Alune Wade – Sultan (Yellowbird, 2022)

Nato a Dakar nel 1978, figlio d’arte, il bassista, cantante, e compositore Alune Wade ha bruciato tutte le tappe (a cominciare dalla collaborazione con Ismaël Lô a diciotto anni) e, poco più che quarantenne, è da tempo un riferimento per diversi ambiti musicali legati alle musiche africane e afrodiscendenti e al loro incontro. Composti e registrati fra il 2020 e il 2021 fra Tunisi, Pargi, New York e Dakar, le dodici nuove tracce sono state pubblicate a quattro anni di distanza da “African Fast Food”, con numerosi ospiti che integrano il gruppo base composto da, piano e tastiere, Cédric Ducheman alle tastiere, Carlos Sarduy alla tromba, Hugues Mayot ai sax, Daril Esso alla batteria e Adriano Tenorio DD alle percussioni. I venticinque giorni di prove e registrazioni in Tunisia hanno coinvolto il cantante Mounir Troudi, e alcuni dei migliori musicisti con familiarità con i ritmi Stembali, prima di coinvolgere (a Parigi e New York) il produttore Nic Hard. Il nuovo album, il quinto, va oltre le rotte atlantiche percorse finora per rivolgersi al Nord Africa e al cosiddetto Medio Oriente, come indica esplicitamente il primo brano dedicato al viaggio di Saba dall’Africa a Gerusalemme e ritorno, nella felice tensione fra i riff del basso, gli spazi aperti disegnati dalle tastiere di Christian Sands (piano), Cédric Duchemann (organ) e Bobby Spark (synth), attraversati dall’oud di Mustapha Sahbi e dai fiati di Hugues Mayot e Carlos Sarduy. A vent’anni di distanza, anche Wade si rivolge ai territori in cui si è sviluppato l’Islam, nel solco di un dialogo aperto con gli album del 2003 di Thione Seck (“Orientissimo”) e Youssou Ndour (“Sant Allah”, premio Grammy nel 2005 col titolo “Egypt”), seguiti l’anno successivo da Abdou Guité Seck (“Coono Aduna”) e nel 2008 da Omar Pènes & Super Diamono (“Lampe”). Il documentario di Elizabeth Chai Vasarhelyi “Youssou N’Dour: I Bring What I Love” raccontava nel 2009 le difficoltà incontrate in Senegal nel proporre temi religiosi in musica, anche da parte (o forse soprattutto quando si tratta) di una stella come Youssou Ndour, legato alla confraternita “Mouride”, titolo del suo album del 1982 con Le Super Etoile De Dakar.  L’unico riferimento esplicito alla dimensione spirituale nell’album di Wade non riguarda l’Islam: il secondo brano, “Donso” è dedicato alla dimensione animista, con i diversi strumenti a farsi metafora della natura (il flauto ney di Faris Ishaq), della danza (tromba), dell’unità degli umani (canto), e della loro forza (l’insieme dei fiati), resa evidente dai ritmi “guerrieri” wolof: la canzone è stata recentemente riproposta dal vivo insieme a Mamani Keita. Le dodici tappe del viaggio rappresentano altrettanti luoghi e tempi dell’Africa, ogni volta letti con sonorità diverse, a cominciare dal basso, dalla regione subsahariana al Nord Africa nell’interazione con l’ “oriente”, attraversando “Nasty Sand’’ e “African blues”, ma anche esplorando i linguaggi hip hop, per esempio con PPS the Writah in “Uthopic” nell’interazione con i linguaggi jazz di Christian Sands (piano), Daniel Blake (sax) e Josh Deutsch (tromba). Dalla Mauritania, la cantante Noura Mint Seymali illumina “Portrait De Maure” con Leo Genovese alle tastiere e Hugues Mayo ai sax e il basso lirico di Wade ad intonare un canto nomade. “Celebration” coinvolge il rapper algerino Djam mentre “Sultan” evidenzia la sintonia e la rinnovata collaborazione con il pianista cubano Harold Lopez-Nussa (con Paco Sery alla batteria). La chiusura collettiva è affidata al trascinante “Café Oran” di ispirazione arabo-andalusa con il canto di Wade che interseca il ney di Faris Ishaq a celebrare insieme ai fiati il porto di Orano, crocevia di scambi di ogni genere: era stato uno dei brani protagonisti a Settembre 2021 dell’International Jazz Day




Alessio Surian

Posta un commento

Nuova Vecchia