Michele Gazich – La Via del Sale (fonoBisanzio/I.R.D., 2016)

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Violinista, produttore e soprattutto scrittore di canzoni, come ama definirsi, Michele Gazich è un artista poliedrico dal percorso artistico tanto articolato quanto ricchissimo, costellato da prestigiose collaborazioni con artisti internazionali come Eric Andersen, Mary Gauthier, Michelle Shooked, e Mark Olson, e da una fortunata produzione come solista, prima con il progetto La Nave dei Folli e successivamente a suo nome con “L’imperdonabile”, il live “Verso Damasco” e il più recente “Una Storia di Mare e di Sangue”. A distanza di due anni da quest’ultimo, il cammino artistico del musicista bresciano prosegue con “La Via del Sale”, album di grande spessore nel quale risalta in modo ancora più marcato la sua tensione continua verso la ricerca musicale e letteraria. Abbiamo intervistato Michele Gazich per approfondire insieme a lui questa sua nuova opera, soffermandoci sulle ispirazioni e le suggestioni che caratterizzano i vari brani.

Sono passati due anni dalla pubblicazione de “Una Storia di Mare e di Sangue”. Il tempo giusto per meditare, studiare ed in fine dare alle stampe quello che è il lavoro più compiuto e maturo del tuo percorso artistico come solista “La Via del Sale”. Ci racconti il percorso che ti ha condotto a questa tua nuova opera?
Ho tentato di mettere in questo album (che chiude la trilogia apertasi con “L’Imperdonabile” e proseguita con “Una storia di mare e di sangue”) tutto quello che ho imparato in questi anni sulla mia pelle o osservando maestri del songwriting e della produzione artistica ben più bravi di me al lavoro: sono stati anni sempre in viaggio, soprattutto oltreoceano, ma non solo; ho frequentato festival folk di tutto il mondo, (Dal Mariposa Folk Festival, vicino a Toronto, a quello di Vancouver; dal Rocky Mountain Folks Festival in Colorado a quello di Tonder in Danimarca, per citare quelli che più mi sono rimasti nel cuore), che mi hanno offerto un osservatorio molto interessante su tanti artisti e tante tradizioni musicali. 
“L’Imperdonabile” era uno sguardo sull’interiorità, sulla mia anima: un viaggio, non a caso, fatto da solo, un album registrato in totale solitudine in un periodo di svolta della mia vita; “Una storia di mare e di sangue” è stata l’indagine delle radici, della mia storia familiare, particolarissima e comune, come le storie di tutti coloro che hanno viaggiato per fame e per disperazione: una storia che si snoda tra Turchia, Ex-Jugoslavia, Stati Uniti, per approdare solo alla fine in Italia; “La via del sale” rappresenta il mio ritorno a casa, brucia del dolore e della gioia di essere italiano. Il tentativo è la costruzione di un FolkRock veramente “nostro”, nel senso di “italiano”, che ci appartenga, a livello melodico e anche per l’organico strumentale coinvolto (che include il Piffero dell’Appennino e La Zampogna del Sannio). La scrittura delle parole e della musica per “La via del sale” si è intrecciata con la conclusione della scrittura di “Una storia di mare e di sangue”. Il processo è durato circa tre anni. La cosa più complicata è stata la costruzione del suono.

Questo nuovo album che segna una piccola grande rivoluzione copernicana nel tuo approccio agli arrangiamenti e alla voce. Quali sono le differenze rispetto ai tuoi dischi precedenti?
La mia voce è cambiata un giorno preciso e ho la data! Il 27 gennaio 2015: quel giorno suonai e cantai al Senato spagnolo, alla presenza del Re, delle maggiori cariche dello stato e dei rappresentanti della comunità ebraica e rom, in occasione della giornata della memoria. In quella circostanza decisi di suonare e cantare una sorta di mantra, una versione mediterranea del blues per così dire, che avevo composto per l’occasione, “Dia de Shabat”: racconta della distruzione del quartiere ebraico della città di Salonicco alla fine dell’Ottocento (è oggi inclusa nel mio album). Quel giorno aprii bocca e la mia voce era cambiata, si era spezzata improvvisamente, aveva perso la sua rotondità, c’era improvvisamente come una fenditura, una faglia… 
Ho continuato a cantare e da allora questa nuova voce non mi ha più abbandonato… E ho cominciato a danzare attorno alla faglia, sul bordo del precipizio e questa voce spezzata si è piano piano fatta canto. Non ti nascondo che poi ci ho lavorato - e ci lavoro - a lungo, ma il momento aurorale è stato proprio quel 27 gennaio in Spagna… Quanto agli strumenti, molte sarebbero le considerazioni da fare. L’album ha molti strati di suono, che si depositano, spero con delicatezza e senza grevità sul mio pianoforte, che è lo strumento portante. Da lì ho cominciato: voce e piano. Si è poi aggiunta, per la prima volta nei mei album, una sezione ritmica. Su quella ho lavorato con attenzione particolare, volevo che supportasse ciò che poi avrei costruito, ma senza essere troppo invadente, il che non ha significato tenerla bassa di volume (se sente benissimo che c’è), ma trattarla come la base per l’arrangiamento che poi avrei edificato su basso/batteria e piano. E’ stato un lavoro lungo e certosino, in cui ogni nota e ogni spunto ritmico è stata pensato e pesato con accuratezza. Un lavoro in cui mi ha affiancato Paolo Costola, il tecnico del suono dietro ogni mio album e in questo caso anche direttamente coinvolto, al basso, nella sezione ritmica. Paolo mi ha proposto Alberto Pavesi, batterista e percussionista duttile e versatile, che si è rivelato perfetto per le mie canzoni. Il pianoforte, in questo album, ha funzione armonica e portante. Marco Lamberti, il chitarrista polistrumentista che mi affianca da anni, si è dunque spostato dall’acustica all’elettrica, con un ruolo completamente diverso: non più sostenere gli altri strumenti, ma colorare. Le sue elettriche sono parte fondamentale della tavolozza  sonora de “La via del sale”: legano, amalgamano e portano in una dimensione altra. Su tutto ciò ho innestato gli interventi più squisitamente melodici: il violoncello e la voce di Francesca Rossi; il clarinetto, il sax e la voce di Alessandra Rossi; Pietro Campi alla tromba e alla voce; Rita Lilith Oberti, la voce della madre in “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra”; naturalmente il piffero di Stefano Valla e la zampogna di Jacopo Pellicciotti, a cui ho già accennato e infine il mio violino, in tutte le sue anime: classiche, ebraiche, zingare, eccetera…

Analizzando le canzoni de “La Via del Sale” emerge un nuovo approccio anche al songwriting. Come si è indirizzato il tuo lavoro di ricerca in questo senso?
Il motto è stato semplificare, deintellettualizzare la mia scrittura, renderla più semplice. Permangono, e ci tengo molto, vari livelli di lettura, ma la scrittura che emerge in superficie (cioè le parole utilizzate) è semplice e piana, immediatamente comprensibile.

Il titolo del disco fa riferimento alle antiche vie del sale, crocevia di scambi commerciali ma anche di incontri tra culture differenti. Cosa si è perso oggi di questo patrimonio inestimabile della nostra cultura?
“La via del sale”, il titolo dell’album, allude certamente a queste storiche vie commerciali, che percorrevano tutta l’Italia e non solo (ci sono città come “Salzburg” che dal sale prendono il nome), quando il sale era importante come l’oro e il petrolio. Perso il significato commerciale, le vie sono state abbandonate, come un giorno capiterà anche agli oleodotti… Oggi, in buona parte, sono sentieri tra il mare e la montagna… “La via del sale” può inoltre essere intesa in senso metaforico e descrivere tutti i luoghi che, perso il loro significato originario, stentano a trovarne un altro o molto difficilmente lo troveranno. Una via del sale è la città de L’Aquila, che, dopo il sisma, ancor oggi stenta a ritrovarsi a ritrovare il suo centro storico, per errate e tragiche scelte iniziali venute dall’alto immediatamente dopo il terremoto (ricordate le “new town”?). Per questo ne “La via del sale” ho ripreso “Collemaggio”, la canzone che avevo composto a un anno del terremoto, per raccogliere qualche minimo soldo, per supportare una locale accademia musicale, la cui sede era stata sfigurata dal sisma. Una via del sale è anche  il cratere, il grande buco nella terra, che, a Colonia, in Germania, sta al posto degli archivi, della biblioteca della città. Ma di queste e di altre vie del sale, parleremo, commentando specificamente le canzoni.

Quali sono state le ispirazioni alla base della title track?
La title track si è sviluppata ed evoluta grazie a molte visite ad una via del sale in particolare, quella che, da Genova muove verso la pianura padana, passando per l’Appennino delle quattro province. Lì ho conosciuto Stafano Valla, tra i maggiori suonatori di piffero dell’Appennino contemporanei, residente a Cegni, nei pressi di Varzi, che è il paesello della più pura tradizione, per quanto riguarda il piffero. Stefano è erede del mitico e storico  Jacmon, maestro di ogni pifferaio, che lì risiedeva. Stefano suona ai più importanti raduni e feste da ballo nella sua zona sull’Appennino, ma la sua curiosità intellettuale l’ha condotto a suonare il suo strumento per tutta Europa e a confrontarsi con progetti sempre nuovi e audaci. E’ stato la persona giusta, dunque, depositario di una tradizione, ma anche incredibilmente aperto, per portare il suono del piffero fuori dall’abituale contesto del ballo in una direzione inedita. L’ho ascoltato per anni suonare; ho studiato l’estensione e le caratteristiche del suo strumento; gli ho scritto delle parti adatte e lui ha avvolto con il suo suono “potente e come un velo” la mia “via del sale”. 
Ma non solo: è tutto l’Appennino ad unirsi in un abbraccio. Il piffero duetta con la zampogna del Sannio di Jacopo Pellicciotti, giovanissimo musicista, che scoprii anni fa nel vastese. Jacopo, in maniera estremamente autocosciente, fa parte di un movimento di riscoperta e riattualizzazione della zampogna, che lì nacque in epoca preromana. Il testo che ho collocato su questa musica ha un andamento sapienziale, gnomico, ma anche “politico” in senso alto: tutto l’album può essere letto in questa chiave. In questo senso va letta l’allusione a Giobbe che chiude la canzone “Veniamo al mondo sacri e nudi / Oh, voglia Dio che ce ne andiamo come siamo venuti”; oppure: “Se tu hai latte, vino e pane /io ti offro anche la fame”. Si parla tanto di crisi e decrescita; di questo parla anche “La via del sale”, in maniera semplice ed esplicita, spero indicando una direzione in questo momento per tutti così difficile.

Uno dei brani più belli, sorprendenti e spiazzanti di tutto il disco è “Un tempo la fuga era un’arte”. La codardia tipica dell’epoca moderna ha cancellato anche il saper fuggire nel momento giusto? Che cosa intenti per fuga?
Fuga dal presente faticoso, fuga dalla vita in generale che è faticosa tout court, ma anche fuga da situazioni intollerabili come la guerra. Fuga da una società in cui è rivoluzionario anche solo dire se si preferisce la pasta o il risotto, fuga dalla propaganda, fuga dai matrimoni non scelti “nel buio della notte che unisce / ciò che gli uomini hanno diviso”. Fuga è anche il genere musicale portato alla perfezione da Bach, dal quale cito in apertura di canzone il tema appunto de “L’arte della fuga”, per poi trasformarlo, sporcarlo  in una polka ignorante, più adatta a descrivere la nostra fuga caotica di uomini-formiche dal nostro formicaio-Europa… La fuga viene insomma declinata in tutte le sue sfaccettature, anche contraddittorie,; La musica ha, fatalmente e significativamente, risonanze da varie culture: da quella ebraica a quella balcanica (il mio violino sul registro alto duetta con il vocalizzo “russo” di Pietro Campi, un grido espressionista), mentre il testo è un tour de force metrico, ispirato, in qualche modo, al mio maestro in questo senso: Georges Brassens.

Più criptica, ma non meno affascinante è poi “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra” in cui duetti con Rita "Lilith" Oberti nell’intreccio di due monologhi…
E’ la canzone che mi ha accompagnato più a lungo: ci penso da decenni, ma solo negli ultimi anni mi sono deciso a scriverla. Svolge uno dei nodi non solo freudianamente più importanti e tendenzialmente irrisolti della nostra esistenza: il rapporto con la madre. Anche per questo ho atteso tanto a scriverla. Si sviluppa, come tu dici, come die monologhi: un figlio e una madre si trovano, come spesso avviene in famiglia, in un contesto formale, a tavola e dovrebbero dialogare, ma il dialogo non si sviluppa mai, in realtà: sono appunto due monologhi, domande e non-risposte. La canzone parla della solita questione della vendita dell’anima al maligno. Terribile che il maligno possa essere la madre, che, forse, solo verso la fine di questo mancato dialogo diviene madre, attraverso le lacrime del figlio. La musica è ossessiva, il basso ribatte note su di una ritmica spiazzante; il violino gira allo sfondo a bicordi ancora ossessivi e pare quasi una ghironda. Su questo tappeto sonoro si innestano le voci mie e di Rita Lilith Oberti, cantante d’estrazione punk, la voce perfetta, grazie al suo splendido registro grave, al suo scolpire ogni parola e alla sua immedesimazione nel ruolo. Una voce così è rara, soprattutto in Italia, dove, come eredità del melodramma peggiore, si predilige il registro alto e il gorgheggio. La zampogna di Jacopo commenta il tutto al centro del brano. Sembrano elementi eterogenei, e lo sono, ma penso che si sposino bene per comunicare il significato che avevo in mente. Inoltre mi piace sempre sognare una musica “totale”, senza steccati, dove il punk e una zampogna possono felicemente convivere…Su questa canzone il regista Enrico Fappani ha girato un video, molto inquietante, che vi invito a guardare…

“Viaggio al centro della notte” riporta al centro della scena la tua attenzione verso la spiritualità. Questa volta l’ispirazione arriva da San Giovanni Della Croce che guarda al buio come unica via per la luce…
Scendi e scendi al buio e forse trovi la luce. La ricerca spirituale è misteriosa e il successo non è mai chiaro, non è mai una marcia trionfale, la luce può non risultare così diversa dal buio… Il viaggio si dipana al centro della notte, ci guida il violoncello di Francesca Rossi, che, per comunicare questo concetto sale, ad altezze inusuali per un violoncello e scende molto in basso, direi più in basso che mai: ho pensato di scordare la corda grave del suo strumento, di portarla da do a si, per andare ancora più in basso, ancora più nella tenebra e nell’oscurità in questo “Viaggio al centro della notte”. E’ una canzone spirituale, ma anche una canzone d’amore, come le poesie di San Giovanni della Croce; una canzone che brucia d’amore e desiderio e demolisce i luoghi comuni dolciastri connessi con questo sentimento: “l’amore non è mai casa”.

Ci puoi raccontare la storia di “Dia de Shabat” composta nel 2015 in occasione della Giornata della Memoria ed eseguita per la prima volta presso il Senato Spagnolo?
Ho già accennato prima a ciò, ma aggiungerei che la canzone è posta al centro del mio disco e rappresenta una pausa, un momento di riflessione. Il suono è drammaticamente diverso da tutte le altre canzoni: niente basso, batteria, piano ed elettrica, come in tutte le altre canzoni, ma solo bouzouki, viola, percussioni e voce. Ho composto una musica che, filologicamente ma con libertà, richiama la musica sefardita. L’ho resa ancora più iterativa e mantrica, come dicevo, come il blues. Il testo è tradizionale, ma da me riscritto e ridimensionato: mi ha suggestionato l’immagine conclusiva, che ho mantenuto: gli ebrei di Salonicco non hanno più una casa, perché il loro quartiere è stato distrutto, ma si abbracciano e in quell’abbraccio c’è l’idea di avere ancora una casa. Il quartiere ebraico di Salonicco, distrutto, è un’altra via del sale nel senso metaforico che dicevo poco fa.

Come mai hai deciso di riprendere “Collemaggio” in cui racconti del dramma del terremoto a l’Aquila nel 2009?
Perché, come accennavo, ancora molto c’è da fare a L’Aquila, come in altre zone d’Italia. Il nostro è un paese sismico e, purtroppo, di questi argomenti sempre si parlerà. Nello specifico, la canzone ben si contestualizzava concettualmente ne “La via del sale” ed inoltre da tempo non era più reperibile, in quanto esaurito, il miniCD che la conteneva, realizzato per aiutare l’accademia musicale aquilana (Concentus Serafino Aquilano) nel 2009. Ho reso l’arrangiamento più deciso, quasi militaresco, l’ho resa ancor più canzone di lotta, quale è, e questa volta l’ho cantata io…

“Barcellona, Sicilia” con l’incipit del Vangelo di San Giovanni cantato in siciliano da Salvo Ruolo, è stata ispirata dalla lettura delle poesie di Bartolo Cattafi…
Bartolo Cattafi (1922-1979) è un grandissimo poeta italiano, oggi poco ricordato, assurdamente, anche se è certamente stato una voce maggiore. Ma la memoria è corta, non solo nel nostro paese, anche se tutta l’opera di Cattafi era stata pubblicata addirittura da Mondadori. Questo per dire che non parlo di un minore, di uno per addetti ai lavori… La sua scrittura, gnomica, sentenziosa e metafisica, certamente ha influenzato la mia, da tanti anni. Era giunta l’ora di rendergli omaggio. Ho scelto di intitolare il brano “Barcellona, Sicilia”, perché è il paese natale di Cattafi. E’ uno di quei luoghi che già nel nome segnalano una bizzara e feconda anomalia, una callida iunctura, come direbbe il poeta latino Orazio, cioè “un accostamento ardito”, come Paris, Texas… Ho deciso di avvalermi della voce di Salvo Ruolo, che avevo ascoltato in uno dei dischi più belli degli ultimi anni, almeno a parer mio: “Canciari Pautruni ‘Un E’ L’bittà” (“Cambiare padrone non è libertà”). Il suo disco narra il Risorgimento, ma da un punto di vista siciliano, come un’aggressiva guerra di conquista su quella frontiera: episodi veri e tragici vengono narrati in un siciliano che arieggia quello dell’epoca e la musica suona inequivocabilmente siciliana, anche senza indulgere in nessun elemento pittoresco. Bellissimo. 
Mi è venuto spontaneo pensare a lui, dopo questo ascolto. Ciò che non sapevo, e che poi ho considerato quasi “un segno”, è che anche Salvo è nato a Barcellona in Sicilia e la sua famiglia bel conosceva quella del poeta… Incredibile! Salvo grida il prologo di Giovanni in maniera assolutamente non chiesastica in senso deteriore, ma ricarica di significato queste parole, come se le urlasse (come si fa in Sicilia) da una casa all’altra, da un balcone all’altro e alla fine grida, come nelle processioni della sua terra: è un altro grido, un altro lamento, speculare a quello di Pietro Campi in “Un tempo la fuga era un’arte”.

“La biblioteca sommersa” racconta un fatto emblematico per denunciare come l’Europa abbia perso le sue radici umanistiche e tolleranti… 
Per costruire una superflua metropolitana, che avrebbe condotto i viaggiatori otto minuti più rapidamente del già esistente tram di superficie dall’altra parte della città, gli archivi, la biblioteca di Colonia sono sprofondati nella terra. Sotto la biblioteca c’era una falda acquifera; per svuotarla era stato autorizzato l’utilizzo di quattro pompe; ne sono state utilizzate ventitré, per fare prima. Il vuoto creatosi improvvisamente ha provocato, il tre marzo del 2009, il crollo della biblioteca sottoterra, sprofondata e poi ricoperta dalle acque. Devo a un mio amico tedesco, di Colonia, Frank Deja, la conoscenza di questa storia. Frank ha fondato un movimento per far sapere ciò al mondo e potete sentire la sua voce alla fine della mia canzone, che si sviluppa come una sorta di marcia funebre, guidata dal clarinetto di Alessandra Rossi. Cercavo un simbolo per l’Europa di oggi, priva di memoria per le proprie radici umanistiche e tolleranti e, come dico sempre, purtroppo l’ho trovato.

La chiusura del disco è affidata a “Una lettera dalla barricata”. Ci puoi raccontare com’è nato questo brano?
Tutti gli strumenti che hanno suonato nel disco si ritrovano in questa canzone che ha quasi il sapore di una felliniana fanfara conclusiva. La canzone riassume la mia poetica. Chi è familiare con i miei dischi precedenti, ritroverà parole e personaggi. Ma anche chi mi sente per la prima volta, spero che possa apprezzare questo riassunto della mia visione del mondo e del mio persistere nello scrivere canzoni: “Accetta questi stracci e le smorfie dell’idiota / Queste macerie piene di grazia, questi avamposti / Le rovine del mio amore strappate alla notte / Mentre il ponte cade io ti canto la canzone / Visione, inno, gioia, filo d’erba / Perché un giorno, un giorno possa rimarginarsi questa barricata”. Questa la conclusione del disco; sono sulla barricata, ma non sono lieto di esserlo; altri sarebbero stati i miei desideri quando ero giovane, anche se questa barricata di suoni e parole è stata edificata con la dedizione dell’amore.  C’è però una postilla a “Una lettera dalla barricata” ed è “Fontanigorda”, il primo brano per violino solo incluso in un mio album. Sì, violino solo, dopo tante parole e tanti strumenti a conclusione di questo percorso. Il perché e il significato del misterioso titolo, lo lascio da scoprire ai miei ascoltatori e lettori del libretto che accompagna il CD..

Concludendo, come saranno i concerti del tour de “La Via Del Sale”?
Il tour si apre l’8 di ottobre al mitico FolkClub di Torino, per snodarsi in tutta Italia e poi anche in Europa nel 2017. Suonerò con tutte le formazioni possibili; nessun concerto sarà uguale all’altro. Interverranno ad affiancarmi tutti i musicisti coinvolti nella registrazione dell’album, a rotazione, con l’auspicio di raccoglierli per qualche concerto tutti insieme! Al FolkClub, ad esempio mi accompagneranno Francesca Rossi al violoncello; Marco Lamberti alla chitarra acustica, elettrica e al bouzouki e Rita Lilith Oberti alla voce. Al Folkclub c’è un bellissimo pianoforte a coda, che suonerò in alternativa ai miei abituali strumenti ad arco (violino e viola) per parte delle canzoni che canterò. 


Michele Gazich – La Via del Sale (fonoBisanzio/I.R.D., 2016)
Artista in continuo movimento e incarnazione contemporanea dell’ebreo errante, Michele Gazich con “La Via del Sale” ha dato vita al suo disco più intenso e maturo di sempre, intessuto su storie ispirate, raccolte o semplicemente immaginate sugli antichi tracciati seguiti da coloro che commerciavano il sale, elemento allora fondamentale per conservare ed insaporire il cibo. Quelle strade, come la Salaria, oggi non solo altro che vie e sentieri secondari, dimenticati, ma nella loro essenza ci raccontano la storia della nostra nazione come dell’Europa, fatta di opere incompiute, città abbandonate, rovine industriali, biblioteche sommerse, tasselli di un mosaico quasi apocalittico che si va man mano componendo. Il musicista bresciano ha ripercorso questi sentieri portando alla luce storie toccanti di viaggi, fughe, persecuzioni, e culture calpestate, riscoprendo di pari passo musicisti e strumenti tradizionali come il piffero dell’Appennino e la Zampogna a chiave del Sannio o quella zoppa della Sabina, che nel dialogo con gli strumenti contemporanei compongono una suggestiva tavolozza di colori musicali folk-rock. Accanto a Michele Gazich, che si divide tra voce, violino, viola, pianoforte e tubular bell, troviamo un folto gruppo di strumentisti composto dall’ormai inseparabile Marco Lamberti alle corde, Stefano Valla al piffero dell’Appennino, Jacopo Pellicciotti alle zampogne, Paolo Costola al basso e alla chitarra baritona, Alberto Pavei alla batteria e alle percussioni, Alessandra Rossi al clarinetto e al sassofono, Francesca Rossi al violoncello, Piero Campi alla tromba, e le tre voci degli ospiti Rita “Lilith” Oberti,Salvo Ruolo, e Frank Deja”. Se dal punto di vista prettamente musicale il disco prosegue la rivoluzione copernicana intrapresa con il lavoro precedente e volta ad una esplorazione a tutto tondo dei suoni del Mediterraneo, da quello vocale Gazich abbraccia con ancor più decisione la forma cantata, svelandoci un timbro intenso e coinvolgente. Tutto ciò emerge con forza sin dalle prime note della title-track che apre il disco, invitandoci a percorrere la via del Sale per riscoprire la natura profonda dell’uomo (“Se tu hai latte, vino e pane / Io ti offro anche la fame”; “Veniamo al mondo sacri e nudi / Oh, voglia Dio che ce ne andiamo / Come siamo venuti”), mentre l’evocativo intreccio tra la zampogna molisana e il piffero dell’Appennino evoca i passi del cammino. La citazione pianistica di una fuga di Johan Sebastian Bach ci introduce ad uno dei brani più belli ed affascinanti del disco “Un tempo la fuga era un’arte” che si snoda tra influenze klezmer e balkan avvolgendo il testo nel quale emerge il desiderio dell’uomo contemporaneo di fuggire dal mondo che lui stesso ha creato, la fuga è però un arte e non sarà mai un gioco. Si prosegue con le ossessive ed oscure trame noir di “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra” che racchiude il dialogo tra le voci di Rita “Lilith” Oberti e quella di Gazich che interpretano rispettivamente la madre ed un figlio che ha venduto la propria anima al maligno. Se “Viaggio al centro della notte” è un omaggio a San Giovanni della Croce e alla sua inquietante “teologia negativa”, la successiva “Dia de Shabat” è lo struggente racconto della distruzione del quartiere ebraico di Salonicco, interpretata da Gazich con trasporto e grande potenza lirica, mentre il bouzuki di Lamberti tesse una dolente trama melodica. Dal dramma del popolo ebraico a quello degli abitanti di L’Aquila, il cui distruttivo terremoto del 2009 ritorna nella già nota, ma sempre toccante, “Collemaggio”. Altro vertice del disco arriva con “Barcellona, Sicilia”, dedicata a Bartolo Cattafi uno tra massimi poeti italiani del Novecento, e nella quale la voce di Salvo Ruolo declama l’incipit del Vangelo di Giovannni in siciliano. Sui sentieri abbandonati delle Vie del Sale si tocca con mano anche l’assenza della vita, quella di un Europa in declino sotto i colpi della globalizzazione, che Gazich canta con disillusa e vivida forza poetica ne “La vita non vive”. Il dramma della distruzione della Biblioteca di Colonia ne “La biblioteca sommersa” e quello di Auschwitz in “Una lettera dalla barricata” ci conducono verso il finale dove lo strumentale “Fontanigorda”, ricerca per violino solo ispirata al poeta Giorgio Caproni, suggella un disco di rara intensità che, sin da ora, si candida ad essere uno dei lavori di punta della prossima edizione delle Targhe Tenco.


Salvatore Esposito

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