A chi appartengono la musica, le musiche? Patrimonio di un popolo, di una nazione, di un territorio? O di tutti e di ciascuno, senza limiti e confini, come suggeriscono i concetti, da un lato, di “musica universale” (che però suole coincidere solo con quella eurocolta, o del “Nord globale”) e, dall’altro, di world music? Questioni complesse e perfino insidiose. Anche se l’etnomusicologia e l’esperienza musicale transculturale negli ultimi decenni ci hanno, almeno in parte, resi consapevoli di alcuni pregiudizi, che però hanno radici profonde: la musica come linguaggio non verbale e perciò ipso facto universale, o, viceversa, le musiche – al plurale – come patrimonio etnico (per non dire razziale) esclusivo ed escludente. Altrimenti detto: Mozart parlerebbe a tutta l’umanità, senza bisogno di un “traduttore”, ma poi, chissà perché, un africano dovrebbe essere biologicamente programmato per suonare un tamburo…
All’incrocio di queste molteplici e contraddittorie rappresentazioni dell’identità musicale, si colloca il lavoro pluridecennale di due musicisti romani, i fratelli Raffaele Maria e Felice Maria Clemente, e dei progetti musicali da loro creati: il gruppo Trencito de los Andes e Il Laboratorio delle Uova Quadre (ILDUQ). La loro storia, iniziata alla metà degli anni ’70, si svolge all’insegna di un’incrollabile dedizione alla musica tradizionale e popolare delle Ande, di quella regione compresa tra l’Ecuador (a Nord) e le propaggini settentrionali del Cile e dell’Argentina (a Sud), e che ha il suo epicentro nelle alte terre del Perù e della Bolivia, attorno al grande lago Titicaca. Il loro obiettivo – forgiato con coerenza negli anni – è stato quello di “scoprire, esplorare ed espandere il patrimonio musicale andino”; vale a dire apprenderlo e assimilarlo in modo tale da conservarne intatto il carattere e, contemporaneamente, renderlo universalmente fruibile.
A quali risultati siano giunti, ce lo dice il fatto che la loro musica – composta da italiani in Italia – è stata recepita in alcuni luoghi delle Ande come “naturalmente” appartenente ad essi. È il caso di un loro doppio album degli anni ’90, “Zig Zag”, interamente dedicato ad una ricreazione personale di stili e tematiche (anche nei testi delle canzoni) proprie dell’Ecuador, e della cultura indigena degli Otavalo in particolare. A proposito di un brano dell’album, il sanjuanito “Latitud cero”, scrive il musicologo ecuadoriano Mario Godoy che esso “ebbe un successo inusitato, fu subito reinciso da gruppi ecuadoriani, ne apparvero nuove versioni strumentali, altre con testi diversi e – ciò che è più interessante – il popolo ecuadoriano lo recepì come proprio, ‘molto andino’, ecuadoriano”. Ma è sufficiente, all’occasione, chiedere a qualche ecuadoriano di Otavalo e Imbabura per constatare come molti di loro siano cresciuti ascoltando “Zig Zag”, e come quella musica sia amata e sentita come “tradizionale”.
Anche in altri contesti andini, la musica di Raffaele e Felice Clemente è entrata nei repertori canonici. Ad esempio, in quello dei sicuris metropolitani, centri (contro)culturali che ricreano nelle metropoli (da Lima a Buenos Aires, da Barcellona a San Francisco) le pratiche delle bande di flauti di pan andini. Non è mancata qualche frizione con altre rappresentazioni del campo musicale andino, suscitando reazioni di difesa patrimoniale e accuse di neocolonialismo, in accesi dibattiti sui social e sulla stampa locale. Un fatto che comunque conferma la rilevanza della presenza di questi outsider sulla scena musicale andina (che, detto per inciso, cozza con la loro quasi totale invisibilità su quella italiana). Trasculturalità, dunque, e trasferibilità dell’esperienza musicale “etnica” a soggetti esterni ad una cultura, ad una tradizione? Sì, ma – avvertono i Clemente nella loro copiosa produzione di testi sui social, a commento della loro stessa
produzione musicale – solo a patto di calarsi all’interno di quella musica, di quel linguaggio, fino a comprenderne ed assimilarne la grammatica.
Altrimenti, il rischio è quello di parlare una sorta di “grammelot” dell’andino, qualcosa che ci somiglia solo molto vagamente. Un percorso lungo e impegnativo, che i due musicisti romani hanno portato avanti apprendendo a conoscere e riprodurre con rigore e proprietà (oltre che con felicità interpretativa) stili esecutivi regionali e locali, a volte andando a rispolverare generi non più vigenti, recuperati da registrazioni etnografiche e storiche e così riproposti sulla scena revivalista locale.
Proviamo allora a ripercorrere brevemente la lunga vicenda dei due fratelli. Si avvicinano ancora preadolescenti alla musica andina, come tanti altri ragazzi italiani in quegli anni, attorno alla metà degli anni ’70, sull’onda del grande successo degli Inti-Illimani, esuli dopo il colpo di Stato in Cile del settembre 1973. Rimangono estranei al discorso politico, spesso associato a quei territori musicali, ma subiscono profondamente il fascino delle nuove sonorità. Come altri italiani (ed europei) scoprono poi anche l’esistenza di un più vasto continente sonoro andino, grazie all’incontro con la cosiddetta “musica autoctona” (qualcuno ricorderà il gruppo Bolivia Manta, o Los Ruphay, per esempio) e, da lì, la scelta di dedicarsi professionalmente a esplorare e interpretare quel mondo, assieme ad altri compagni di strada,
europei e latinoamericani. Dalle peregrinazioni come busker per le strade d’Europa in compagnia di andini doc, all’esecuzione dei flauti di Pan sotto la bacchetta di Ennio Morricone (negli anni 90), passando per i viaggi iniziatici nelle Ande, e lasciando una nutrita scia di produzioni discografiche di qualità, in cui si alternano o si intrecciano “ricalchi” etnografici di brani tradizionali, arrangiamenti e rielaborazioni del repertorio andino, nuove composizioni in stile, fino a “capricci” all’insegna di un sorprendente eclettismo culturale.
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