Stefano Castelli, ricerche sulla musica popolare indiana

Tamil Nadu, musica e canti popolari del Sud India
I brevi appunti che seguiranno saranno centrati principalmente sulla pubblicazione discografica “Tamil Nadu. Musica e canti popolari del Sud India/Folk music and folksongs from Southern India”, edita dalla Albatros (VPA 8483), nel 1983 (ma comprendenti registrazioni sul campo comprese tra il 1977-1979). La pubblicazione venne curata da Stefano Castelli e dal professor E. Shanmugan. Le note del fascicolo illustrativo accluse al disco furono interamente scritte da Castelli, mentre diversi traduttori furono coinvolti per la traduzione dei testi dei canti in lingua Tamil 1. Tale pubblicazione discografica fu conseguente ad un’altra sua opera dedicata ai “Canti popolari nepalesi/Folk songs of Nepal”, del 1977, stampata sempre per l’editore Sciascia. 
In quale contesto culturale vennero editi i due dischi? Milano, già dagli anni Sessanta, aveva acquisito un ruolo centrale nella ricerca etnomusicologica nazionale, principalmente grazie ai contributi forniti da Roberto Leydi, animatore del “Nuovo Canzoniere Italiano”, variegato gruppo d’investigazione del quale facevano parte Sandra Mantovani e numerosi altri cantori ed esecutori. Leydi venne incaricato dall’editore Sciascia di curare la ricca produzione discografica dell’Albatros. Attraverso il “Laboratorio di Spettacolo Popolare”, negli anni Settanta, sempre grazie a Leydi, la ricerca venne condotta anche all’interno dell’Accademia del Piccolo Teatro, oggi intitolata a Paolo Grassi. Negli stessi anni, in Conservatorio, a Milano, un ampio gruppo di studenti e musicisti operò per il riconoscimento della musica jazz. In merito, pare doveroso ricordare l’impegno di Giorgio Gaslini e di alcuni suoi allievi, come Gaetano Liguori. Sempre in Conservatorio, nei corsi di musica serali, era stato aperto un corso dedicato alla musica popolare, tenuto da Umberto Mosca, in quegli anni impegnato anche a far conoscere la cultura medica tradizionale cinese e giapponese. Sullo sfondo delle attività milanesi, a livello nazionale, vi erano i corsi universitari etnomusicologici di Bologna (DAMS) e di Roma (Facoltà di Lettere), coordinati rispettivamente da Roberto Leydi e Diego Carpitella. Ai due professori si rivolgeva (principalmente) il gran numero di ricercatori impegnati nella Penisola per valorizzare, a vari livelli, la musica popolare italiana, a cui peraltro era dedicata buona parte delle pubblicazioni “Dischi del Sole” e “Albatros”.  Per i dischi sulla musica nepalese e indiana, Stefano Castelli ebbe contatti con Roberto Leydi, ma non entrò mai a far parte del suo gruppo di lavoro. Come evidenziato in precedenza, sebbene giovane, Stefano ricercava autonomia operativa, pertanto non deve stupire se la pubblicazione dei dischi e le relative note di accompagnamento furono da lui interamente scritte anche sotto il profilo tecnico-musicale. Come ebbe modo di rilevare nei chiarimenti di copertina «… il motivo d’essere della raccolta risiede proprio nel desiderio di ovviare alla grave lacuna che esiste nella documentazione sulla musica popolare di quest’area», cioè del Sud dell’India. Tale lacuna non era solo italiana, ma internazionale, e ciò è doveroso sottolinearlo, poiché permette di dare adeguato valore alla pubblicazione in questione. Castelli aveva ben chiaro che la maggior parte degli studi etnomusicali fino ad allora pubblicati erano stati, in prevalenza, concentrati nel Nord della nazione e che numerosi giovani occidentali si erano appassionati a quella musica, spinti dalla promozione di esecutori internazionali, come ad esempio i Beatles e il loro maestro Ravi Shankar. Tuttavia gli obiettivi conseguiti dall’autore non erano solo classificatori e di catalogazione dei repertori inediti. Negli scritti, egli intese testimoniare i mutamenti sociali e commerciali in atto, che avevano minato e contaminato il repertorio più tradizionale. Ad esempio, già allora, era intensa l’influenza esercitata a livello di massa dalla musica cinematografica, i cui successi penetravano nelle case dei più remoti villaggi attraverso trasmissioni divulgate da “network” nazionali quali “All India Radio”.  Con un certo scoramento, nelle note di accompagnamento al disco, venne segnalata la disperazione di quando il ricercatore «… giunto in qualche umido e afoso villaggio nella foresta, con la speranza di trovare qualche nuova melodia, scopre di star registrando sul nastro il tema del film visto due settimane prima a Bombay».  Un altro aspetto, ben specificato nelle note introduttive, è riferibile al sincretismo (peraltro tipico di numerose manifestazioni culturali indiane), fenomeno in base al quale elementi provenienti da diverse culture vengono assimilate e integrate in un “unicum” a livello popolare. In sintesi, il ricercatore operativo sul campo doveva stare attento a selezionare, analizzare e cercare di comprendere come la “incultura”, la “accultura” e la “intercultura” (per usare termini cari ai demologi del tempo) convivessero e avessero attecchito a vari livelli nel tessuto sociale indiano. Un dato certo è che la interazione e la sovrapposizione di stili e generi, portano «… a incontrarsi con nascenti modalità musicali», fenomeno che Castelli trovava affascinante, anche se «… rischia, in un continuo oscillare da pendolo, di farci lasciare in ombra la radice più arcaica… ». Sempre nella introduzione, venne specificato che, nel disco, diverse registrazioni facevano parte di una “Raccolta” musicale curata dal dott. E. Shanmughan (verosimilmente operante nell’Università di Chennai, ex Madras). Un ultimo aspetto posto in risalto, la difficoltà di entrare in sintonia con gli informatori dei villaggi, spesso non a loro agio nel parlare o cantare davanti a un microfono. Ciò portò a dover quasi sempre utilizzare un piccolo registratore a cassette, tenuto in disparte durante le esecuzioni. Tale accorgimento, incise sulla qualità di riproduzione, ma con la consapevolezza che l’importanza del materiale raccolto avrebbe minimizzato i problemi dovuti all’aspetto strettamente tecnico. 

Note su esecutori, strumenti e repertorio
La pubblicazione discografica in oggetto riproduce l’impostazione dei dischi Albatros degli anni Settanta. Con puntualità Castelli specificò i luoghi interessati dai “fieldworks” e alcuni dati anagrafico-caratteriali sugli informatori. Tra gli strumenti in uso, la banda degli ottoni, «… la cui formazione ricalca quella della banda militare inglese, da cui con ogni probabilità deriva, sebbene in dimensioni alquanto ridotte». Inoltre, alcuni strumenti locali, come il “nagasvaram”, un oboe, le cui caratteristiche organologiche lo rendono molto simile a strumenti a fiato diffusi in Europa, Medio Oriente, Asia centrale e Cina. Lo “sruti box”, strumento a mantice, veniva principalmente utilizzato come supporto di accompagnamento (“a bordone”) del “nagasvaram”. Suonato percussivamente, quasi sempre, in accoppiata con il “nagasvaram”, il “tavil” può assumere forme e dimensioni differenti, a seconda del costruttore o dell’area di produzione. Particolare è il fissaggio delle membrane battenti (talvolta composte da vari strati di pelle incollati tra loro), ottenuto tramite cerchioni di bambù intrecciato e ricoperto con tela di canapa. Nel disco è riportata un’esecuzione di “talam” (“tala” è un metro musicale), nella quale il suonatore dimostra il proprio virtuosismo ritmico-strumentale.  Altro strumento a percussione, ma a sfregamento, è il cosiddetto “urumi”, usato soprattutto dai mendicanti girovaghi del Tamil Nadu. Infine, i cimbali, circolari e metallici, localmente denominati “jalra”, usati durante le preghiere cantate nei templi o dai questuanti, più raramente in associazione con tamburi come il “mridanga”. 
Particolarmente interessanti abbiamo trovato le informazioni sulle musiche e i canti registrati, tipici di un repertorio che potremmo definire (usando espressioni locali) dal “thalattu” all’ “oparipattu”, cioè dalla ninna nanna al lamento funebre. Nel primo caso, viene evidenziato il funzionale profilo melodico, quasi sempre riferito a una scala tritonica, tipica di numerose ninnananne eseguite in diverse parti del mondo.  Nelle lamentazioni funebri riportate nel disco, le interpreti sono esclusivamente donne, intente a percuotersi il petto sia durante l’esecuzione sia al capezzale del defunto.  Musicalmente vengono distinti due “temi”, centrati su una scala pentatonica. Nel primo tema sono utilizzati solo i primi tre gradi. Il secondo tema mostra un carattere modale, oscillando tra il secondo e il quinto grado della scala. Nel repertorio non potevano mancare canzoni religiose (Puja, preghiera a Laksmi) e d’amore (usate sia per divertimento sia per alleviare le fatiche lavorative). Un canto rituale (due cantori e un coro femminile) è riferito al raggiungimento della pubertà di una fanciulla. Questo tipo di canti, già ai tempi della ricerca, avevano perso parte della loro funzione originaria. Con il termine “ettrapattu” sono indicati i canti lirici monostrofici e bistrofici, spesso usati come canti di lavoro. Potevano essere eseguiti senza sosta in situazioni produttive prolungate, utilizzando secondo fantasia una varietà di contenuti.  Infine, il canto detto de “l’indovino”, intonato da Mahalingam e registrato in Aduthurai. Nel canto s’intrecciano messaggi religiosi e versi capaci di suscitare l’ilarità dei bambini. Egli girava nei villaggi «guadagnando qualche soldo grazie ai suoi vaticini»

In memoriam
Caro Stefano, alla tua memoria dedichiamo la nostra “Vision” odierna. Sono passati diversi decenni dalla tua impegnativa pubblicazione discografica, la quale possiede rilievo storico-musicale e resterà punto fermo nella ricerca etnomusicologica italiana di quegli anni, orientata a dare valore alle radici culturali, che aiutano a meglio inquadrare e interpretare il nostro presente. Durante la rilettura di quanto avevi prodotto, ascoltando in sottofondo le musiche indiane, i ricordi giovanili continuavano a riaffiorare, in rapporto anche agli acuti pensieri pronunciati da Carl Gustav Jung durante le dotte Conversazioni (anni Trenta del secolo scorso), rivolte all’interpretazione dei simboli usati nella tradizione orientale, con specifico riferimento ai “chakra” e, più in generale, alla “Kundalini yoga”. A quanto abbiamo appreso, nel corso dei decenni, hai approfondito, con “practica” intensa, la conoscenza degli antichi insegnamenti dei maestri indiani. Secondo il loro modo di intendere, la vita terrena è un momento di passaggio, perché l’anima continua il proprio percorso oltre la morte, ma in una rinnovata dimensione.  Nelle “Upanishad” il cuore coincideva con la sede dell’anima, della conoscenza e della coscienza. Era concepito come radice degli arti nonché come la sede del “Prana”, il soffio vitale. Oggi sono sempre più i ricercatori che cercano, con linguaggio scientifico, di spiegare gli arcaici messaggi spirituali. Vengono usate terminologie diverse per interpretare fenomeni e concetti comuni, i quali permettono di intravvedere realtà immanenti che invitano ad andare oltre a ciò che è visibile e oggettivamente verificabile. Invitano a rapportarci con idee e pensieri astratti e immateriali, nei quali acquistano intenso significato termini come “Darma” e “Karma”, quest’ultimo, come indicato da Wilhelm Halbfass, direttamente collegato al concetto della “rinascita”, i cui ambiti coprono l’intero spettro del vissuto umano, passato, presente e futuro. Jung ricordava che le “Upanishad” rivelano come le grandi intuizioni non vengano dal pensiero, ma dal cuore.  Intuizioni che rappresentano il potere creativo, che certo a te, Stefano, non mancava e che, idealmente, potrai ora coltivare nella dimensione dove la Musica, in “Divina proportione”, continua a rendere eterna e densa di significati l’Harmonia Mundi: Namasté!

Paolo Mercurio 
__________________________________

1 Nel contributo, i termini indiani sono stati trascritti utilizzando criteri linguistici occidentali.

Posta un commento

Nuova Vecchia