Fabrizio Piepoli – Maresia (Zero Nove Nove, 2022)

#BF-CHOICE 

Viaggia nelle pieghe del tempo Fabrizio Piepoli, autore, cantante e polistrumentista barese (chitarra battente, oud, saz, chitarra classica, basso, shruti box, dayereh, daff, sajat e morchang). cresciuto nella metà degli anni ’80 all’interno della scena rock new wave, ha coltivato parallelamente lo studio della musica antica e delle tradizioni musicali principalmente del bacino del Mediterraneo. Studi di pianoforte e canto corale al Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, ma anche canto gregoriano e improvvisazione. Carriera già prestigiosa la sua, a lungo è stato la voce dei Radicanto, più di recente ha formato il trio Cantiga de la Serena, per non dire delle numerosissime collaborazioni. Da docente, insegna musiche e canti tradizionali ai Conservatori “Tito Schipa” di Lecce e “Luisa D’Annunzio” di Pescara. Piepoli raccoglie immagini, storie, suoni, parole, gesti, memorie ed echi di genti. Nella sua ricerca vocale confluiscono con naturalezza ed espressività sfumature eteree ed estatiche, combina estetiche pop con modi e stili del canto di area mediterranea. Pubblica “Maresia”, esordio dell’etichetta Zero Nove Nove, il suo terzo album da solista, dopo “Autumn sessions” e, soprattutto “Il Cedro e la Rosa”, al quale quest’ultimo lavoro si connette idealmente, e in cui intreccia la sua intima scrittura autoriale con temi d’autore e di tradizione orale, esaltando i timbri di strumenti centrali nello sviluppo delle musiche colte e popolari nel mondo mediterraneo attraversato idealmente da ovest ad est (oud, chitarra battente e saz). Ciro De Rosa
 
Come si è modificata la tua traiettoria artistica di autore, cantante e interprete da Radicanto alla carriera solista e al lavoro con La Cantiga de la Serena?
Sono uno di quei musicisti che ama molto la dimensione dello studio, della ricerca costante ovvero quella dimensione privata che vivi quando sei giù dal palco e fuori dalla giostra della fitta agenda di concerti. Posso dire serenamente che mi piaccio decisamente più oggi che nel passato, mi sento più a fuoco per così dire, tecnicamente più solido ed espressivamente più consapevole. Gli esordi con Radicanto sono legati a un’età di scoperta del repertorio tradizionale, vissuta con entusiasmo acerbo, ma sono stati gli anni (più di venti) in cui ho maturato via via la mia scrittura autoriale così come la mia capacità interpretativa.  Con il trio Cantiga de la Serena si lavora ad un altro livello, c’è la disciplina della musica classica (proveniamo tutti e tre da studi in Conservatorio), l’estro dell’improvvisazione (Giorgia Santoro e Adolfo La Volpe appartengono anche al mondo dell’improvvisazione radicale jazz), la cura di ogni singolo dettaglio musicale e scenico. È un progetto prettamente acustico. La dimensione solista è invece una sorta di sfida tra il sapersi autogestire, calibrare, e il dare sfogo a tutta la propria follia creativa. Uso strumenti acustici ed elettronica (pedali, loop machines), mi concedo il massimo livello di libertà espressiva. Per una natura come la mia, musicalmente esuberante ed onnivora, è una necessità davvero entusiasmante. 

Qual è il tuo percorso formativo di cantante? Cosa ricerchi nella voce? 
Ho iniziato come autodidatta suonando da adolescente in una band di rock new wave per alcuni anni. Tra i miei gruppi preferiti c’erano due voci straordinarie: Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins e Lisa Gerrard dei Dead Can Dance) attraverso le quali ho approcciato stili di canto insoliti ed extra-occidentali. 
Ma ho iniziato davvero a studiare seriamente la voce quando ho approfondito la conoscenza della world music e della musica antica: sono due generi musicali in cui, a mio avviso, è richiesta al cantante una certa dose di perizia tecnica e direi anche di virtuosismo. Ho avuto due grandi amori ‘world’ all’inizio: le voci del mondo arabo e del mondo sefardita (dalla Libano al Marocco) da un lato e quelle, femminili in particolare, del mondo celtico. Ero attratto e inebriato da questo loro essere incredibilmente sofisticate ed espressive. Non ho mai avuto propriamente un maestro di canto, né mai ho preso una vera e propria lezione di canto in vita mia. Piuttosto ho incontrato alcuni colleghi che sento di aver vissuto come veri e propri maestri, all’interno dei vari progetti professionali (le formazioni e i cori di cui ho fatto parte) e durante gli anni di studio in Conservatorio.  Nella voce amo e ricerco la ricchezza timbrica, la capacità di giocare con i colori in modo sorprendente e mai prevedibile. Non sono un cantante che resta a lungo nella propria zona di confort, mi piace toccare i limiti delle possibilità, lì dove sei in bilico tra sicurezza e vulnerabilità e dove, secondo me, si crea il contatto emozionale più profondo con te stesso e di conseguenza con chi ti ascolta.  Ho in me tante voci che mi cantano dentro mentre canto una singola melodia e avverto costantemente questa necessità e piacere di espandermi, moltiplicarmi. Per questo mi piace giocare con i registri vocali, sentirmi libero di essere tutte queste voci.  

Sei da lungo tempo coinvolto in laboratori di didattica. Quale è il tuo approccio? Quali stili e repertori privilegi? A chi ti rivolgi? 
I miei workshop corali sono essenzialmente incentrati su repertori tradizionali provenienti da varie aree geografiche del Mediterraneo. Utilizzo polifonie tradizionali ma anche monodie che arrangio personalmente per tre, quattro o più voci. Ultimamente sto dando molto più spazio ai canti della mia terra, la Puglia. Mi piace arrangiare una tarantella garganica o un canto alla stisa salentino mettendoci il mio gusto personale, ad esempio puntando su una scrittura fortemente poliritmica che utilizza le voci come veri e propri strumenti percussivi, non soltanto melodici, o anche introducendo ritmi e ‘patterns’ vocali appartenenti ad altre tradizioni. In alcuni casi, ad esempio, può venir fuori una tarantella che ha qualcosa di ‘bulgaro’ oppure ‘marocchino’. I laboratori si rivolgono a un pubblico eterogeneo per età e provenienza: non solo cantanti più o meno professionisti ma anche voci interessate semplicemente allo studio, alla condivisione appassionata. Oggi sto portando questo lavoro svolto nell’arco di decenni anche all’interno del Conservatorio di Lecce, dove insegno Canto Tradizionale.  

Quanto influenza il tuo modo di stare in scena il tuo lavoro nel teatro? 
Ho cominciato come professionista proprio in teatro, moltissimi anni fa. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi e attori di valore che mi hanno insegnato davvero tanto. Il teatro resta per me il luogo più emozionale in assoluto, più di qualunque grande palco da concerto. E’ per me casa e santuario: ogni gesto, ogni movimento è in scena e per questo diventa immediatamente potente, sacro. In teatro ho scoperto la mia capacità di trasformare la paura, l’insicurezza, l’imbarazzo in carica espressiva, pathos, esaltazione, gioia. È un luogo che mi ha dato il coraggio di essere completamente me stesso, senza vergogna alcuna. In teatro ho capito definitivamente che la musica per me non è solo passione ma destino. 
Sono stato fortunato ad imparare questa lezione agli inizi della mia carriera. 

Perché “Maresia”? 
In portoghese la parola “Maresia” significa la spuma di mare che si vaporizza nell’aria, quando il vento sferza la cresta delle onde. È un fenomeno metereologico ma anche uno stato d’animo. Immagino Maresia come il sudore del mare che gioca a rincorrersi, come una corsa a braccia spalancate che ha in sé l’incedere terzinato della tarantella e comunica un senso di espansione, di apertura alare, di gioia oceanica. In senso traslato Maresia significa per me l’incessante mescolarsi di lingue, storie, genti del passato, del presente, del futuro. E’ quello che voglio raccontare con la mia musica, ciò che vivo quando suono e canto la tradizione e quando compongo i miei brani.  La parola maresia l’ho incontrata per la prima volta nel testo di un fado, “Maria Lisbõa”, che cantava l’immensa Amalia Rodrigues. L’autore, il grande poeta David Murão Ferreira, dà a Lisbona le sembianze di una donna del popolo, una pescivendola, una donna che “Vende sogno e maresia”. Ecco, il mio canto è questo: sogno e maresia. 

Come hai costruito la scaletta di questo album? 
Quando ho iniziato a costruire la scaletta di “Maresia”, esattamente un anno fa, sono partito da pochi brani che stavo già suonando ed arrangiando: la tarantella strumentale per chitarra battente che apre il disco è stato il primo di questi, e devo dire che il titolo “Maresia” mi è venuto di getto. Questa immediatezza ha guidato tutte le scelte successive. Volevo che fosse un disco “italiano”, di musica tradizionale ma che contenesse anche la mia impronta autoriale in maniera decisa. La cosa più divertente e sorprendente è che
ho finito per comporre tre brani, tutti strumentali. Emergere come strumentista è una cosa che mi piace moltissimo, perché nasco e resto un cantante polistrumentista che non usa gli strumenti solo per accompagnare il canto, dunque sullo sfondo, ma ne esplora le possibilità espressive.  Il ritmo terzinato di tarantella della prima traccia ha condizionato molto la scelta degli altri brani o almeno il loro arrangiamento. La tarantella come sound della mia appartenenza animica e geografica al Sud e al Mediterraneo è stato un po’ il leit motiv del mio lavoro. Una tarantella secondo Fabrizio ovviamente, intrisa di tutte le mie voci e i miei suoni. Un altro brano chiave che ha dettato il passo del disco è stato “Melagranada Ruja” di Marisa Sannia, che rappresenta in questo disco ciò che “La sposa” di Giuni Russo ha rappresentato per il mio precedente lavoro “Il cedro e la rosa”: un atto d’amore per donne autrici immense, coraggiose, profondissime. Il fado di Amalia, la tarantella garganica dei Cantori di Carpino, i canti arbëreshë sono altrettante scelte d’amore, fatte seguendo la stessa logica di immediatezza espressiva, di entusiasmo nel volermi raccontare come musicista delle identità pugliesi in costante osmosi con le geografie sonore tradizionali che mi circondano. 

Nell’album suoni undici diversi strumenti: quali elementi di affinità e quali di alterità li caratterizzano? ci sono brani nati fin dall’inizio dal rapporto con uno strumento? 
L’intero disco è concepito intorno a un trittico di strumenti. Tutti gli altri, dalle percussioni a cornice al basso elettrico, sono come satelliti che ruotano intorno a questi pianeti. La chitarra battente De Bonis, costruita apposta per me da Rosalba - ultima discendente della storica famiglia calabrese di liutai -, è stato
lo strumento di partenza, il perno di questo disco. Uno strumento che da tempo suono già con la Cantiga de la Serena e sul quale da un paio d’anni ormai prevalentemente compongo.  L’oud arabo rappresenta invece l’altra metà del mio cuore. Chi mi segue da un po’ conosce la mia devozione per il mondo arabo, le sue musiche, le sue culture. Durante il lockdown ho iniziato a studiarne anche la lingua (l’arabo classico). L’oud è storicamente il re degli strumenti arabi, lo strumento sul quale è stato codificato il maqam, il sistema musicale arabo. Il terzo strumento è il saz baglama turco, popolarissimo in area turco-anatolica che ho acquistato un po’ per curiosità e di cui ho finito per innamorarmi perdutamente. In un certo senso mi riporta alla mia giovinezza di chitarrista acustico, a quel tipo di energia esplosiva. I tre brani originali, “Maresia” (battente), “Sair” e “Tetuàn” (saz), sono nati, appunto, dal rapporto e dall’esplorazione dei suddetti strumenti, mentre l’oud ha dato il vestito al brano più particolare del disco, “Melagranada ruja”. 

Chi sono i compagni di viaggio dell’album? 
Tralasciando per un momento i risvolti metaforici della domanda mi piace parlare dei compagni umani di questo album, coloro che ne hanno seguito la gestazione e voluto fortemente la nascita: i miei discografici Giuseppe Bortone e Giuseppe Tafuro di Zero Nove Nove (“Maresia” è il primo disco della neonata etichetta), che rappresentano anche il mio manangement e seguono l’organizzazione dei miei live. Il mio rapporto con loro è stato alla stregua di quello con i membri di una band: alcune decisioni in fase di arrangiamento sono proprio state influenzate dai loro consigli. Sono diventati parte della mia famiglia. Amo molto la dimensione familiare, quell’affetto quotidiano e confortante che circonda il lavoro e che tendo sempre a cercare e stimolare in chi mi sta intorno. I miei amici più cari da sempre ascoltano i provini dei brani, mi danno consigli, mi influenzano. Infine credo di aver vissuto questi grandi cantori, autori e interpreti del passato presenti nel disco come degli spiriti guida, dei numi tutelari.  

Una delle scoperte, in un certo senso, è quello del repertorio di Marisa Sannia… 
È stata davvero una ri-scoperta incredibile (conoscevo solo le sue apparizioni sanremesi degli anni ’80) che ho fatto all’epoca del primo lockdown. Mi ha letteralmente folgorato scoprire il suo repertorio straordinario in lingua sarda, che compose a partire dagli anni ’90 dando una svolta per così dire world alla sua carriera: brani dalla potente forza evocativa cantati da una voce intensa, tellurica e delicatissima al tempo stesso, la voce fiera, arcaica, sensuale di una donna sarda. Ho ascoltato quei lavori discografici credo per mesi, quasi quotidianamente, ma “Melagranada ruja” è il brano della Sannia che più mi ha toccato l’anima. Quando ho deciso di registralo ho ridotto il mio arrangiamento all’essenziale, affidando la parte strumentale soltanto al suono dell’oud arabo, che intesse le sue melodie intorno al canto. Volevo che questa “Rossa melagrana” suonasse seducente come un muwashshah arabo-andaluso, epica come l’antica epopea di un eroe messa in musica. (“È caduta la torre, è caduta la casa/Il valente è morto, Il gigante è morto”). Un racconto dolente che riesce, infine, a cullare, a confortare (“Madre, lascia piangere la stella della sera/ho freddo e sonno, non ho dolore/coprimi di terra e cantami una ninna nanna”). Trovo inoltre la biografia di questa donna di una bellezza struggente. Lei, come Giuni Russo, donna fortissima e fragile al tempo stesso, una tempra da isolana fiera e appassionata, per nulla incline ai compromessi della discografia ufficiale.  

Poi ci sono gli amori di sempre: il canto garganico… 
Direi il primo amore. La tarantella garganica è stata la mia educazione sentimentale alla musica popolare, per così dire. Dai miei esordi nella musica tradizionale ho sempre cantato tarantelle alla vestësanë, alla mundanarë e alla rurëjanë ed ho avuto la fortuna di sentirle spesso intonate dalla viva voce degli anziani cantori a Carpino, nelle varie edizioni in cui ho partecipato al Carpino Folk Festival. È una forma di tarantella unica, spesso accostata per il suo incedere aspro e il modo di cantare ‘indietro sul tempo’ al blues.   In scaletta nel mio concerto eseguo tutte e tre le tipologie di tarantella arrangiate rispettivamente per chitarra battente, oud e saz. Nel disco ho voluto suonare la tarantella alla vestësanë “Stella d’ori”, prendendo a modello la storica versione del cantore carpinese Rocco Di Mauro (raccolta a Carpino nel 1966 da Roberto Leydi e Diego Carpitella). Mi sono cimentato con un tipo di canto diretto, crudo e
popolare molto diverso da quello mio solito, morbido e melismatico. L’ho vissuta come una sorta di sfida divertita ed esaltante.    

Con “Ninna Nanna” hai voluto ricordare Antonio Piccininno: vuoi parlarcene? 
Antonio è il cantore col quale ho sempre avuto più feeling. Una persona elegante, con la sua coppola che indossava anche in pieno agosto e con una voce dolcissima e dosata. Mi ricordo la prima volta che lo incontrai a Carpino, ero seduto accanto a lui su una scalinata e mi mostrò il suo piccolo taccuino su cui annotava minuziosamente i suoi sunettë, ovvero le strofe dei canti.  La sua versione struggente della ninna nanna - che apprese giovanissimo dagli anziani - è una pietra preziosa di rara bellezza. Ho voluto mantenere la linea del canto sul registro grave, come faceva Antonio, ma insieme ad essa ho registrato altre due voci, una delle quali, sopranile, intesse una melodia dolcissima. Ho giocato un po’ - come spesso faccio -  con i registri vocali e le parti della mia identità, quasi che il maschile e il femminile possano cullarsi a vicenda e addormentarsi insieme. Recentemente in occasione di un concerto in solo sul Gargano dopo aver ascoltato la Ninna nanna una persona che conosceva bene Piccininno mi ha detto: “Mi hai commosso, sembrava che Antonio ti cantasse da dentro”. È stata un’emozione indescrivibile. 


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