Cordigliera è uno storico gruppo musicale cremonese, le cui origini risalgono alla metà degli anni Settanta e che perciò si avvicina a celebrare ormai il mezzo secolo di vita, raccontata da Achille Meazzi nel volume “La Cordigliera bagnata dal Po” (2021). Nato sull’onda del successo che la nueva canción chilena – in primis gli Inti-Illimani – e la musica “andina” riscuotevano in quel momento di entusiasmo politico e culturale nei confronti del mondo latinoamericano, Cordigliera appartiene dunque alla più o meno vasta famiglia di gruppi musicali di base sorti a partire dagli anni 70 per interpretare quei repertori. La stessa famiglia, almeno alle origini, da cui provengono Trencito de los Andes e altri progetti anch’essi di corso piuttosto lungo, come il gruppo romano Chiloe, i veneziani Cantolibre o i torinesi Umami, tra gli altri.
Nel 1985, Cordigliera fu tra i primi in quel contesto a consegnare al vinile il frutto di un proprio lavoro creativo, nella musica e nei testi, con l’LP “Meteore”, influenzato dai moduli espressivi dell’ensemble cileno Quilapayún nell’assetto degli anni 80. “Meteore” ricevette all’epoca una lusinghiera recensione su “Hi, Folks!”, firmata da Ezio Guaitamacchi.
Dalla metà degli anni Novanta l’esistenza di Cordigliera si è rarefatta, mentre i suoi fondatori – Achille Meazzi e Massimo Fervari – davano vita ad Aksak project esplorando altri orizzonti dell’etnicità sonora con “Trebisonda" (2017)
e
“Argonauti” (2022)
).
Nel tempo si sono comunque susseguite varie reunion del gruppo “madre”, fino a quella più recente, del 2023, con uno spettacolo dedicato alla figura del cantautore e martire Víctor Jara, presentato in occasione del cinquantesimo anniversario del golpe cileno. Da questo progetto nasce anche il disco “Icónicas”, composto di dodici tracce di repertorio, pensate – recita il booklet – come “la nostra tracklist del cuore, quella che ha accompagnato, nel tempo, la nostra avventura umana e musicale”.
Si tratta, in effetti, di una selezione di brani decisamente “classici” della Nueva Canción Chilena, in arrangiamenti che riprendono più o meno da vicino le versioni di riferimento dalla discografia di Inti-Illimani e Quilapayún. Un’operazione, quindi, che sembra contenere in principio poche novità per l’ascoltatore, essendo il suo scopo primario quello di un tributo, o di un documento del proprio vissuto.
In realtà, non è esattamente così. Se è vero che alcuni di questi temi possono suonare déjà-vu a un pubblico italiano agée, come i temi andini di “Ramis” e “Papel de plata”, la celeberrima “Alturas” (di Horacio Salinas), “La partida”, “Luchín” o “El aparecido” (tutte tre di Víctor Jara), tutti brani della discografia italiana degli Inti-Illimani; è anche però probabile che altre tracce, riprese dalla discografia dei Quilapayún, risultino meno familiari delle precedenti a quello stesso pubblico. Si tratta di Titicaca (rielaborazione di una melodia tradizionale peruviana), Machu Picchu e Sonatina (pezzi strumentali creati dai Quilapayún), “Plegaria a un labrador” (canzone manifesto di Victor Jara). Ancora dal repertorio dei Quilapayún provengono “Arriba en la cordillera” – canzone “incunabolo” della nueva canción chilena, tra le più celebri del cantautore Patricio Manns – e la bella “Luz negra”, di Eduardo Carrasco, direttore musicale dei Quilapayún. Entrambe le canzoni, inedite nella discografia italiana dell’epoca e quindi pressoché sconosciute qui da noi.
Come dicevamo, le versioni proposte riprendono da vicino i modelli di riferimento: “Inti” e “Quila”. Ascoltiamo i flauti di pan andini “iconici” protagonisti in “Ramis”, “Alturas” e “Titicaca”. In “Sonatina” apprezziamo il modello contrappuntistico dei flauti (quenas) inaugurato dal compositore accademico Luis Advis, con tensioni armoniche di marca tardoromantica, un modulo che divenne un marchio sonoro della NCCh. La tensione drammatica delle quenas ritorna in “Arriba en la cordillera”, dove il gruppo cremonese affronta anche un arrangiamento vocale complesso, con parti solistiche (Massimo Fervari) e cori atmosferici e contrappuntati. L’impegno canoro è ribadito nella vocalità epica di “Plegaria a un labrador” e nella tenera canzone “Luchín”. Quest’ultimo brano rappresenta un momento più libero rispetto al modello, con la presenza solistica della voce femminile (Eliana Piazzi) e alcuni interventi dei flauti non presenti nelle versioni di riferimento (Jara e Inti-Illimani).
Nel complesso, rispetto agli “originali” notiamo la presenza diffusa e costante del basso elettrico, che i Cordigliera mutuarono già negli anni ’80 dalla “fusion” folk-rock dei Quilapayún, e che qui applicano estesamente in tutte le tracce del disco. Il gusto per una sonorità piena è confermato anche dall’introduzione o dal raddoppio di parti di altri strumenti, come il tiple colombiano, le chitarre e – come visto – i flauti. Se in generale ne risulta una sonorità più densa e omogenea, va detto che strumenti e voci risultano comunque sempre chiari e ben leggibili.
Gli interpreti sono qui nella formazione “storica” dell’ensemble degli anni Ottanta: i polistrumentisti e vocalisti Massimo Fervari, Achille Meazzi, Paolo Bertelè, Eliana Piazzi, Antonio Arcari e Fabio Monciardini, con il nuovo apporto del giovane percussionista Eduardo Amedeo Meazzi. Il disco è autoprodotto da Cordigliera, con la collaborazione di CrArT, Cremona Arte e Teatro. Sono “fatti in casa” anche il progetto grafico a cura di Achille Meazzi, che da sempre disegna le cover dei suoi dischi (in Cordigliera come in Aksaks project), e l’intera produzione audio, dalla registrazione al missaggio, a cura di Antonio Arcari.
L’album può essere ordinato attraverso i canali social del gruppo o scrivendo a cordigliera76@gmasil.com.
In conclusione, “Icónicas” è un album che non vuole proporre cose nuove e inaudite, ma rappresenta un apprezzabile tributo ad una grande tradizione musicale, che merita di essere riproposta all’ascolto. Allo stesso tempo, documenta la solida fedeltà dai suoi interpreti ad un ideale sonoro, estetico, ma anche etico, che ha segnato la loro prima formazione artistica e umana. Un oggetto di buona fattura e di piacevole ascolto, che si inserisce bene nella più ampia tensione alla riproposta e attualizzazione delle culture e sottoculture degli anni Settanta, con tutto il loro straordinario fermento.
Stefano Gavagnin
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