La Cantiga de la Serena – La Mar (DodiciLune/I.R.D., 2021)

#BF-CHOICE 

Composto da tre musicisti e ricercatori di grande talento come Giorgia Santoro (flauto, ottavino, flauto basso, flauto contrabbasso, bansuri, tin whistle, arpa celtica, banjo indiano, cimbali), Adolfo La Volpe (oud, chitarra classica, chitarra portoghese, bouzouki irlandese) e Fabrizio Piepoli (voce, chitarra battente, daff), La Cantiga de La Serena è uno dei progetti artistici più interessanti emersi nella scena musicale pugliese negli ultimi dieci anni e questo non solo per la peculiarità del repertorio e della ricerca sonora che si dipana attraverso le acque del Mediterraneo dal Salento alla Spagna per toccare i Balcani, ma anche per la grande cura riposta nell’utilizzo di strumenti tradizionali. Dopo aver debuttato con “La Serena” nel 2016 che focalizzava l’attenzione sulla musica ebraico-sefardita e le diverse influenze che aveva accolto nel corso della storia, il supertrio ha proseguito il suo cammino nel 2019 con “La Fortuna” che, a differenza del precedente, li vedeva riscoprire la tradizione musicale pugliese attraverso il dialogo con i suoni di terre lontane come Provenza, Spagna e Irlanda. A due anni di distanza, La Cantiga de la Serena torna con “La Mar”, album che completa la trilogia dedicata al Mare ed, in particolare, ai suoni del Mediterraneo, sulle cui acque tornano a mettersi in viaggio. Durante l’edizione 2021 di Coreutica, andata in scena a fine luglio a San Vito dei Normanni (Br), abbia incontrato Giorgia Santoro e Fabrizio Piepoli per farci raccontare dalla loro viva voce questo nuovo lavoro, la cui genesi è stata catturata dal documentario omonimo per la regia di Giuseppe Rutigliano.

“La Mar” completa la vostra trilogia discografica dedicata al Mare Nostrum. Come nasce questo nuovo album?
Giorgia Santoro - Abbiamo ripreso il viaggio attraverso le acque del Mediterraneo per approdare in vari luoghi, portando con noi la nostra tradizione. Siamo partiti dalla Grecia con il brano tradizionale “Garifalia” che abbiamo accostato al canto tradizionale della Grecìa Salentina “Sto Korafaissu”, abbiamo toccato la Spagna con la musica degli ebrei sefarditi con “Morenica” che abbiamo intrecciato a “Moretto Moretto” e in Galizia con “Mandad'el comigo”, ed ancora siamo giunti in Siria con “Ala Mouj El-Bahr” per giungere alla fine in Macedonia con la danza “Adana”.
 
Come si è evoluto il vostro percorso di ricerca nel corso degli anni?
Giorgia Santoro - Con “La serena” siamo partiti con l’idea di andare ad esplorare zone nuove con il secondo album “La fortuna” siamo ritornati a casa e ci siamo dedicati di più alla musica tradizionale pugliese, e infine, col terzo album ci siamo rimessi in viaggio, però con una consapevolezza diversa più matura e portando sempre le nostre tradizioni con noi.
 
Alla realizzazione de “La Mar” hanno partecipato anche alcuni ospiti…
Giorgia Santoro - Alle registrazioni del disco hanno partecipato Francesco D’Orazio al violino e Roberto Chiga alle percussioni che spesso collabora con noi anche dal vivo. Il violino è stato fondamentale in alcuni brani come nella villanella napoletana cinquecentesca “Tre Donne Belle", scritta dal compositore
pugliese Leonardo Primavera, allo stesso modo fondamentale è stato il contributo nel brano siriano “Ala Mouj El-Bahr”. Tra l’altro, Francesco D’Orazio è un violinista classico, è un esperto di musica antica ma anche di musica contemporanea e ha proprio studiato il linguaggio per suonare questi brani nel modo giusto. Il violino solista spicca anche in “Diavule Diavule” in cui abbiamo incastonato una tarantella del Settecento “Alia Clausula”, come omaggio alla ricerca di Giorgio Di Lecce e Arkane Mediterranea che in “Danzimani” aveva ripreso alcuni frammenti di tarantelle presenti anche nel libro di Athananius Kircher. Il violino e il flaudo dialogano seguendo la partitura originaria e, a parte qualche momento di improvvisazione, abbiamo conservato i temi originali.
 
Il viaggio di “La Mar” è cominciato comunque sul palco, perché alcuni brani come “Diavulë diavulë” erano già nel vostro repertorio…
Giorgia Santoro - “Diavulë diavulë” lo suonavamo spesso come bis e, molto spesso, i vari brani li inseriamo nel repertorio proprio in questo modo. In realtà non li cerchiamo, ma arrivano naturalmente e prendono forma per qualche occasione in cui ci chiedono di seguire un tema in particolare.
 
Il disco è attraversato dal fil rouge tematico della donna e dell’universo femminile…
Giorgia Santoro - In molti brani del disco è presente questo tema e, in particolare, nella villanella “Tre Donne Belle” si celebra l'energia femminile. Sono tre donne che hanno l'ardire di sfidare il sole, la luna, le stelle e anche Giove.
C'è, poi, “Sabella (Ieri sera chiantai nu dattilu)” che abbiamo chiamato in questo modo perché è una tipologia di canto, in cui protagonista si ribella al destino già toccato alla sorella che era stata uccisa dal marito. E’ una storia di donne che sono in qualche modo delle rivoluzionarie. Al tema del femminile è affiancato quello del mare, ed entrambi sono racchiusi nell’immagine simbolica della sirena da cui prende nome il nostro progetto.
 
Come avete approcciato l’arrangiamento dei brani? Quali sono le identità e le differenze rispetto ai lavori precedenti?
Giorgia Santoro - Cerchiamo sempre di rinnovarci livello di arrangiamenti e c'è stato uno studio accurato. Ci sono delle parti che sono delle mie composizioni, come nel caso di tutte le variazioni della tarantella alla napolitana “Tre donne belle”, così come lo strumentale “Tres Hermanicas” in cui la prima parte è ispirata ad una danza irlandese, mentre la seconda l’ho composta io ispirandomi a quella a quel linguaggio. Anche le variazioni di “Sabella” di mia composizione e per farle ho tratto ispirazione alle danze di Gaspar Sanz o meglio al modo in cui le ha rielaborate Joaquín Rodrigo in “Fantasia para un gentilhombre” per chitarra ed orchestra ma ne ha fatto anche una versione bellissima per flauto ed orchestra.
 
Guardate alla tradizione non come forma musealizzata ma in movimento. Come hai approcciato la scrittura di nuove partiture da integrare nei brani tradizionali?
Giorgia Santoro - L'idea che poi una caratteristica il nostro progetto è proprio quello di attingere da materiale tradizionale per poi farlo nostro. I brani che rileggiamo prendono una nuova forma. E’ come se diventassero dei nuovi brani e questo concetto compositivo c'è anche nella tipologia degli arrangiamenti, nella scelta degli strumenti, nell'uso delle voci. Spesso le voci si intrecciano con flauto come fosse uno strumento. I brani diventano, dunque, quasi delle nuove composizioni. L’idea compositiva di quelle parti che sono proprio state scritte ad hoc è sempre quella del rispetto dei materiali tradizionali da cui si parte, ma naturalmente il tutto è filtrato dal nostro bagaglio culturale, da quello che sono le nostre esperienze. Io sono una musicista classica e vengo da quel mondo, ma esploro con gioia questi linguaggi.
 
Fabrizio, come hai impostato il lavoro a livello vocale di ricerca vocale in questi anni?
Fabrizio Piepoli - Ho seguito una rotta un po' sghemba, perché sono partito dallo studio della tradizione sefardita che, dal punto di vista musicale, è legata alla tradizione del maqam arabo, filtrata attraverso il gusto spagnolo. Ho fuso poi la mia ricerca sulla vocalità mediorientale insieme alla gestualità vocale della nostra tradizione popolare, tenendo presente che sono fortemente influenzato da quei cantori popolari che utilizzano anche gestualità vocali tipiche di un certo melos italiano, spesso di derivazione quasi operistica. Questi esempi di contaminazione tra colto e popolare sono molto diffusi nella nostra cultura musicale. Personalmente mi muovo a cavallo tra vari generi, tra vari stili vocali quello più tipicamente melismatico mediterraneo e quello un po’ più classico occidentale, con una particolare predilezione per l’universo della musica antica.

Da fiatista che ricerca il fatto sulle timbriche degli strumenti a fiato in questi anni?
Giorgia Santoro - Farci guidare dai timbri degli strumenti come fossero il canto della sirena è un'altra caratteristica del nostro progetto. A volte scegliamo gli strumenti non per la provenienza geografica, ma piuttosto perché quel timbro vibra perfettamente con quel canto. In particolare, la ricerca sui timbri per i flauti parte da una curiosità continua e dal bisogno anche di trovare nuovi impasti timbrici che possano fondersi bene con gli altri strumenti. Ricercare anche il suono del legno in alcuni strumenti che uso come con il bansuri che viene dalla tradizione indiana, ma in realtà è semplicemente una canna di bambù esattamente com'erano i flauti da cui è nato flauto traverso. Un flauto primitivo, dunque, ma di una bellezza e di una poetica struggenti. Il nostro è un racconto continuo che avviene anche attraverso gli strumenti e, in questo disco, c’è anche una novità per quanto mi riguarda perché suono anche l’arpa celtica. Ero affascinata dalle sue corde e ho fatto delle ricerche, spinta anche dall’esigenza di spogliarmi dalla dal ruolo di strumentista a fiato e solista in quanto i fiati prediligono le melodie. Volevo andare a lavorare più in maniera verticale nell’armonia e incastrarmi con le loro corde.
 
Prima Giorgia ha fatto cenno al racconto e nell’assistere ad un vostro concerto si ha proprio la 
sensazione di essere avvolti da una narrazione che passa attraverso gli strumenti, ma anche attraverso la voce affabulatrice di Fabrizio…
Fabrizio Piepoli - Il mio battesimo del fuoco in questo genere di musica è avvenuto in ambito teatrale e risale a tanti anni fa, non ricordo più nemmeno quanti. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi teatrali e con quanti si occupavano di movimenti scenici come danzatori e coreografi che mi hanno dato tanto in termini di esperienza. Ho sempre amato questa impronta scenica, questa messa in scena del suono. Evidentemente questa cosa ha risvegliato la voglia di uscire dalla timidezza adolescenziale e di gettarsi in questa lunga ricerca nel rapporto col proprio corpo, con la propria gestualità, il proprio movimento per farlo aderire al movimento vocale. Il racconto è veramente un incantesimo, è un rituale. Dico sempre che lo stesso concerto è un rituale. Giorgia giustamente spesso dice il rituale inizia quando arrivi in un luogo e, in realtà anche prima con la preparazione. Arrivi in un luogo, lasci gli strumenti, entri nel camerino e cominci a prendere possesso dello spazio. Noi già iniziamo a visitarlo con il movimento, anche a cambiare delle cose perché il luogo suggerisce ai nostri corpi come mettere in scena alcuni brani. Per esempio, c'è un brano in particolare che noi eseguiamo con la voce, le mani e i sagat, i cembalini da dito e viene tutto molto naturale. Ho avuto maestri incredibili, ideali e reali. Tra i maestri reali - che in realtà ho vissuto più come colleghi ma in realtà li considero dei maestri - c’è sicuramente Pino De Vittorio. Lo trovo straordinario perché è capace di stare fermo, immobile e lavorare sulla ruga come fa Meryl Streep con la recitazione. Lui lavora con il minimo, con la misura e la grazia senza che ciò tolga importanza all’esplosività necessaria in certi momenti, e noi lavoriamo molto proprio sulla sottrazione, il gesto misurato ed elegante, a volte l’immobilità mentre indossiamo i nostri strumenti e suoniamo.
 
Altro elemento fondamentale nei vostri concerti è la dimensione coreutica con la presenza sul palco di un danzatore: Andrea De Siena…
Fabrizio Piepoli - Andrea è ormai un membro della nostra famiglia. Giorgia lo scelse con piena consapevolezza: le piaceva la qualità del suo movimento, sentiva che questo movimento si incastrava benissimo con i nostri. Noi ci muoviamo anche quando c’è Andrea perché gli spettacoli de La Cantiga de la Serena hanno una teatralizzazione spontanea, ma curatissima nei dettagli. Non ci basta suonare ed essere validi nell’esecuzione. Questo, secondo me, è un concetto che vale per tutta la musica.
 
Dal punto di vista prettamente musicale e strumentale come hai impostato il tuo lavoro anche in relazione al dialogo tra corde con Adolfo La Volpe…
Fabrizio Piepoli - In maniera molto semplice perché devo occuparmi principalmente della voce, e all’inizio sono partito suonando il santur indiano che mi permetteva di creare arrangiamenti più complessi come nel caso della “Pizzica di San Vito”. Poi è subentrata anche la chitarra battente che ti apre un mondo poetico che sa di Gargano, Calabria, Campania e Salento e soprattutto ci riporta tanto alla musica antica e in questo senso voglio ricordare anche io la ricerca di Arakne Mediterranea, molto cara a Giorgia. La chitarra battente poi si sposa magnificamente con l’oud o con il bansuri. C’è ancora tanto da scoprire nel tradurre questa musica di tradizione orale, perché nell’atto di tradurla trovi sempre nuovi elementi, nuove prospettive.  
Altro elemento che ha caratterizzato il vostro suono il lavoro sulle percussioni…
Fabrizio Piepoli - Abbiamo lavorato molto in sottrazione, sul dosaggio della spinta percussiva, riducendola proprio all’essenziale. Il groove non è dato solo dall’elemento percussivo ma piuttosto dagli arrangiamenti calibrati nel tempo e nello spazio, dalle dinamiche e dalle intenzioni. Nella tradizione araba gli strumenti melodici importanti si dividono in due famiglie: sahb, a cui appartengono quelli che creano il suono continuo e legato  come il violino e il nay, e naqr, ovvero quelli pizzicati, primo fra tutti l’oud che è capace di portare  insieme la melodia e la pulsazione ritmica.

Concludendo, come avete impostato i vostri nuovi concerti?
Giorgia Santoro - E’ un racconto che non si interrompe mai. Ci sono dei collegamenti tra i vari brani come nel caso di “Tres Hermanicas” e “Tre donne belle”, ma anche di “Morenica” e “Moretto”. In “A Tan Alta Va la Luna” c’è il collegamento con il disco precedente e chiude il cerchio della narrazione. Il canto che ne “La fortuna” era diventato uno strumentale per oud e bansuri, torna ad essere canto con il testo in cui la protagonista è ancora una volta la donna che leva il suo canto alla luna.
 


La Cantiga de la Serena – La Mar (DodiciLune/I.R.D., 2021)
Il percorso artistico compiuto da La Cantiga de la Serena è stato tutto in crescendo e questo perché ad animarli è stata la curiosità di scoprire, sperimentare e spostare sempre più avanti i confini delle loro ricerche, attraverso la musica antica e quella tradizionale del bacino del Mediterraneo. Il loro nuovo album “La Mar” è il capitolo conclusivo della trilogia, aperta dal debutto “La Serena” nel 2016 e proseguita con “La Fortuna” nel 2019 e raccoglie dieci brani che, nel loro insieme, corrispondono alle ideali tappe di un itinerario sonoro attraverso le acque e i porti del Mediterraneo in cui si intrecciano lingue, ritmi e suoni. I tra musicisti rileggono le tradizioni musicali dei popoli bagnati dal Mare Nostrum, le filtrano ed interpretano attraverso il loro background musicale e la loro sensibilità, dandovi nuova linfa vitale nell’incontro tra passato e presente, Oriente ed Occidente, Nord Africa ed Europa. Ad accompagnarli in questo nuovo viaggio sono due ospiti: Francesco D’Orazio (violino) e Roberto Chiga (riqq, pandeiro quadrado e tamburello) che impreziosiscono a livello timbrico i vari brani, ampliando l’espressività della musica del gruppo. Durante l’ascolto si attraversano atmosfere sonore differenti spaziando da canti densi di lirismo, alle danze, da ballate narrative a trascinanti gighe irlandesi, il tutto impreziosito da una visione non convenzionale delle musiche del mondo. Il disco prende il largo con il syrto greco “Garifalia”, intrecciato al tradizionale grico “Sto Korafaissu”, e presentato in un arrangiamento che esalta il dialogo tra le corde della chitarra battente e dell’oud in cui si inserisce il flauto di Giorgia Santoro. Se il canto sefardita “Tres Hermanicas”, magistralmente interpretato da Fabrizio Piepoli, sfocia in una giga irlandese, la successiva “Morenica/Moretto Moretto” è un mash-up tra un canto ebraico e un tradizionale salentino, il tutto magistralmente cesellato dai fiati della Santoro. Il cammino prosegue in Gargano con la trascianante “Diavulë diavulë” guidata dalla chitarra battente e dalla intensa vocalità di Piepoli, ma è solo un momento perché “Ala Mouj El-Bahr” ci conduce in Siria con i fiati di Giorgia Santoro a guidare la linea melodica, sostenuta dalle percussioni di Chiga. Si viaggia indietro nel tempo con la villanella napoletana settecentesca “Tre donne belle” a cui segue la suggestiva versione di “Sabella (ieri sera chiantai nu dattulu)” che aprono uno spaccato tematico sull’elemento femminile, ma il disco riserva ancora ulteriori sorprese con il canto galiziano “Mandad'Ei Comigo” e la danza macedone “Adana”. Il poetico canto alla luna “A Tan Alta Va la Luna”, già ascoltato in versione strumentale nel disco precedente e che qui si arricchisce della voce a conclusione del viaggio. Insomma, “La Mar” è un disco di prorompete bellezza, l’approdo di un viaggio pieno di fascino e bellezza e, nel contempo, il porto per una nuova futura partenza.
 

Salvatore Esposito

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