Trencito De Los Andes & Il Laboratorio Delle Uova Quadre

Lungo il percorso, i Clemente hanno rimodulato più volte i parametri del loro approccio alle culture musicali andine: dapprima circoscritto all’andinità riflessa dei gruppi cileni (Inti-Illimani, Quilapayún, Illapu…) e di quelli latino-francesi (Los Incas, Los Calchakis…); poi via via allargato al caleidoscopio delle espressioni locali di un territorio vasto, multinazionale e multietnico, come è quello andino. Significativamente, in parallelo si è dato anche un altro riposizionamento, di natura identitaria. Se fino ad un certo momento, dice Felice, “tu eri sempre un anonimo portatore, coperto da un cappello in ombra, non si dovevano vedere i tuoi occhi, la fisionomia del tuo volto, perché tu eri solo un dito che indicava quel pianeta, ma non eri un individuo, [ad un certo punto] ci siamo proprio stufati di fare gli indios e siamo piano piano ritornati a essere felici di essere noi stessi, di essere italiani, della nostra cultura […]. Quindi, più penetravamo la loro, e più riscoprivamo anche la nostra. […] Approdando all’identità profonda di quella musica, allo stesso modo, ci siamo completamente riappropriati della nostra. In “Opera Selvaggia” per la prima volta noi abbiamo veramente parlato della nostra storia come un
valore a sé stante, senza altri motivi”. (Felice Clemente, intervista del 19.09.2019).
Il gruppo, che alla metà degli anni ‘80 nutriva forti ambizioni performative, come quella di ricreare sui  palcoscenici del folk nostrano musiche, danze e costumi tradizionali (così nei Folkest dell’epoca, per esempio), impegnando fino a 8-10 musicisti in scena, si è progressivamente trasformato in un raffinato laboratorio di home recording, guidato dai due fratelli, con la partecipazione di un circolo di amici e collaboratori: alcuni più o meno fissi (come Laura Grasso, moglie di Felice) o puntuali, come un quintetto d’archi, un gruppo di sicuris, il charanguista Horacio Durán (degli Inti-Illimani), e via dicendo. Un laboratorio domestico (con sede a Roma, e poi a Riano di Roma) in cui si sono “cucinati” ottimi dischi,
alcuni dei quali costituiscono oggi dei punti di riferimento per la comunità transnazionale del revivalismo andino. Fino a dare vita nel 2006 ad un nuovo organismo, denominato Il Laboratorio delle Uova Quadre, nome bizzarro derivato da un’avventura di Donald Duck,” Lost in the Andes” (1949), non priva di qualche venatura di critica post-coloniale ante litteram, nella quale il papero disneyano incontra una “città perduta degli incas”. Il Laboratorio si è dedicato, in quest’ultima ma ormai lunga fase, soprattutto alla ricreazione fonografica di specifiche esecuzioni di musiche – andine ma non solo – attraverso un procedimento di trascrizione fedele (denominata “partitura micronica”) e ricreazione su disco, con tecniche di spazializzazione del suono. Un lavoro accompagnato da una personale formulazione di principi estetici, che i Clemente illustrano nelle pagine web del loro progetto musicale.
Il recupero di una dimensione individuale, personale, autoriale, ha significato anche la proposta di un nuovo immaginario – sia sonoro sia visivo e testuale – nel quale si tengono per mano ricreazioni etnografiche e storie personali, ricordi di viaggio, di narrazioni infantili, di fumetti… Così ci appaiono in particolare “Opera Selvaggia”, doppio CD del 2009, e “Argento Vivo”, album del 2012. Le musiche composte o rivisitate da Raffaele sono affiancate dai testi di Felice (in italiano, spagnolo e quechua) e dalle sue opere grafiche e pittoriche, che illustrano copiosamente i libretti dei CD e le pagine digitali nel web.  
Purtroppo, la vicenda ha conosciuto una inattesa battuta d’arresto: lo scorso agosto, Raffaele Clemente, autore di tutte le musiche e arrangiamenti del laboratorio, è prematuramente mancato, lasciando a Felice il compito di preservare e soprattutto diffondere il lavoro svolto fin qui, per “fare in modo che questo Patrimonio Musicale arrivi a quanta più gente possibile”, operazione iniziata con la riproposta sui canali digitali degli album storici del gruppo, affiancata dalla progressiva pubblicazione di opere ancora inedite. 
Un’occasione per avvicinarci alla importante – per quantità e qualità – discografia del Trencito e del Laboratorio, e al tempo stesso per ripensare una grande cultura musicale che nel nostro paese è stata ascoltata e consumata troppo in fretta, liquidata a volte con giudizi ingenerosi, stereotipati, e in definitiva – diciamo la verità – soprattutto ignoranti, anche se pronunciati talvolta da oracoli prestigiosi.

Rassegna discografica
Nel corso della loro lunga parabola, Trencito de los Andes e la sua prosecuzione, Il Laboratorio delle Uova Quadre (ILDUQ,) hanno pubblicato 16 titoli, in vari formati fisici (CD, LP e musicassette, alcuni dei quali doppi, e nel caso di “Continente líquido”, addirittura un cofanetto di 5 CD, portando così il totale a 26 “unità” fisiche), cui vanno aggiunte, in tempi recenti, almeno altre 4 pubblicazioni in formato digitale smaterializzato. 
Una discografia di tutto rispetto, realizzata all’insegna di una pressoché totale autonomia, con la sola eccezione dell’album “La scoperta di Colombo”, ideato nell’entourage di Morricone, prodotto e registrato da Franco Patrignani, presso il Forum Studios di Roma, nel 1991. Per il resto, la discografia del Trencito e di ILDUQ è frutto di una produzione sostanzialmente indipendente dei due fratelli Clemente: Raffaele, per il versante musicale (composizione, trascrizione, arrangiamenti), e Felice, per quello testuale e visivo (testi delle canzoni e dei libretti, e più in generale tutto il tessuto connettivo verbale che lega assieme le musiche dei loro concept album, nonché la ricca iconografia). Dagli anni 90 in poi, i dischi sono stati registrati presso il Digital Inca’s Studio, vale a dire il laboratorio di home recording degli stessi Clemente. I quali ne sono anche, ovviamente, i principali interpreti di voci e strumenti: Raffaele, versatilissimo polistrumentista, e Felice, specializzato nei fiati andini. Li affiancano, volta per volta, gli altri componenti
delle diverse formazioni del Trencito - in particolare Laura Grasso, Paola Frondoni e Claude Ferrier - e poi un variegato circolo di collaboratori, più o meno ricorrenti od occasionali, a seconda delle caratteristiche del repertorio affrontato.
Questa sostanziale autonomia nelle produzioni, che potrebbe rappresentare un limite rispetto ai “potenti mezzi” di produttori più vicini al mainstream (forse soprattutto sul versante della distribuzione), è però alla base di un’operazione di raffinato artigianato fonografico, che permette agli autori di curare ogni singolo dettaglio (delle incisioni come della stampa dei libretti) senza pressioni esterne e senza quasi limiti di tempo. Ne risultano delle incisioni di ottima chiarezza e qualità aurale, sicuramente tra le migliori nella discografia andina, che però non hanno conosciuto un’adeguata distribuzione. Oggi sulla piattaforma digitale Bandcamp sono riproposti alcuni degli album storici più significativi del Trencito-ILDUQ accanto alle loro ultime pubblicazioni. È improponibile qui, per ragioni di spazio, ripercorrere l’intera discografia dei Clemente. Perciò preferisco soffermarmi su alcuni album, tra quelli reperibili su Bandcamp, provando a delineare un possibile percorso di ascolto. 
“Sortilèges des Andes”, un CD datato 1996 e riproposto sul canale online da quest’anno, costituisce una buona porta d’ingresso al variegato mondo musicale andino dei Clemente. In questo disco, il Trencito vuole far dialogare tra loro due anime della musica andina all’apparenza contrastanti: quella più “addomesticata” e commerciale, già nota al pubblico europeo degli anni 60 e 70, e quella più profonda e “autentica”, con la sua varietà di strumenti e stili locali, che i musicisti del Trencito avevano nel frattempo studiato e appreso. 
Ne risulta un’antologia di temi “classici” della musica andina cosmopolita (uno per tutti: “El condor pasa”), accostati alle loro “fonti” etnografiche o a musiche tradizionali legate ai medesimi contesti, ma anche a elaborazioni e invenzioni molto personali. Attorno a ognuno dei 10 brani “classici” proposti, i 
Clemente costruiscono dei dispositivi o “macchine”, il cui meccanismo non è mai ripetitivo, per invitare l’ascoltatore a interrogarsi sull’identità ambigua e sfuggente (ma alla fine ritenuta reale) del genere “andino”. Vediamone alcuni. Nel caso di “Papel de plata”, una canzone resa nota in Italia dagli Inti-Illimani (nel loro disco “Canto de pueblos andinos”, del 1975), si parte da una citazione fedele della traccia intillimaniana, a cui viene poi accostata una versione popolare boliviana, ripresa dal cantore e charanguista Alberto Bonny Terán, ed una etnografica, raccolta dai Clemente stessi nella comunità indigena dell’isola di Taquile, sul Lago Titicaca. Un altro tema reso popolare dagli Inti-Illimani, “Fiesta de San Benito”, presenta una diversa strategia: la versione mainstream non è citata esplicitamente, ma le sue supposte radici afroamericane vengono reinterpretate ed amplificate, con un’orchestrazione che fonde una banda di ottoni di ascendenza jazz (in realtà usuale anche nei contesti andini) con una base ritmica di samba brasiliano. 
Nella traccia dedicata al principe della musica andina “for export” – “El cóndor pasa” – la citazione letterale della più nota versione del gruppo parigino Los Incas (la stessa che costituisce la base della celeberrima cover di Simon & Garfunkel, del 1970), è contrapposta ad una seconda versione, orchestrata per un ensemble popolare di quenas, violini, arpa e batteria, tipico della città peruviana di Cuzco, l’orquestín cuzqueño. Dopo averlo rivestito di tali panni più autenticamente andini (non dimentichiamoci però che il tema, composto dal musicista peruviano Daniel Alomía Robles nel 1913, nasceva per l’orchestra sinfonica), i Clemente ripropongono il brano una terza volta, in forma parodistica: una marcia funebre per banda, dai tratti paesani e grotteschi, a suggellare la morte del Condor, pronto però a risorgere dall’uovo. “Kuntur runtu” (l’uovo del condor) è infatti il titolo del brano che segue: una composizione di 
Felice e Raffaele Clemente, che interpola vari temi folclorici andini, in una galoppata sonora nella quale sembra sprigionarsi l’energia liberata grazie alla simbolica “uccisione” di un mito musicale tanto intrigante quanto asfissiante.
L’operazione è accompagnata da un libretto ricco di informazioni estremamente puntuali su tutto il materiale musicale proposto, ma anche da immagini e da un ampio commento discorsivo, che costituisce un contrappunto testuale alla musica, evocando i diversi ambienti andini che le fanno da sfondo, intersecati con la memoria autobiografica dei musicisti, che qui svolgono chiaramente il ruolo di guide o intermediari tra l’universo andino e il pubblico occidentale.
Questo ruolo di “personaggi” sulla scena musicale da loro interpretata ritorna anche in altri album. In “Zig Zag”, doppio CD del 1993, per esempio, nel quale i musicisti del Trencito dialogano con il pubblico ecuadoriano, riversando nella musica e nelle canzoni la loro personale rappresentazione di quel paese andino, l’Ecuador, in cui intrecciano esperienze di vissuto reale e tratti immaginati. 
Ma soprattutto in “Opera selvaggia”, altro doppio CD, pensato dai Clemente come una summa del loro immaginario, non solo musicale, nella quale, attorno al filo conduttore della musica andina più tradizionale, si raccoglie un bagaglio diverso (da Guccini a Carole King e dalla Nueva Canción Chilena a Gino Paoli, passando per l’Africa e il Tibet). Un’opera difficile da condensare in una descrizione così densa di rappresentazioni e presenze simboliche che l’ascoltatore è sollecitato a interpretare (questa volta il libretto offre piste, ma quasi mai spiegazioni esplicite), e per molti versi spiazzante. Cosa ci fanno, per esempio, un canto del Massachusset del XIX secolo, “Battle cry of freedom”, o la figura di John Brown, interpolati al repertorio tradizionale e localissimo di flauti boliviani come il pinquillo e il moceño? In altri momenti, l'autobiografia tocca corde emotive profonde, come nella sequenza “Titicaca. Dancing with the Death”, in cui la musica si trasforma in capsula o macchina del tempo, per rievocare persone care scomparse.  Affresco plurilinguistico e pluristilistico, “pastiche”, a volte apparentemente caotico, ma pieno di dettagli non casuali, che si rivelano solo ad un ascolto attento e disponibile.
La piattaforma Bandcamp offre ancora altre porte per entrare in questo mondo sonoro allo stesso tempo filologico e atipico. Argento vivo, un CD del 2012, costituisce un altro esempio di rivisitazione in chiave personale di un repertorio andino, questa volta geograficamente circoscritto alle regioni del Nord-Ovest dell’Argentina. Oppure i due volumi intitolati “Overdrive” e “Overdrive 2”, nei quali vengono proposte versioni andine di musiche famose, come colonne sonore di film e simili. Una pratica comune nei gruppi andini di strada e nella loro discografia, che qui però, soprattutto nel secondo album, è sviluppata attraverso una contaminazione stilistica che, anziché banalizzare reciprocamente i materiali impiegati (come suole accadere in genere in queste operazioni), genera soluzioni musicali originali e raffinate.
Infine, tra le pubblicazioni più recenti (2023), si segnalano “Qena” e “Huahua”. La prima è una breve silloge di temi tradizionali e piuttosto noti del folklore andino, in versioni essenziali e rarefatte, per sole quenas (flauto andino dritto, privo di becco), il cui obiettivo sembra essere quello di spogliare la voce dello strumento dalle incrostazioni interpretative “moderne”, recuperando un'aura primordiale. La seconda contiene invece le musiche create o ricreate da Raffaele Clemente per la colonna sonora dell’omonimo film ecuadoriano (Huahua, di Yoshi Espinoza). Premesso che le vie dell’ascolto sono anch’esse infinite e imperscrutabili, si tratta a mio parere di lavori più godibili per un pubblico già “iniziato” alla frequentazione del mondo musicale andino, e dei Clemente in particolare.


Stefano Gavagnin

Immagini fornite da Felice M. Clemente.

1 Felice e Raffaele Clemente, con i costruttori di sicus Laureano e Serapio Mamani, durante il loro primo viaggio iniziatico nelle Ande (Alto de la Paz, Bolivia, 1986). 
2 Trencito de los Andes, a Roma nel 1987, nell’assetto di un “sicuri” peruviano di Conima (Puno, Titicaca).
3 Il Laboratorio delle Uova Quadre, in occasione di un concerto nella Basilica del Pi, Barcellona (31 maggio 2007). Da sinistra a destra: Raffaele Clemente, Laura Grasso, Maldi Gramal, Daniela Lorenz, Felice Clemente.
4 Il Laboratorio delle Uova Quadre in concerto (Ecuador, 2009)
5 Raffaele M. e Felice M. Clemente (Barcellona, 2007).

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