Giulio Fara, padre dell’etnofonia sarda e precursore dell’ etnomusicologia italiana

È stato uno dei “grandi” della musica popolare italiana, in particolare, seppe dare adeguato risalto alla musica sarda, già nei primi decenni del XX secolo. Per noi è naturale ricordarlo con stima e ammirazione.  Nato a Cagliari nel 1880, Giulio (Maria) Fara scriveva con stile fluido e “sarditas”. Padre degli studi etnofonici, come musicologo concepì la ricerca a promozione di una società più evoluta culturalmente, aperta e sprovincializzata dal mainstream dei centri di formazione e diffusione della musica colta che, peraltro, ben conosceva, apprezzava e che, all’occasione, valorizzava con articoli e saggi (scrisse anche drammi, libretti d'opera e testi di critica musicale).  Amava la Sardegna e riteneva importante studiare la musica popolare partendo dai luoghi nei quali veniva eseguita: «Studiare la etnofonia di un popolo - scriveva nel 1940 -  è sollevare il velo della sua anima; è scrutare nel profondo più geloso dei sentimenti. Conoscere il carattere musicale di un popolo vuol dire conoscerne del pari la psicologia, il modo di sentire, le sfumature sensoriali, sentimentali, passionali, che costituiscono l’individualità, l’io di una data massa umana».  Fara era libertario e nei propri scritti talvolta esponeva tesi ardite, con la consapevolezza di avanzare fertili ipotesi di ricerca comparativa, che richiedevano conoscenze interdisciplinari approfondite. Ebbe diversi meriti e le sue ricerche risultarono assai apprezzate dai principali etnomusicologi che iniziarono a operare, in Italia, nella seconda metà del Novecento, in particolare Roberto Leydi, Sandra Mantovani, Alan Lomax, Diego Carpitella, Andreas Fridolin Weis Bentzon, Giovanni Dore, Pietro Sassu e dai ricercatori gravitanti intorno al  Gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano.  Fara concepiva l’etnofonia nella sua globalità, avendo l’obiettivo di allargare la conoscenza verso le funzioni sociali e le manifestazioni della quotidianità, comprese quelle rituali. 
Sarebbe riduttivo cercare di confinare il ricercatore cagliaritano nella prospettiva positivista ed evoluzionista; non siamo tra coloro che lo ritengono “legato ad un quadro ideologico tardoromantico”. In epoca in cui le informazioni e la comunicazione “correvano” lente, mostrando ampiezza di vedute, Fara prospettò articolati percorsi comparativi che richiedevano continui confronti tra la diacronia e la sincronia, ricercando un “filo” grazie al quale meglio comprendere il presente musicale e i suoi possibili sviluppi. Negli anni Venti avanzò pionieristicamente la proposta d’istituire in Italia un’ “Università Musicale” (la prima sparuta cattedra di “Storia della Musica” fu istituita, solo nel 1941, a Firenze).  Chiunque sia sinceramente intenzionato a capire qualcosa della nascente etnomusicologia italiana (e, in particolare, di quella sarda), riteniamo sia obbligato ad approfondire i contributi musicologici scritti da Fara. Tenendo conto della sua sostanziale formazione da autodidatta (non seguì studi regolari, ma fu istruito da insegnanti privati) e del contesto italiano dell’epoca, la sua produzione riferita alla musica popolare non può che essere considerata d’avanguardia. Nel complesso, consta di numerosi contributi comprendenti varie tematiche, diversi dei quali pubblicati, a partire dal 1909, nella RMI (“Rivista Musicale Italiana”), promossa da Oscar Chilesotti, il quale ospitò importanti saggi riferibili alle culture extra colte, tra cui quelli di Ella von Schultz Adaïewsky.  Nel BRADS (“Bollettino del Repertorio Atlante Demologico Sardo”), tra il 1967 e il 1975, Pietro Sassu presentò la “Bibliografia analitica degli scritti etnomusicologici di Giulio Fara” (I, saggi 1905-1914; II, 1914 -1917); meritano, inoltre, menzione i contributi di F. Balilla Pratella, “Medaglioni bio-bibliografici: Giulio Fara” (Lares, n. 5, 1941) e la raccolta dei saggi “Giulio Fara, Sulla Musica Popolare in Sardegna” (a cura di G. Nicola Spano, 1997).  
Fara è da annoverare anche tra i padri della etno-organologia italiana, essendo stato “ispiratore” indiretto degli studi condotti da Giovanni Dore e Andreas Fridolin Weis Bentzon. Di Fara, scrisse con ammirazione l’etno-organologo Febo Guizzi

Sarditas, la ricerca e le launeddas  
Fara insegnò solfeggio, armonia e canto corale in diverse scuole del capoluogo sardo. Negli anni Venti del secolo scorso, si trasferì a Pesaro, lavorando come docente e “bibliotecario” presso il Liceo Musicale. Qui visse e operò per il resto dei suoi giorni (1949), con la moglie e i nove figli. Uomo di elevati principi morali, durante il Ventennio ebbe seri problemi con le Istituzioni, come desumibile da quanto evidenziato dalla figlia Silvia: «Mio padre, che al fascismo non aveva mai, neppur formalmente, aderito, si trovava perciò sempre esposto a persecuzioni politiche che, nell’ambito provinciale, mascheravano talvolta anche meschine vendette personali. E puntualmente, in seguito a una denuncia, nella primavera del 1943 fu radiato dall’insegnamento per non avere il necessario requisito della tessera del partito fascista e si ritrovò, dall’oggi al domani, senza lavoro e quindi senza stipendio. In quell’occasione ebbe la solidarietà degli antifascisti pesaresi che gli offrirono anche soccorso materiale, che mio padre, con sardo orgoglio, rifiutò. Fu reintegrato nel suo incarico dopo alcuni mesi per la pressione dell’opinione pubblica e per l’intervento di autorità cittadine ma con assunzione ex novo che comportava la perdita dei benefici derivanti della progressione della carriera, benefici che non gli vennero più restituiti (il testo è riportato nella citata raccolta dei saggi, del 1997)». Instancabile ricercatore (sono sue le parole, “Sardegna, terra di passione, nel canto lasci vibrare libera tutta l’anima tua”), Fara operò con larghezza di vedute rispetto all’intero patrimonio etnofonico regionale.  
In ogni suo scritto traspare il desiderio di valorizzare con consapevolezza l’unicità della musica sarda la quale, per repertorio vocale e strumentale, occupa un posto di tutto rilievo nel panorama internazionale. Dal ricercatore cagliaritano, tale musica venne analizzata da un punto di vista storico (talvolta prospettando tesi discutibili), sociale e tecnico-musicale; numerosi strumenti tradizionali, per la prima volta, ebbero modo di essere catalogati, osservati e studiati secondo moderne metodologie. Ebbe, tra l’altro, diretti contatti con Victor-Charles Mahillon.   Nel saggio “Musica Popolare Sarda. Piccolo contributo alla storia e all’arte dei suoni” (1909), passò in breve rassegna le differenti forme della vocalità e della polivocalità (per motivi che possiamo ipotizzare, non incluse quella sacro-popolare, liturgica e paraliturgica). Inoltre, catalogò gli strumenti musicali tradizionali maggiormente in uso nell’Isola. Alle launeddas riservò ampia trattazione, evidenziando le peculiarità costruttive, sonore ed esecutive, rendendo edotti sull’etimologia del sostantivo con il quale era in uso denominare lo strumento. Chiuse il saggio con un paragrafo dedicato all’ “Indagine storica sulle launeddas”.    
Nel 1913, scrisse un lungo saggio interamente dedicato allo strumento tricalamo, titolato “Su uno strumento musicale sardo”, nel quale riprese e sviluppò in modo esaustivo tutti gli argomenti già trattati nel 1909, arricchendo le analisi musicali con dovizia di particolari. Sulla base di ragionamenti articolati, egli affermava che le “launeddas fossero nate e vissute in Sardegna… in quanto strumento indigeno…”, ma imparentato con l’ “auloi gamèlioi” greco e con le “tibiae geminae” romane. In questo saggio ebbe anche modo di raccontare come avvenne la scoperta del famoso bronzetto itifallico, rinvenuto nei pressi di Ittiri, che documenta come in epoca nuragica fosse noto il concetto di polifonia, abbinato ad uno strumento musicale raffinato che richiede un complesso controllo esecutivo ed abilità tecnico-manuali assai sviluppate. Nel 1926, in “Genesi e prime forme della polifonia” (RMI XXIII), scriveva: «Di un originale strumento sardo io ho avuto la fortuna di trovarne la figurazione in una statuetta bronzea la quale attesta come detto strumento fosse già conosciuto all’epoca dei monumenti della Sardegna detti nuraghi, ma ciò non ci dice né ci poteva certo dire la statuetta a quale epoca l’invenzione dello strumento risalisse poiché la statuetta al contrario venne verisimilmente fusa in epoca di molto posteriore all’invenzione dello strumento e solo quando questo aveva già raggiunto una gran diffusione ed era forse salito agli onori di strumento religioso e bellico».   
Fara divenne un’autorità in materia musicale sarda e ciò gli permise di pubblicare sull’argomento altri saggi in differenti riviste e giornali. Nel 1940, a Udine, venne pubblicata l’opera monografica “L’anima della Sardegna”, nella quale sintetizzò gli esiti musicali di oltre trent’anni di appassionate ricerche. Sulla base dei dati a sua disposizione, lo studioso ipotizzò una tradizione nell’Isola assai conservativa, legata a quella che lui definì “una polifonia preistorica, risalente, a dir poco, all’epoca neolitica”. Polifonia facente parte dell’area mediterranea e imparentata direttamente con la musica africana (“… Non somiglianza, ma identità è quella che unisce, che fa una sola cosa dell’etnofonia africana e quella sarda”). In diversi saggi, accennò a due strumenti africani affini alle launeddas, l’ “arghul” (Egitto) e la “zummara” (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia), evidenziando le analogie con lo strumento tricalamo. Nei suoi studi, insistette ripetutamente sul concetto di polifonia primitiva, argomento estesamente dibattuto dagli studiosi di musicologia comparata d’inizio secolo, indicando analogie con la coreutica e l’organologia africana. In proposito, Fara specificò il suo punto di vista, secondo il quale «la Sardegna collocata a mezzo del cammino tra l’Africa e l’Italia, offriva un naturale punto di approdo ai navigatori punici che si recavano in Europa per  portarvi le loro mercanzie e imporvi, se possibile, col commercio, usi e costumi(…). Non somiglianza, ma identità è quella che unisce, che fa una sola cosa dell’etnofonia africana e quella sarda».  Fara, inoltre, trattando comparativamente dei canti delle diverse parti dell’Isola, avanzò l’ipotesi che «… lo strumento non è solo del sud ma di tutta l’isola e che il canto polivoco non è che seriore (posteriore, successiva) creazione in sostituzione delle canne pastorali, e non resta più dubbio alcuno su la compattezza granitica di tutta l’etnofonia sarda».  Di certo, lo studio delle launeddas offre numerosi spunti di riflessione in merito alla evoluzione della polifonia nella musica occidentale, con rimandi tali da permettere d’ipotizzare dubbi su quanto riportato nei più accreditati testi di storia della musica medievale, periodo nel quale si tende a stabilire l’origine dello sviluppo della polifonia in Occidente. Le launeddas sono uno strumento completo, che dà libertà di sviluppare in parallelo i due noti concetti di polifonia: quello di armonia, o polifonia verticale, che permette di eseguire più suoni simultaneamente, e quello di contrappunto, o polifonia orizzontale, che consente di far convivere, intrecciare e sovrapporre differenti linee melodiche.  
Le ipotesi storiche sull’uso delle launeddas corrono peraltro di pari passo con quelle dell’evoluzione delle forme della polivocalità sarda e, in particolare, di quella del canto a tenore, che da oltre un decennio ha ricevuto il riconoscimento da parte dell’UNESCO come Bene dell’Umanità. Da anni si parla e si discute  ma, francamente, troviamo inspiegabile tanto ritardo nel garantire lo stesso riconoscimento anche alle launeddas, strumenti musicali con una storia millenaria.  Nell’incontro tra polifonia strumentale e polivocalità in Sardegna alcune domande sorgono spontanee.  In epoca nuragica, la polifonia vocale era praticata al pari di quella strumentale? I cantori nuragici iniziarono ad imitare i suoni delle launeddas per sviluppare la polivocalità nell’Isola? La polivocalità in Sardegna è antecedente o successiva alle corrispettive forme strumentali? La polifonia è stata introdotta in Sardegna da altre civiltà o ha avuto una nascita e uno sviluppo autoctono?  Dare risposte esula dagli obiettivi del presente contributo, tuttavia uno degli indiscutibili meriti di Fara fu quello di far riflettere ad ampio raggio rispetto alle questioni “epistemologiche” relative alla polifonia sarda. Se contestualizzato nel suo periodo storico, rimane innegabile il contributo culturale che Giulio Fara, con determinazione e generosità, seppe dare agli studi di musica sarda; inoltre, fu uno dei pochi musicologi nazionali capace di fuoriuscire dagli schemi di analisi convenzionale, iniziando a dare rilievo comparativo ai patrimoni etnofonici dei popoli del Mediterraneo. Purtroppo (numerose volte) abbiamo potuto verificare sul campo che gli scritti di Fara sono poco conosciuti da suonatori e cantori sardi, ai quali invece suggeriamo un’approfondita lettura (critica), poiché era un autore che sapeva comunicare in termini musicali con il “cuore” e con passione, indispensabili per garantire entusiasmanti esecuzioni vocali e strumentali.  A nostro avviso, Fara deve essere ricordato come esponente di spicco dell’etnofonia italiana e uno dei precursori dell’etnomusicologia nazionale. Solo liberandosi da certo (a volte tedioso) oggettivismo accademico e da inutili pretese pseudo scientifiche, si potrà appieno comprendere con quale spirito “poetico” sia necessario ri-leggere e rivalutare tutta l’opera di Giulio Fara, il quale nella ricerca fece coerentemente vibrare la sua anima di uomo libero e, con il suo canto, volle con “sarditas” contribuire a rendere onore alla musica dei Popoli del Mediterraneo.

Paolo Mercurio

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