Un altro nome poco noto in questo Paese che ancora stenta a guardare alla tradizione orale con la stessa nobiltà della cultura letteratura scritta, è il cantastorie e autore calabrese Danilo Montenegro…
Quando iniziai ad accostarmi alla musica popolare uno dei primi brani che mi folgorò fu un tradizionale calabrese “Occhi di monachella” che ascoltai nella versione di Danilo Montenegro, straordinario “incantastorie” (come fu definito), musicista (maestro della chitarra battente), poeta, pittore calabrese che meriterebbe di essere conosciuto molto di più che da una stretta cerchia di intenditori. Questo brano è diventato un po’ il manifesto di “Maresia”, ha un sound corale che è una dichiarazione di intenti dell’intera poetica del disco. Come sempre, amo scrivere qualcosa di mio da innestare su questi canti, siano essi tradizionali o d’autore, e così ho fatto qui con la coda del brano, una tarantella festosa dove la chitarra battente, il saz turco e l’oud arabo intrecciano le loro corde insieme alle voci in coro. Danilo Montenegro insieme a gente come Enzo Del Re, Matteo Salvatore, Rosa Balistreri appartiene a quella preziosa schiera di cantautori indissolubilmente legati alle radici musicali popolari ma che hanno saputo portare la tradizione ad un altro livello, dandole nuova linfa e valorizzandole ancora di più la dignità. Io penso che ora tocchi a noi, musicisti, ricercatori, insegnati, portare la tradizione nel presente e traghettarla nel futuro. Per quanto mi riguarda il mio lavoro come docente di Musiche e Canto Tradizionali in Conservatorio a Lecce e Pescara mi sta dando l’opportunità di far studiare e conoscere le musiche di tradizione orale nel mondo accademico. Tutti noi impegnati oggi su questo fronte didattico abbiamo un’opportunità rivoluzionaria che, se gestita con passione, preparazione e competenza, può innestare un grande cambiamento.
Parli di “Tarabtella”, ma conoscendo il tuo percorso artistico non è solo uno slogan di impatto… Cosa intendi?
“Tarabtella” è un termine che ho coniato nel tentativo di sintetizzare il mio approccio musicale che mette insieme tradizione del Sud Italia e tradizione araba, Occidente e Oriente. Nella musica araba il Tarab è il compimento emozionale dell’esperienza dell’ascolto, il piacere estatico, fisico e psichico, che la musica (non tutta in realtà ma solo quella ‘classica’ per così dire, che veicola pienamente il maqam) produce. Il Tarab suggella il massimo grado di coinvolgimento tra ascoltatore ed esecutore e storicamente può essere indotto soltanto dalla voce, dal canto (anche se in realtà anche certa musica strumentale di qualità particolarmente elevata può indurre il tarab). Quindi l’incontro fra tarantella e il tarab, la tarabtella, per me rappresenta l’incontro tra la gioia della danza e l’estasi dell’ascolto, tra il ritmo terzinato e incalzante e la dolcezza profonda del melos, i due elementi cardine di questo disco. Ma simboleggia parimenti la mia storia di uomo e musicista di frontiera: non ho in me il senso della patria ma abito tutti i luoghi in cui Oriente e Occidente – le due parti del mio cuore – possano essere libere di amarsi.
Con “Qifti” tocchi anche il mondo arbëreshë portatore di un repertorio anch’esso poco noto…
“Qifti” è un canto dolcissimo della tradizione arbëreshë, ovvero delle comunità albanesi che abitano l’Italia centro-meridionale fin dal XV secolo. Narra l’incontro e l’innamoramento di due giovani, in un giorno di primavera. Qifti significa “il nibbio”, simbolo della patria, l’Albania, per la quale ogni arbëreshë coltiva da generazioni un sentimento struggente di nostalgia e speranza di ricongiungimento. Questa versione in particolare – che ascoltai per la prima volta dalla voce di Silvana Licursi – è quella cantata a
Portocannone, in provincia di Campobasso. La cultura arbëreshë è simbolo delle storie e culture di quelle minoranze linguistiche di cui la mia terra da sempre si è nutrita e dalle quali ha tratto ispirazione, ricchezza e forza. Sono nato a Bari, e vivo in una regione la Puglia che è storicamente crocevia di scambi, terra sul cui suolo molte razze si sono mescolate. È inevitabile per me sentirmi attratto da arabi, sefarditi, turchi, greci, albanesi ecc.
“L’America” è un canto di migrazione che hai elaborato con un arrangiamento corale.
È un canto di migrazione molto diffuso in Italia, ma la versione contenuta in “Maresia" è quella raccolta sul campo a San Marzano di San Giuseppe in provincia di Taranto (paese arbëreshë tra l’altro) dall’amico musicista ed etnomusicologo Massimiliano Morabito. Il coro di voci femminili di questa registrazione ha ispirato il mio arrangiamento corale intenso e dolente, a commento della linea di canto principale. Il testo racconta l’esperienza dell’emigrazione dal punto di vista, insolito per questo tipo di canti, della donna che resta sola a casa, con i figli da sfamare, ad aspettare invano che il marito le scriva. L’America è la speranza del riscatto sociale, di una vita migliore che diventa invece “la rovina della casa”, una casa travolta dalle macerie desolanti di un sogno infranto. L’emigrazione è un’esperienza che fino a non molti decenni fa ci ha toccato da vicino, ha lacerato le vite e le famiglie dei nostri nonni e bisnonni. Sulle barche in cerca di fortuna, inseguendo disperatamente la speranza c’eravamo noi italiani e le Lampedusa erano allora città come New York, gli africani erano i meridionali dalla pelle scura e bruciata dal sole della fatica nei campi, che subivano quarantene forzate, segregazioni e sfruttamenti. Canto “L’America” per ricordare oggi tutto questo ma nello stesso tempo ho inserito alla fine del brano una coda strumentale in maggiore che suona come un vento di speranza.
Il nome di una città del Marocco ti propizia un tema per saz-baglama, dove ancora si incrociano culture, tempi e luoghi…
“Tetuàn” è una mia composizione per saz turco che porta il nome di una città del Marocco che è stata storicamente uno dei crocevia umani più importanti del Mediterraneo (città come Fez, Tetuan, Rabat, Casablanca hanno ospitato per secoli numerose etnie, italiani inclusi). Il brano si apre e si chiude con la voce di una donna ebrea sefardita (registrata proprio a Tetuan) che intona un'antica romanza. È un atto d’amore per la grande tradizione musicale arabo-andalusa iberica e nordafricana, per tutte le vite e le vicende di musulmani, berberi, ebrei, cristiani che per secoli si sono intrecciate in quelle terre. Ed è insieme il desiderio che questo intreccio possa oggi tornare a pulsare forte e fecondo ovunque nel mondo.
Come si svilupperà dal vivo “Maresia”?
Mi è sempre piaciuto arrangiare i brani dal vivo in maniera diversa dalle versioni sul disco. Il concerto è un momento di intensa creatività, è “cum-certare”, “lottare con” la materia pulsante delle composizioni, sfidando le proprie capacità e risorse. Non mi è mai interessata la mera riproposizione ‘da spartito’, piuttosto mi attirano i momenti di improvvisazione, di creazione estemporanea che affiorano come lava dal suolo levigato e compatto della struttura dei brani. “Maresia” dal vivo assomiglia di più all’idea originaria che avevo di questo lavoro prima che cominciassi ad inciderlo e che assumesse via via questa natura così “corale”: la mia voce circondata da tre strumenti, chitarra battente, oud e saz. Corde ovunque, quelle vocali e quelle pizzicate dalle dita. In aggiunta a questo trittico ho sotto i miei piedi una stomp box (un pedale che mi dà un suono di cassa) e una grande cavigliera con sonagli: giocando con entrambi i piedi creo patterns ritmici essenziali ed incisivi. La coralità la ricreo in alcuni brani utilizzando sulla voce
la tecnica del looping e, per quanto riguarda gli strumenti, soltanto sul saz mi concedo l’uso di una effettistica più elaborata, oltreché, anche qui, l’uso del looping. In effetti è un concerto fisicamente impegnativo (spesso tutti e quattro gli arti sono impegnati a suonare mentre canto) che richiede un grande livello di preparazione tecnica e coordinazione muscolare. Ma devo dire che mi diverte moltissimo salire su questa giostra caleidoscopica e mi entusiasma la ricerca di soluzioni sonore sempre nuove quando suono in solo. di soluzioni sonore sempre nuove quando suono in solo.
Ciro De Rosa e Alessio Surian
Fabrizio Piepoli - Maresia (Zero Nove Nove, 2022)
Scriveva trent’anni fa Franco Cassano che il Mediterraneo, “pur essendo molto antico, entra a fatica nelle carte geografiche, perché viene spinto verso il margine dalla centralità dei continenti e compare solo sui loro confini, a sud dell’Europa, a nord dell’Africa, ad ovest dell’Asia Minore. Nello sguardo degli atlanti esso occupa quasi sempre solo il ruolo di bordo e fondale, di frontiera azzurra che separa una terra dalle altre, che allude ad esse e alla loro distanza”. Per Cassano è tempo di cambiare sguardo, di mettere il Mediterraneo al centro, “pensarlo come una connessione, che, pur non negando le sue forme antiche, se ne vuole differenziare in modo essenziale, una connessione capace di varcare l’epoca degli stati nazionali (…) occorre lanciare in avanti l’immaginazione”. “Maresia” si offre come frutto maturo di questo pensiero meridiano, abile nello scandagliare territori sia futuri, sia antichi e nel connetterli – pizzicando le corde della chitarra battente, dell’oud arabo, del saz turco – tessendo un’abile quanto essenziale trama fra diversi registri timbrici e narrazioni legate a differenti sponde mediterranee. Arriva a tre anni da “Il Cedro e la Rosa”, a sua volta votato ad accostare canti tradizionali del Mediterraneo con composizioni originali, con strumenti che spaziano dal santur persiano alle loop machines. Il nuovo album raccoglie dieci brani con il cuore Puglia, nella sua musica popolare, e lo sguardo ad abbracciare rotte e timbri mediterranei e lusitani, a far nascere dagli incontri nuove composizioni. Apre le danze una delle tre composizioni originali, il brano che dà il titolo all’album, una “tarabtella”, incontro fra l’energia della pizzica pugliese e l’estasi veicolata dalla parola araba tarab. All’iniziale invito al ballo risponde l’intimità di “Melagranada ruja”, arrangiamento per voce e oud della canzone scritta dalla cantautrice sarda Marisa Sannia, scoperta da Sergio Endrigo negli anni Sessanta: narrazione dolente, ma dai toni sempre caldi, a dare e chiedere conforto, ad invogliare a cullare, come accade per un altro brano trasmesso da Antonio Piccininno, la “Ninna nanna di Carpino”. Il viaggio nella tradizione continua a Carpino con la tarantella “alla vëstësanë”, omaggio a Rocco di Mauro e occasione per costruire un ponte ideale fra tarantella garganica e fado portoghese. In direzione mediterranea va, invece, l’arrangiamento della calabrese “Occhi de monachella” che parte dalla versione per voce e chitarra battente di Danilo Montenegro, per intrecciarla poi all’oud e al saz bağlama turco. Proprio il saz è il protagonista della composizione originale posta al centro della scaletta, “Sair” (in arabo: cammino, passaggio, attraversamento; in portoghese: uscire), brano strumentale che evoca la “Ninna Nanna”, ma solo come punto di partenza per un percorso mutevole ad esplorare un andamento melodico-ritmico bizantino risolto, nel finale, in tarantella. Musiche migranti, dunque, come diviene esplicito nella struggente “L’America” e in “Qifti”, racconto di un giorno di primavera e dell’innamoramento di due giovani attraverso una melodia arbëreshë, e il richiamo al “nibbio” che in albanese è la traduzione del titolo della canzone e il simbolo della patria albanese, terra che non finisce di alimentare il sentimento della nostalgia. A chiudere l’album è “Tetuan”, la terza composizione originale, che vede protagonista prima una voce femminile, a cappella, ad offrire una melodia sefardita, ripresa nel finale, e quindi il saz, questa volta a rinnovare l’omaggio alla tradizione musicale arabo-andalusa e alla creatività e alla capacità di convivenza fra genti diverse attraverso il Mediterraneo.
Alessio Surian
Foto di Gabriele Vitale, Giuseppe Pezzulla, Fabio Di Pierro e Lorena Carbonara
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