A sessantadue anni Femi unisce passato e presente in questo “viaggio attraverso la vita” in cui propone nuovi arrangiamenti di vecchie canzoni e nuove composizioni. Fin dal brano che da il titolo e apre l’album, la straripante energia del suo gruppo è immediatamente percepibile e resa leggibile dal progressivo inserimento degli strumenti: prima batteria e percussioni a scandire il marchio di fabbrica afrobeat; poi l’ampia paletta sonora delle tastiere sull’incalzante linea di basso; e quindi la sezione fiati con i suoi riff a preparare l’entrata della voce e dei cori. Poi, quando senti che con questo ritmo potresti ballare per ore, l’ennesimo stacco di batteria e percussioni chiude il brano prima che raggiunga i quattro minuti: è uno dei marchi di fabbrica che distingue Femi dal padre Fela, la volontà di smarcare le registrazioni dalle versioni dal vivo, offrendo dieci canzoni per album (invece dei tradizionali due-tre brani fiume).
Ma il legame con i genitori rimane fortissimo e lo testimonia la continuità nel testimoniare i problemi della Nigeria: in “Chop And Run” il ritmo si fa più rilassato rispetto al brano d'apertura e sull’intenso intrecciarsi delle linee melodiche del coro e dei fiati c’è spazio per legare le crisi del presente ai ricordi legati a Fela Kuti e alla famigerata incursione del 1977 nella Repubblica di Kalakuta durante la quali i militari causarono lesioni così gravi alla nonna di Femi da provocarne la morte. Le loro foto non potevano mancare fra quelle, numerose, raccolte nella copertina dell’album, a colori e in bianco e nero. L’aspra critica ai politici nigeriani prosegue con “After 24 Years”, registrato nel 2023, sorta di cronaca che riprende la storia recente da dove l’aveva lasciata il suo brano del 1998 “Sorry Sorry”. Al cuore dei problemi stanno le pratiche corruttive e quindi
non poteva mancare una delle sue bandiere, la canzone più estesa, oltre i sei minuti, “Corruption na Stealing", sintesi potente di ritmi e fiati afrobeat e di esplicita critica politica, la stessa che permea anche il successivo “Politics Don Expose Them", inno attivista basato sul più classico ed energetico “call & response” vocale. Il ritmo è già alto, ma ora diventa rito e “Shotan” si staglia al centro di questo rituale aumentando ancora velocità e intensità del tempo collettivo grazie a un ostinato di basso screziato dal colore cupo e psichedelico delle tastiere e dal groove incalzante di batteria, fiati e voci: già molto è stato detto, ora si fa spazio soprattutto alla musica, al senso di comunità e di unità che è capace di trasmettere. Il gruppo mantiene l’energia facendo andare a braccetto afrobeat e funk nella splendida “Oga doctor”, con echi soul anni ’70, ma, soprattutto, ennesimo esempio di come Femi Kuti sappia infondere nuova linfa ai suoi brani dei primi anni '90 offrendo lui stesso un’accesa performance vocale.
Gli ultimi tre brani continuano a fondere ballo e critica sociopolitica, lasciando per la prima volta spazio alla chitarra anche in veste solista in “Last Mugu” per poi riportare l’attenzione sulle voci e il testo della canzone in apertura e in chiusura di “Work on Myself" dove l’appello alla lotta e all'unità si unisce all’invito all'introspezione, a trovare la strada per saper trasformare ogni giorno sé stessi. Dopo undici album in studio, la straripante energia è ancora la stessa del debutto nel 1989 e le canzoni non si stancano di ripetere, come nel brano di chiusura, affrontato in modo corale: Think My People Think”.