con l'arpa, l'oud e la voce. In questo famosissimo brano, Monteverdi propone un tema molto comune: il "dolce tormento" di un cuore infranto che diventa sospiro, un affanno che infiamma e che sembra mitigarsi, come fosse eternamente sospeso tra la speranza e il dolore. Quanti modi ci sono di raccontare questo sospiro d'amore? Forse infiniti, ma in questo ultimo album abbiamo scelto di raccontarlo anche attraverso le parole di Monteverdi.


Ciro De Rosa e Salvatore Esposito


La Cantiga de La Serena – La Novia (Zero Nove Nove, 2023)
Come dettagliatamente rappresentato nell’intervista, l’album de La Cantiga de La Serena può rappresentare un paradigma della musica (colta?) contemporanea che si produce nel nostro paese. Si tratta di un insieme di composizioni – undici in tutto – che ci parlano di un flusso di suoni che continua a scorrere e che (da secoli, da millenni) avvolge un immaginario molto stratificato (stratifica una cultura espressiva molto viva, per quanto non sempre e non interamente comprensibile ai più). Che illumina un bacino – quello mediterraneo – che non ha mai nascosto i livelli di cui è composto, ma che ha, in alcuni casi, subìto interpretazioni riduttive: troppo semplici, sbrigative, reificanti. Non è certo il caso di arrangiare una critica storica delle interpretazioni delle espressioni musicali (poetiche, liriche) che si incrociano in questa vasta aria. Ma vale la pena – secondo noi – dare la giusta visibilità alla loro complessità. Non per garantire sull’oculata selezione che sottende queste pagine (in fin dei conti – potremmo dire – è una questione di gusti e è inutile discuterne), ma per contribuire a un processo (questo sì, per noi, necessario) di diffusione dello studio e della ricerca. Che porta dritti alla scoperta della qualità, della dedizione all’indagine. Alla scoperta di una forma di impiego e di coinvolgimento che ha molto a che fare con un approccio devozionale, addirittura mistico. E – beninteso – non siamo noi quelli che facciamo il lavoro grosso. Sono quelli di cui parliamo e, in modo ancora più assoluto di altri, i musicisti che rappresentano La Cantiga – un trio di autori straordinari, oltre che esecutori impeccabili – e quelli che confluiscono in questo album radioso “La Novia” (tutti citati nell’intervista). Loro incorporano – producendo un distacco evidente su molti altri progetti che guardano allo stesso orizzonte – le mille articolazioni di questo scenario infinito, al cospetto del quale si rimane abbagliati, per tanta forza e passione si riesce a percepire. È una valutazione evidentemente piena di trasporto: ma è l’unica possibile. Un album così forte – di suoni, di storia, di passione esecutiva – non si può analizzare, rischiando di scivolare o (anche solo) di mettere un piede in quel tormento dell’oggettivazione. Non si può rappresentare efficacemente dentro i codici di una trasposizione letterale. Si può descrivere per sensazioni. Perché questa dimensione – che si somma a tutte quelle depositate dai canti e dagli strumenti, e dalle storie che evocano – appare, nel momento stesso della scrittura, quella meno artefatta: meno distante e plastica. Insomma, potete leggere nelle parole stesse degli artisti l’epica di una visione senza limiti, senza confini convenzionali. Dentro la quale compaiono gli elementi più straordinari della nostra tradizione espressiva: dalla musica sefardita alla tarantella, da Verdi a Monteverdi, passando per Salonicco, Smirne e Istanbul, l’Egitto, la Libia, il Salento e Napoli, l’oud, la chitarra battente, l’arpa celtica, il violino, il canto corale, i fiati e le percussioni. Avanguardia e avamposto, immersi nella lirica fluida, morbida di un racconto passionale. In cui ogni voce si rincorre e si aggancia, mischiandosi, a quel flusso inarrestabile che riconosciamo nell’immagine del Mediterraneo. “La Novia” può, in ultima istanza, considerarsi un tentativo di potenziare, hic et nunc, una cantata ben piantata, come una diga, in una dimensione corale fondamentalmente inamovibile, sotto gli strati (più o meno reali, concreti) della world music mediterranea e della sua patina destoricizzata. Una dimensione che si ritrova scavando – “viva viva l’eternità” si canta in “La Tarantella” – e avallando la dignità di un’ispirazione nuova, estremamente moderna, legata in egual misura al coraggio compositivo e alla competenza esecutiva. Ma soprattutto all’interpretazione – torniamo a dire – dei riflessi che generano le sponde. Che non costituiscono limiti, demarcazioni, vincoli. Ma solo soglie: che la Cantiga, naturalmente e con coscienza, ci invita a varcare. 


Daniele Cestellini

Foto di Giuseppe Pezzulla

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