“It’s a game”, è un gioco che, come tale, possiede sue regole. Regole che ogni individuo ha la possibilità di cambiare, secondo coscienza e libero arbitrio, perseguendo virtuosi obiettivi. Consci dei limiti fisici ma non certo di quelli psichici, intellettuali e spirituali, nella vita, ognuno ha l’opportunità di battersi fino all’ultimo secondo per affermare proprie idee e verità. Nella vastità dei mondi sonori, Ezio Bosso aveva ben compreso che cosa fossero l’infinito musicale e i suoi caratteri universali. Aveva chiara la sua missione che, da un quartiere popolare di Torino, lo portò a calcare importanti palchi internazionali e a farsi apprezzare attraverso i media. Non fu una passeggiata. Con dedizione, generosità e intraprendenza si dedicò alla propria arte, promuovendo il rispetto, la condivisione, l’ascolto e lo spirito cooperativo, vivendo intensamente, «pensando che futuro è anche solo l’istante dopo questo, sapendo che dopo di me rimarrà la musica».
Soprattutto negli ultimi anni di vita, seppe cogliere, con equilibrio, numerose opportunità divulgative, al fine di far arrivare al cuore degli individui i significati profondi della musica e i benefici che essa potrebbe portare all’umanità, se solo si operasse in armonica unione, allargando gli orizzonti della conoscenza, approfondendo la dimensione di ciò che è trascendente o immanente. L’esposizione mediatica si presta a continui travisamenti, deformazioni e banalizzazioni del pensiero, ma nel mondo della comunicazione contemporanea, per emergere, per farsi conoscere, ci sono da seguire percorsi vincolati (non necessariamente standardizzati) e talvolta vincolanti da un punto di vista espressivo. Nel rapporto con i media, è costante il rischio di venire etichettati e inquadrati secondo logiche di convenienza del momento. Per cui, Bosso li utilizzava con moderazione, selezionando e mantenendo cauta distanza. Suo primario obiettivo, tuttavia, era di portare nelle case della gente l’emozione della musica e la qualità del proprio lavoro sonoro svolto coralmente. In un’intervista ebbe a dichiarare che avrebbe voluto eclissarsi. Non voleva si parlasse di lui, ma della Musica: «Non desidero mettermi in mostra, ma essere solo un tramite». Con rinnovato e disincantato stupore e ammirazione, anche negli ultimi anni, parlava della musica come di una “compagna di vita”, di un’arte che continuava a studiare, da decenni, facendolo sentire “parte di una cosa grande”.
Il suo fu un percorso atipico e travagliato, ma si sentiva fortunato anche perché era riuscito a trasformare le pene interiori e i patimenti fisici in opportunità, per affermare positivamente il valore della musica quale bene dell’umanità: «La musica è una necessità: è come respirare … La musica ci cambia la vita e ci salva». Avendo lavorato internazionalmente e seguito articolati percorsi professionali, conosceva bene i meccanismi finanziari della plenitudine culturale. Con criterio, scelse (in modo elegante) di utilizzare il proprio successo personale per affermare la grandezza della musica. Una musica senza barriere che pensava fosse di tutti, non disdegnando di approfondire concetti metafisici e filosofici come quello della trascendenza, secondo canoni che strabordano dall’ordinario della fisica classica, ma non di quella quantistica. «La musica ha potere di purificare tutti, è trascendenza (…) - aveva chiarito - è andare oltre sé stessi, non è diventare altro». L’esposizione dei concetti metafisici lo portarono ad esporre il proprio pensiero anche in merito alla morte, che considerava “parte della vita”, come peraltro riscontrabile nella composizione “Six Breath”, il quale respiro «continua a vagare dopo la morte e attraverso cui continuiamo ad esistere». L’anima è eterna?
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