Michele Gazich – Argon (FonoBisanzio, 2021)

#BF-CHOICE
 

Sono trascorsi ormai dieci anni da quella estate del 2011, quando con Michele Gazich ci ritrovammo sul Lago di Garda per trascorrere insieme qualche giorno di vacanza. Furono giorni molto intensi di musica, letture, grandi bevute e discorsi in cui si parlava di tutto e fino a tarda notte. Ci ritagliammo lo spazio per una splendida visita al Vittoriale e ci concedemmo anche una vacanza nella vacanza che ci condusse prima a Vernante in valle Vermenagna e da lì raggiungemmo la Francia passando da Saorge, un paesino abbarbicato sulle gole del fiume Roia per giungere, in fine, a Nizza, dove visitammo il Museo nazionale messaggio biblico di Marc Chagall. All’epoca Michele guidava l’ensemble La Nave dei Folli con il quale aveva messo in fila tre dischi di grande spessore come “La Nave dei Folli. Dieci Canzoni di Michele Gazich”, “Dieci esercizi per Volare” e “Il giorno che la rosa fiorì” che era uscito da pochissimi giorni. Proprio quel disco si concludeva con “Ultima canzone d’amore” nel quale per la prima volta interveniva in prima persona al canto. Proprio l’ascolto di questo brano mi spinse a lanciargli una provocazione e gli dissi che per il futuro avrebbe dovuto cantare lui stesso i brani che scriveva. Mi guardò in silenzio e mi disse che ci avrebbe pensato. Trascorsero pochi mesi e ruppe gli indugi con “L’imperdonabile”, un album nato come testamento artistico, nel quale scavava nella sua interiorità, e destinato a restare un episodio isolato, ma così profondo e toccante nella sua concezione che non poteva non essere l’inizio di un nuovo cammino. Un cammino articolato, tortuoso e certamente non facile che lo ha condotto alla ricerca spirituale di “Verso Damasco”, poi a ripercorrere le vicende della sua famiglia con “Una Storia di Mare e di Sangue” 
ed ancora sulle tracce della tradizione musicale appenninica de “La Via del Sale” e, in fine, a riportare 
alla luce le struggenti vicende degli internati del manicomio di San Servolo a Venezia ne “Temuto Come Grido, Atteso Come Canto”. Animato dalla sua proverbiale curiosità e da una costante tensione verso la ricerca a tutto campo, Michele Gazich giunge al vertice della sua produzione artistica con “Argon”, il suo ultimo album, un lavoro di rara bellezza e profondità nel quale risalta tutta l’unicità della sua cifra stilistica. Lo abbiamo intervistato per andare alla scoperta di questo nuovo lavoro, frutto di una lunga gestazione e segnato dal non facile periodo della pandemia che ne ha rallentato la realizzazione. 

Abbiamo aperto il 2021 con il racconto del singolo "Fiume Circolare" per il quale hai realizzato anche uno splendido video. Ci ritroviamo in chiusura di anno con "Argon", la tua nuova opera tra le mani. Sottolineo opera perché definirlo semplicemente un disco sarebbe riduttivo in considerazione della sua articolata complessità ispirativa e poetica. Facciamo, però, un passo indietro: come è nato questo disco?
La composizione delle canzoni di "Argon" mi ha accompagnato per lungo tempo. Ad esempio: la scrittura di una di esse "Il Vittoriale brucia" è iniziata nel 2012. Anche "Canticchiare aiuta", la canzone dedicata all'ultimo Montale, era già pressoché scritta nel 2016. Ho lavorato per anni a queste "canzoni" atipiche, totalmente libere dalla forma canzone. 
Più che "canzoni", esse sono delle suite, caratterizzate dall'accostamento audace, dalla "callida iunctura" (come avrebbe detto Orazio) di diversi momenti musicali e lirici. Una forte accelerazione nella scrittura e nella composizione è tuttavia avvenuta nella primavera del 2019, quando mi ero ritirato in Sardegna, per ritrovare, appunto, me stesso e la mia ispirazione.

Quali sono le identità e le differenze rispetto ai tuoi precedenti lavori?
Come dicevo, le "canzoni" di "Argon" sono formalmente liberissime: esse invitano a "conoscere" più che a "riconoscere". Possono suonare molto nuove e molto strane di primo acchito. Conoscere non è mai un'operazione facile, ma ho una grande stima del mio pubblico. Non ho mai depresso o schiacciato la mia ispirazione verso il basso, per rendermi più immediatamente comprensibile agli ascoltatori. Molti mi hanno invitato a farlo e saprei come fare (nella mia vita ho collaborato a più di cento dischi come musicista, produttore, autore, etc, a parte i dieci a mio nome), ma amo e stimo il mio pubblico. Non ritengo stupidi i miei ascoltatori e non do loro prodotti stupidi. 

Come si è sviluppato il tuo approccio alla canzone d'autore dalla trilogia con La Nave dei Folli ad oggi?
Ho prodotto una prima trilogia di album (tra il 2008 e il 2011) in cui mi facevo accompagnare da un collettivo aperto e instabile di musicisti, che avevo, credo propriamente, denominato "La Nave dei Folli".
Io ero il capitano della nave ed ero l'unica penna all'interno del gruppo, ma, curiosamente, non volevo cantare le mie canzoni. Mi piaceva che la mia scrittura, dura ed espressionista, si declinasse, per contrasto, attraverso il canto di una eterea voce femminile. Se questo ossimoro avesse poi davvero senso, non saprei dire. Oggi non lo farei più. Non riascolto più quegli album. E, in generale, non mi guardo indietro. È già troppo complicato per me guardare avanti e mantenere l'equilibrio. Alcune delle canzoni di quella trilogia, tuttavia, sono rimaste nel mio repertorio. Apro ancora ogni mio concerto con "Guerra Civile", con i versi "Dio sopravvive nei dettagli/nelle crepe dei centri commerciali" in cui ancora mi riconosco, pienamente. Nel 2011 credevo di essere in procinto di lasciare questa terra per una grave malattia o, in un'ipotesi più moderata, di perdere l'udito. Non ho perso la vita e il mio udito è sopravvissuto, severamente danneggiato, ma funzionante. Allora però sembrava la fine e decisi (spronato in questo senso anche proprio da te) di cantare io le mie canzoni almeno una volta nella vita e registrai "L'Imperdonabile", facendo tutto da solo, sovraincidendo strumenti e voce. Questo che doveva essere l'ultimo disco divenne, invece, il primo di un nuovo corso. E sono ancora vivo, produco ancora album e non ho ancora smesso di cantare. Registrai l'anno successivo l'album dal vivo "Verso Damasco", nel Duomo Vecchio di Brescia e poi una trilogia di album concept: "Una storia di mare e di sangue" (2014, dedicata alla storia di migrazione della mia famiglia); "La via del Sale" (2016, che racconta di antiche e moderne vie del sale, luoghi che hanno perso senso e stentano a racquistarne un altro, un po' come l'Europa di oggi); "Temuto come grido, atteso come canto" (2018, che racconta degli ebrei deportati nel 1944 dall'Isola-manicomio di San Servolo, a Venezia; 
un album di testimonianza, di memoria).

Rispetto ai tuoi dischi più recenti come hai indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Ci ho lavorato davvero a lungo, più a lungo del solito. Innanzitutto, sulla carta: scrivo ancora tutti i miei arrangiamenti, come si faceva una volta, su pentagrammi, su fogli e fogli che organizzo in cartelle. Ogni canzone ha avuto arrangiamenti e incarnazioni diverse, prima di trovare il vestito giusto. Ci ho, poi, lavorato a lungo in studio: dal maggio 2019 all'agosto 2021. Registro, dal 2006, nello stesso studio (il MacWave di Brescia di Paolo Costola), ma i miei dischi suonano molto diversi uno dall'altro. Si dice che per cambiare suono è necessario cambiare studio; io penso che basti cambiare suono. 

"Argon" trae ispirazione dal racconto omonimo da "Il sistema periodico" di Primo Levi e nel contempo evoca i giorni del silenzio del lockdown vissuto dalla prospettiva di un artista. Ci puoi raccontare questo brano emblematico?
La canzone "Argon" è stata composta tra il 19 aprile e il 21 giugno del 2019, quando ancora di lockdown non si sapeva nulla. Chiaramente anch'io ne colgo le risonanze profetiche e ne sono quasi spaventato. Venne scritta quasi integralmente in Sardegna. Questo certamente ha un peso: non c'era il lockdown, ma io mi ero autoisolato (letteralmente...) per riflettere sulla mia vita. La canzone è una di quelle complesse, in cui la musica racconta quello che le parole non dicono: poche parole e molta musica. Musica di matrice ebraica, recitar cantando e wagnerismi volutamente collidono nella stessa canzone. 
La voce della cantante armena Rita Tekeyan e il bouzouki d'autore di Giorgio Cordini fanno volare musica e parole verso oriente.

Tra i riferimenti letterari ed ispirativi di "Argon" ritroviamo in modo ancor più incisivo la tradizione sapienziale ebraica. Penso ad esempio alla preghiera che conclude la title-track...
La preghiera che conclude la canzone Argon era in uso nella comunità ebraica piemontese, come testimoniato da “Musiche della tradizione ebraica in Piemonte – Le registrazioni di Leo Levi” (1954) a cura di Franco Segre, aEM Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Squi[Libri], Roma 2015. È originariamente un componimento poetico di Shelomò Ibn Ghevirol (Malaga 1020 – Valencia 1058), poeta, teologo e filosofo spagnolo. Il suo nome romanzo è “Avicebron”. Il testo, tutto rimato, ha una sua musica interna che mi ha guidato nella scrittura della musica vera e propria. È la preghiera di un prigioniero che vuole essere liberato, restituito alla sua condizione di libertà. La tradizione sapienziale e poetica ebraica ha irrorato tutta la mia opera, come un grande fiume spesso segreto, nascosto sottoterra, ma, carsicamente, ogni tanto riemerge in maniera palese. 
 
Significativa, non solo dal punto di vista dell'ispirazione, è "La maga e lo straniero" per la quale hai realizzato anche uno splendido video. Se dal punto di vista musicale ci sono echi di musica barocca e folk, da quello tematico rappresenta un raggio di sole, una rinascita...
“La Maga e Lo Straniero” rappresenta una rinascita, nel nome dell'amore e dei misteri ad esso connessi. Introduce, inoltre, la tematica odissiaca che ci porta alla canzone successiva. Fondamentale per questa canzone è l’apporto della violoncellista e cantante Giovanna Famulari. Una vita che volevamo suonare assieme e la pandemia ci ha tolto il lavoro concertistico per mesi, ma ci ha resi liberi di provare e di costruire assieme questa e tante altre canzoni. Il video, molto significativo e ricco di allusioni cinematografiche (da Bergman a Pasolini), è stato girato dal regista Enrico Fappani, che collabora con me dal 2012. Il nostro obiettivo e transvalutare il videoclip: non solo volàno per la canzone, ma anche opera 
d’arte autonoma.
 
Mi ha colpito molto la scelta di rileggere "Ulisse coperto di sale" di Lucio Dalla e Roberto Roversi. E' la prima volta che incidi in un tuo disco un brano non firmato da te e sorprendentemente quest'ultimo si inserisce perfettamente nel concept dell'opera. Da dove è nata l'idea di interpretare questo brano? 
Non avevo mai fatto "cover" in nessuno dei miei dieci dischi, pur avendo sempre favoleggiato di inserirne una. Ci ero andato vicino più volte con canzoni come "Il vino" di Piero Ciampi, già nel primo album con La Nave dei Folli e poi molte altre, tra cui "Oceano" di De André, “Dance me to the end of love” di Leonard Cohen tradotta ritmicamente in italiano, "L'ombra della luce" di Franco Battiato e molte altre, ma non ero mai soddisfatto. Alla fine, la scelta è caduta su Lucio Dalla, scrittore di canzoni e cantante apparentemente lontano da me. E in fondo lo è, nel complesso, ma sento a me vicinissima la stagione, fatta di soli tre album con Roberto Roversi. Fu un miracoloso connubio tra poesia e canzone, che mi emoziona profondamente. Roversi non scriveva testi semplici da musicare e non voleva che si cambiasse una parola. Dalla raccolse la sfida e, per musicare quei testi incredibili, fece deflagrare la forma canzone. L'esperimento, perfettamente riuscito, era perfettamente in linea con la scrittura dei testi e delle musiche di "Argon".

In "Canticchiare aiuta" ritorna la figura dell'artista, in questo caso del poeta Eugenio Montale. Com'è nato questo brano e quanto c'è di autobiografico?
La tematica è sempre quella, in tutto l'album: il lavoro segreto e metodico dell'artista. In questo caso Montale è un vecchio rinchiuso nel suo appartamento milanese a guardare i piccioni sulla sua finestra. In questo raccoglimento, il vecchio poeta scrive, negli ultimi dieci anni della sua vita, più di quanto scrisse in tutti gli anni precedenti. Utilizzava uno stile apparentemente svagato, prosastico: era solito dire che i suoi libri giovanili li aveva scritti in frac, mentre gli ultimi in pigiama. Queste svagate poesie scritte in pigiama hanno tuttavia un inaspettato e vertiginoso slancio metafisico. Un canticchiare solo apparentemente svagato sul crinale tra vita e morte. Il lessico del testo è interamente tratto dall'ultimo Montale, in particolare dal "Quaderno di quattro anni" del 1976. La musica si muove in libertà assoluta tra echi morriconiani e sonatine di Clementi.

"Il fuoco freddo della luna" è ispirata alla morte della poetessa Ingeborg Bachmann, ma è anche è l'ideale prosecuzione de "Il latte nero dell'alba" dedicata a Paul Celan. Ci puoi raccontare del legame che unisce questi due brani?
Il legame è innanzitutto l'amore tra i due poeti. Ho voluto che anche i titoli delle due canzoni si richiamassero. Il loro epistolario è conservato ed è sconvolgente e carico di poesia e di vita. Come tutti gli amori, anche il loro è stato impossibile. Dolorose le loro morti. La Bachmann morì in seguito alle ustioni riportate per le fiamme sprigionatesi nel suo letto, nella sua ultima casa romana. La poetessa amava Roma, ma a Roma morì tra le fiamme, come una strega. La sua casa non era lontana da Campo de' Fiori.

"Il vittoriale brucia" racconta di Gabriele D'Annunzio negli ultimi anni di vita, il suo convinto antifascismo. Ricordo della visita che facemmo insieme a Vittoriale in cui mi raccontasti l'episodio della lunga anticamera fatta fare a Mussolini prima di riceverlo. Cosa ti ha colpito della figura di D'Annunzio?
Mi ha sempre affascinato D'Annunzio e, da sempre, ho pensato che la sua figura fosse più ricca e profonda di quanto farebbero supporre i cliché che lo accompagnano: il superomismo, lo stile ampolloso, gli aneddoti pruriginosi... Soprattutto sono stato interessato alla fase finale della sua vita quando è di fatto prigioniero dei fascisti al Vittoriale. E si incontra un D'annunzio ripiegato su sé stesso, un povero vecchio pur tra i suoi tesori. Inventa un nuovo stile, quello dei suoi ultimi libri, fatto di una immateriale prosa che sconfina nella poesia. Una prosa fatta di periodi brevi come se fossero versi: tutta paratattica e brutalmente autoanalitica. Un D'Annunzio paradossalmente antifascista, che, secondo una fulgida tradizione italiana, cade dalla finestra proprio al momento giusto per restare in coma un mesetto, poco prima della marcia su Roma ed essere così definitivamente tagliato fuori dalla scena politica. Ho lavorato dieci anni alla canzone a lui dedicata, come ricorderai: tra visite al Vittoriale e ai suoi e ad altri archivi. Anche questa è una macro-canzone come "Argon", divisa in tante sezioni, alcune solo musicali. La sezione conclusiva è in abruzzese, la lingua madre di D'Annunzio ed è cantata da Lara Molino. Dovrei raccontarti a lungo di questa canzone... Concludo solo dicendoti che, finalmente, il 28 novembre ho suonato "Il Vittoriale brucia" in concerto proprio nell'Auditorium del Vittoriale, quello dove è appeso al 
soffitto l'aereo del volo su Vienna... Ho registrato il concerto e mi piacerebbe pubblicarlo.

Il disco si conclude con "Lettera a Claudio" dedicata a Claudio Lolli. Quanto è stato importante per te l'incontro con il suo fare canzone?
Fondamentale. Il suo fare canzone riesce ad essere fortemente impegnato e fortemente poetico al contempo: un miracolo. Ho suonato con lui solo una volta, tanti anni fa. La mia canzone parla anche di questo. Ho pensato a questa canzone per vent'anni e l'ho scritta in un giorno, immediatamente prima del lockdown, in una Venezia deserta il 29 febbraio 2020. Ricordo che l'ho mandata a Paolo Capodacqua, che ha accompagnato Lolli per decenni. Lui l'ha subito amata e mi ha mandato una parte di chitarra. Ha consolato quei mesi tremendi e dato senso alla mia vita. Quest'anno la canzone è stata scelta dalla fondazione Lolli per celebrare il compleanno di Claudio. Non potevo avere soddisfazioni maggiori. Sono commosso e onorato. Claudio: il poeta sconfitto che non ha mai perso e la figura-simbolo che conclude "Argon".

Negli ultimi anni ti sei avvicinato sempre di più alla canzone d'autore italiana, dopo aver attraversato in lungo ed in largo quella americana e quella inglese. Com'è avvenuta questa piccola rivoluzione copernicana nel tuo universo musicale?
Ho sempre tenuto al centro la canzone italiana ed europea, anche e soprattutto quando suonavo con gli americani. Nel corso del mio primo importante tour con Mark Olson, tra 2007 e 2008, avevo con me un solo libro, con i testi di George Brassens, per sentirmi a casa. Mary Gauthier ha voluto il mio violino per il 
suo album scritto con i soldati americani (“Rifles & Rosary Beads”, 2018), perché piange attraverso il suo suono per le nostre guerre, quelle di noi europei. E il mio violino amplificava il messaggio per quell'album se no troppo americano... Ho suonato con tantissimi songwriter (Michelle Shocked, Mark Olson, Eric Andersen e tanti altri), ma sempre portando la mia sensibilità italiana ed est-europea. Nei miei dischi certamente c'è la lezione dei grandi songwriter statunitensi, ma sono anche dischi volutamente e sfacciatamente europei. "La via del Sale" puntava alla costruzione di un FolkRock specificamente italiano e appenninico con pifferi e zampogne.... Ho avuto la fortuna di suonare davvero con gli americani e di vivere buona parte della mia vita in America. Non ho bisogno di giocare a fa' l'Americano, come cantava Carosone. Non bestemmio la terra dove sono nato.

Concludendo, come saranno in concerti con i quali porterai in tour "Argon"? Quali brani dal tuo songbook riprenderai per l’occasione?
Ecco la scaletta dei concerti che sto effettuando in questi giorni. “Materiali sonori per una descrizione dell’anima di Paolo F.”, “Guerra civile”, “La maga e lo straniero”, “Argon”, “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra”, “Farfalla, falìa, favilla” (inedito), “Viaggio al centro della notte”, “Come Giona”, “Il Vittoriale brucia”, “Canticchiare aiuta”, “Alice la bambina”, “La biblioteca sommersa”, “L’Angelo ucciso”, “Il fuoco freddo della luna”, “Il latte nero dell’alba”, “Filastrocca della vita” (inedito), “Lettera a Claudio”. Che ne dici? Accompagnano, o meglio affiancano, la mia voce e il mio violino due musicisti perfetti per le mie canzoni e duttili nel suonare vari strumenti, oltre al loro strumento principale; inoltre, suggestivi anche alla voce. Parlo della violoncellista Giovanna Famulari e del chitarrista Marco Lamberti, che suona con me, dal vivo e in studio, dal 2006.



Michele Gazich – Argon (FonoBisanzio, 2021)
Ci sono album che nascono nel furore dell’ispirazione ed altri, invece, che richiedono meditazione, cura e un lavoro più profondo anche nella scrittura. In questo senso è emblematico il caso di “Argon” di Michele Gazich, opera frutto di una lunga gestazione compositiva e realizzata nell’arco di due anni dal 17 maggio 2019 al 9 maggio 2021. Nel mezzo ci sono stati i lunghi giorni del lockdown del 2020, la forzata pausa dell’attività sul palco e tanti momenti di scoramento, tensione e sofferenza, trasformati con spirito resiliente in humus ispirativo che ha chiuso il cerchio e il cammino è ripreso. Ne è nata una raccolta di otto brani, ma sarebbe più giusto definirli movimenti o suite, in cui il songwriter bresciano canta la condizione dell’artista e del suo lavoro, solo in apparenza inutile e ai margini della società, ma fondamentale per la sopravvivenza del mondo. In questo senso significativa è anche la scelta del titolo che rimanda sia all’Argon, elemento chimico della tavola periodica e gas nobile difficilmente combinabile, sia al titolo del primo racconto della raccolta autobiografica “Il sistema periodico” di Primo Levi in cui descrive la vita ai margini della società dei suoi antenati ebrei piemontesi. Rispetto ai dischi precedenti, “Argon” vede il sogwriting di Gazich abbandonare certe formule ermetiche per abbracciare una maggiore intensità nelle immagini poetiche. Tutto ciò si riflette anche negli arrangiamenti che vedono il violino e gli archi misurarsi con sonorità differenti dalla musica classica e barocca, al folk, per toccare la musica balcanica e quella klezmer e giungere al rock. Ad accompagnare Michele Gazich (voce, violino solista, violino primo, violino secondo, viola, pianoforte) in questa nuovo capitolo della sua discografia sono l’ormai storico collaboratore Marco “Tibu” Lamberti (chitarra classica) meglio noto come Maestro dell’Anima, Giovanna Famulari (voce, violoncello), Vincenzo “Titti” Castrini (fisarmonica),  Paolo Costola (basso elettrico, basso elettrico fretless e basso elettrico a cinque corde) che ha curato anche la registrazione, e Alberto Pavesi (batteria e percussioni) ai quali si sono aggiunti gli ospiti Giorgio Cordini (bouzouki), Valerio Gaffurini (pianoforte), Paolo Capodacqua (chitarra solista) e le voci di Rita Tekeyan e Lara Molino. L’ascolto, da fare possibilmente in cuffia per cogliere tutte le sfumature musicali dei brani, è una vera e propria immersione nell’immaginario poetico del songwriter bresciano, nel quale si toccano i suoi interessi letterari e poetici, il profondo legame con la spiritualità ebraica, gli addentellati con la musica tradizionale e quelli con la canzone d’autore italiana e americana a cui è da sempre legato. Il disco si apre con la title-track con il solo di violino di Gazich a tracciare la linea melodica in cui si inseriscono in crescendo la chitarra di Lamberti, il basso, la batteria e il bouzuki di Cordini che dialoga con gli archi. La seconda parte del brano vede protagonista la voce di Rita Tekeyan che duetta con Gazich nella preghiera in uso nella comunità ebraica piemontese. Si prosegue con il racconto iniziatico de “La Maga e Lo Straniero” dove alla voce e al violino di Gazich si uniscono la voce e il violoncello di Giovanna Famulari, conducendoci in un’atmosfera senza tempo sospesa tra folk cameristico e musica barocca. La travolgente rilettura rock di “Ulisse coperto di sale” dal repertorio di Lucio Dalla, magistralmente interpretata da Gazich ci conduce a “Canticchiare aiuta” in cui nel ritratto di un anziano e pensoso Eugenio Montale, ritorna la figura dell’artista e del suo lavoro, così come emerge una profonda riflessione sulla morte (“Il poeta sa che la morte non avviene in rima/Ma canticchiare a volte aiuta/Mentre scendi, scendi quella china”). Se il toccante valzer “Il fuoco freddo della luna”, guidato dalla fisarmonica di Vincenzo “Titti” Castrini intreccia le esistenze della poetessa Ingeborg Bachmann e quella di Paul Celan, la lunga suite “Il Vittoriale brucia” tratteggia con vivido lirismo gli ultimi anni di vita di Gabriele d’Annunzio, il tutto impreziosito da un arrangiamento folk-rock, costruito attraverso il susseguirsi di sezioni musicali differenti che conducono alla tradizione musicale abruzzese con il canto finale affidato alla voce di Lara Molino. L’ipnotico arpeggio di pianoforte di “Fiume Circolare” con le sue dolenti lirche (La vita può cambiare/ O inganno dei mortali!/Con un gesto, un azzardo, un ridere a lacrime/Con un pugno bastardo, un piangere invano/O un figlio pazzo che prega di notte il sole/Riflesso da una lama di coltello/Una corda slegata/È una corda legata) ci accompagna al finale con la superba “Lettera a Claudio”, dedicata a Claudio Lolli e incisa con Paolo Capodacqua alla chitarra. Rifuggendo la facile agiografia post-mortem, Gazich ci racconta del suo incontro con il poeta e cantautore bolognese, per poi consegnarci una riflessione amara sul mondo che ci circonda (“Ci hanno invitato al funerale dell’utopia/Ma tu eri morto e non ti hanno trovato/Ci hanno dato una stella e un foglio di via/Poeta buono, ci volevi felici/Poeta tremendo, tu già lo sapevi”). “Argon” è, dunque, un’opera di assoluto pregio che entra di diritto tra i grandi classici della canzone d’autore. 


Salvatore Esposito

Foto 1 e 2 Alberto Marchetti
Foto 4, 5, 6 Paolo Brillo
Foto 3, 7, 8, 9, 10, 11 Enrico Fappani

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