Massimiliano Larocca – Dàimōn (Santeria Records/La Chute Dischi/Audioglobe, 2023)

Il percorso artistico compiuto da Massimiliano Larocca negli ultimi anni è stato all’insegna del rinnovarsi costantemente, spinto da una tensione costante verso la ricerca sia dal punto di vista poetico che musicale. Determinante in questo senso sono stati certamente sia la scommessa vinta nell’allontanarsi dai territori della roots music declinata in chiave italiana, sia l’incontro con il musicista e produttore australiano Hugo Race e ciò gli ha consentito certamente di far emergere a pieno tutte le sfumature liriche del suo songwriting. Significativo in questo senso era stato certamente “Exit/Enfer” con i suoi chiaroscuri introspettivi, i risvolti autobiografici e un sound che esaltava a pieno l’espressività della sua voce. Sulla medesima scia si pone il recente “Dàimōn”, splendido album che prosegue il cammino intrapreso con il precedente, ma allo stesso tempo ci svela il progetto più ampio di una trilogia che si configura come una sorta di viaggio al termine della notte, un racconto in dieci canzoni che, ricollegandosi al mito di Er raccontato da Platone ne “La Repubblica”, ruota intorno ad una profonda riflessione sul destino individuale e i disegni che ad esso soggiacciono, mentre dallo sfondo si staglia il contrasto che nasce con quel dèmone/angelo, il “compagno segreto” che segue il nostro cammino. Dal punto di vista musicale, l’album si muove attraverso ambientazioni sonore differenti che vanno dalla canzone d’autore al dark blues, passando per spaccati cinematografici, il tutto impreziosito dall’utilizzo di synth, elettronica, groove avvolgenti e chitarre. Abbiamo intervistato il cantautore fiorentino per farci raccontare questa nuovo lavoro discografico che, a buon diritto, può essere definito il suo album della maturità artistica.

Sono trascorsi quattro anni da "Exit I Enfer" e il nuovo album "Dàimōn" segna una nuova svolta nel tuo percorso artistico. Insomma, nell'arco di vent'anni di attività artistica sei riuscito sistematicamente a non ripeterti mai, ma anzi a esplorare in ognuno nuovi territori nell'ambito del songwriting. Come si è evoluto in questi anni la tua ricerca compositiva?
Diciamo che ho cercato nel tempo di estendere i limiti del far canzone, ampliandone la struttura e la sintassi utilizzando forme e ispirazioni che ho raccolto in anni di ascolti che definirei "extra-genere" - jazz e musica da film sopra tutti. Ma anche la letteratura è stata come sempre fonte di ispirazione, e non solo da un punto di vista lirico: "The waste land" di T.S. Eliot oltre che poeticamente ha avuto grossa influenza anche nella scrittura musicale e nell'idea strutturale e tematica del disco. La canzone è un'arte davvero totale, come lo può essere il cinema. Si tratta di conoscerne la morfologia, di non proporne letture unidimensionali come ne sentiamo purtroppo sempre più frequentemente. A livello di scrittura quello che accomuna i miei ultimi due album è il fatto che ho abbandonato la scrittura da storyteller per un approccio poetico più rapsodico, visionario, utilizzando quello che potremo definire un "metodo mitico" di matrice Eliot/Joyce: abbattendo quindi un senso lineare del tempo e le associazioni immediate di senso. È una tipologia di canzone nella quale ognuno può trovare la propria strada senza essere necessariamente chiamato alla condivisione ideale e morale che la scrittura "classica" presuppone: mi ero sinceramente stancato di questo tipo di dinamica con l'ascoltatore.

Quanto è stato determinante l'incontro e la collaborazione con Hugo Race?
Lo è stata per i motivi detti sopra. Hugo è un artista che ha sempre spaziato indifferentemente tra rock, sperimentazione, filmica, destrutturando in musica molto per creare nuove sintassi. E' il ruolo che la sua generazione - quella della punk/wave di fine anni Settanta - si è preso sulle spalle, senza dimenticare però la grande Scrittura della generazione precedente. Quella di Dylan, Lee Hazlewood, Lou Reed. Solo chi conosce profondamente la Storia può farne macerie.
Per lavorare con lui è stato necessario che "rompessi" le mie categorie musicali, tanto nella scrittura quanto nell'interpretazione. Era una condizione ineluttabile affinchè questa collaborazione fruttasse al massimo, come credo sia avvenuto nel precedente album e - credo ancora meglio - nel nuovo "Dàimōn". Ecco, per me mettermi "in crisi" da musicista e da compositore è diventata una necessità a cui non posso più rinunciare ogni qual volta inizio un nuovo progetto.
 
I tuoi riferimenti musicali non sono mai cambiati, ma sei riuscito a declinare le influenze che caratterizzano il tuo stile in una chiave sempre diversa e soprattutto sei riuscito a mantenere una tua riconoscibilità nell'approccio vocale e nella scrittura. Come hai lavorato in questo senso?
Credo sia un processo di "osmosi" musicale totalmente inconsapevole, che si alimenta con gli ascolti e soprattutto con le collaborazioni. Io ho avuto la grande fortuna di collaborare con alcuni artisti che
ammiravo sin da ragazzo - Massimo Bubola, Nada, Riccardo Tesi per arrivare a Howe Gelb e Hugo appunto - e sono fonti a cui ho attinto a piene mani, senza dimenticare che mi stavo confrontando con degli "originali" in senso assoluto e che quindi quella era la chiave che dovevo perseguire. Arrivato a quasi 50 anni e al mio settimo album sento di poter dire di aver creato una mia cifra personale, ed è il mio più prezioso risultato artistico, ben aldilà dei dischi e delle canzoni.

La lettura de "La Repubblica" di Platone ha rappresentato una delle ispirazioni alla base di "Dàimōn". Quanto c'è di biografico in questo disco? Quali riflessioni, quali elementi introspettivi pervadono queste nuove canzoni?
Il disco ha un impianto doppio. Da una parte ci sono i riferimenti di cui non facciamo mistero: dal mondo antico alla psicanalisi, da Platone al "Codice dell'anima" di Hillman. Dal Mito al Contemporaneo, esattamente come nella "Waste Land" di Eliot che ti menzionavo prima. Dall'altra il piano autobiografico, che ruota attorno al rapporto con questo Daimon personale, ovvero il custode dell'immagine (e del destino conseguente) che la nostra anima ha scelto per noi ben prima che comparissimo in questa particolare contigenza spazio-temporale. E' un dialogo difficile quello col proprio daimon, è soprattutto è un percorso a ritroso, all'indietro, che è la sintesi delle nostre vite. Ecco perchè questo disco parla una lingua non lineare, frammentaria, che procede per immagini sfuocate, visioni, libere associazioni, linguaggio sacro e linguaggio mitico: nessun significato, tanti significanti. E' la lingua dell'Anima.

"Non saremo più gli stessi" sembra fare eco a quello che si diceva nei giorni della pandemia. "Domani saremo tutti migliori", "Torneremo ad abbracciarci", probabilmente quelle erano solo illusioni. Al contrario siamo tutti peggiori e la nostra stessa vita è peggiorata. E' un amara riflessione?
"Non saremo più gli stessi" è una canzone che parla di trasformazione.  Nello specifico di quanto l'amore, il rapporto con l'Altro, il rapporto col Mistero che vi soggiace ci chiamino a rinunciare alle certezze, alla propria immagine di noi stessi, a quello che in psicanalisi viene dopo l' "Es". Certamente possiamo darne una lettura più legata alle vicende recenti.  E di fatto uno dei temi che attraversano questo disco è quello del rapporto con l'"invisibile". Ovvero il rapporto tra la nostra Società, il nostro Tempo e il Mistero che è presente nelle nostre vite: l'Amore, la Morte, il Bene, il Male. Ebbene, a me pare che nella società dell'algoritmo e della iper-realtà il rapporto col Mistero, coi misteri presenti nelle nostre vite, sia totalmente negato o rimosso. E il tempo pandemico ce lo ha dimostrato. Nell'antica Grecia per spiegare il Male si interrogava l'Oracolo, senza avere risposte ma solo ulteriori domande. La nostra società non ha risposte perchè non si pone domande, non ha Oracoli perchè non ha più monti a cui ascendere. Ecco da dove parte il "concept" del disco: il daimon di cui voglio parlare è questo, inteso come rapporto con ciò che non conosciamo pur essendo la parte più "reale" di noi

Tra i brani più emblematici ci sono "Fatale" e "La banlieue", come sono nate?
Anche queste sono due canzoni che lavorano su più livelli. "Fatale" potrebbe anche essere semplicemente
una canzone d'amore in duetto anni Sessanta col ritornellone nel quale - come in tutte le relazioni d'amore - i ruoli di vittima e carnefice si confondono. Ugualmente "La Banlieue" mischia temi personali, analitici con aspetti sociali. Ma sono entrambe - se lette sotto altre prospettive, se "attraversate" facendo altri tipi di associazioni - canzoni che parlano del nostro Contemporaneo, che sia presente o passato imperfetto. L'idea di utilizzare accanto all'italiano due lingue "altre" (inglese e francese) è proprio per aumentare il senso distopico e ampliare le possibilità di senso e di lettura della canzone, oltre che per estenderne il significato universale. Come ti dicevo in apertura: la scrittura di questo disco è stata davvero fatta "a strati", spesso smontando due canzoni diverse per farne solo una, creando delle sorte di cut-up che era metodo di scrittura che la Beat Generation - e Burroughs sopra tutti - usavano costantemente.

C'è un brano del disco a cui ti senti maggiormente legato?
"Giorni di Alcione", che è il mio atto di amore per Nick Drake, Tim Buckley, John Martyn, Tim Hardin. I miei adorati visionari folk. Ma lo è anche perchè racchiude, con le liriche forse più semplici del disco intero, tutto il cuore di questo progetto. I cosiddetti "giorni di Alcione" erano nell'antica Grecia le giornate di sole nel cuore dell'inverno.

Dal punto di vista musicale quali sono i punti di contatto e le sostanziali differenze rispetto ai precedenti dischi?
"Dàimōn" si collega al precedente "Exit / Enfer" in quanto secondo capitolo di una trilogia prevista assieme a Hugo. E lo fa sia tematicamente che musicalmente. A livello di concept mentre "Exit" rappresentava il viaggio nell'Ade, "Dàimōn" è la terra di mezzo, il passaggio dal mondo sommerso a quella emerso, dalle tenebre alla luce. Anche musicalmente abbiamo cercato di suggerirlo: mentre il primo album aveva un sound molto scuro, condito da un uso dell'elettronica molto dark, in "Daimon" affiorano i primi spiragli di luce, c'è maggior respiro e anche per questo è un disco che per il 70% è stato registrato dal vivo, proprio per creare quei vuoti, quei silenzi che nella musica sono sempre un elemento nello spartito globale. E poi c'è la voce femminile di Federica Ottombrino, che direi è l'elemento caratterizzante e più forte di questo disco, che lo differenzia da tutta la mia produzione precedente.
 
Come avete lavorato con Hugo Race agli arrangiamenti?
Ci sono state due fasi. Nella prima - che si è svolta nello studio analogico "L'amor mio non muore" di Forlì - si è svolto tutto spontaneamente, abbiamo chiamato a raccolta i musicisti e abbiamo semplicemente suonato dal vivo i pezzi, creando la struttura di ogni pezzo. La volontà era proprio questa, rispetto al disco precedente, di avere un maggior senso di "band" e di performance. Per la parte di post- produzione ci siamo spostati a Torre del Lago, su uno studio allestito su una moderna barca in mezzo al Lago che fu anche di Puccini. E qui è entrata in gioco l'altra figura produttiva del disco, Nicola Baronti. Che oltre a
curare il progetto della Puccini Floating Academy ha dato un grandissimo apporto creativo nel rifinire e nell'allargare il significato dei brani con un notevole lavoro sulle tastiere, sugli archi e più in generale sulla creazione degli ambienti larghi che in questo disco sono davvero degni di nota, a mio avviso. Nicola è diventata di fatto la terza mente dietro a questo progetto. Un ottimo lavoro di team

Quanto è stato determinante nella definizione del suono il contributo degli strumentisti che ti hanno affiancato in questo lavoro?
Mi sono avvalso - come sempre negli ultimi dieci anni del resto - della "scuola romagnola", come mi piace chiamarla. Una vera e propria "wrecking crew" che oltre agli abituali (per i miei dischi) Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli, stavolta ha visto anche coinvolti Roberto Villa, Franco Beat Naddei e Giacomo Toni. Non c'è niente da fare, per me il rigore orchestrale e lo swing che hanno loro sono impagabili e francamente faccio fatica a pensare di poter lavorare altrove alla mia musica.

Da dove è nata la scelta di tre copertine differenti per il disco?
Questo è il terzo album nel quale Enrico Pantani ha realizzato la parte iconografica. Enrico è uno degli artisti del momento - e non lo dico io, ma un certo Gipi. Ho chiesto ad Enrico di lavorare sull'arte toscana del '400, ma anche sulle icone russe che piacciono molto ad entrambi. Il materiale che ha prodotto era così bello che diventava impossibile scegliere una singola immagine. Da qui è nata l'idea - che per fortuna è piaciuta anche a Simone Rossi e Nicola Vannini della Santeria Records - di realizzare tre copertine diverse, per chiamare anche il pubblico acquirente ad una scelta: scegli la copertina che ti piace di più per
scegliere l'immagine che più ti rappresenta - quello sarà il tuo Daimon.

Stai portando in tour il disco. Com'è stato accolto dal pubblico?
Innanzitutto, dopo gli anni del lockdown c'era da capire se là fuori un "pubblico" esistesse ancora.
Anche perchè il "pubblico" a cui artisti come noi possono rivolgersi deve essere alimentato da curiosità, dedizione, ricerca per arrivare a dischi come "Daimon", assieme a molti altri bellissimi progetti che vivono nell'underground. Devo dire che ho nelle prime date a ruota dell'uscita del disco ho trovato una nuova vitalità, una nuova umanità oltre che nuovi luoghi dediti alla promozione della vera musica dal vivo. E' stata una scoperta rincuorante, e ovviamente anche il disco ne ha beneficiato sotto tutti i punti di vista.

Concludendo Cosa deve aspettarsi il pubblico, per chi non ha ancora visto il nuovo live con cui promozioni "Dàimōn”?
Sangue, sudore, lacrime. E grande eleganza, ovviamente.


Salvatore Esposito


Massimiliano Larocca – Dàimōn (Santeria Records/La Chute Dischi/Audioglobe, 2023)
A quattro anni dall’ottimo “Exit/Enfer” torna il cantautore Massimiliano Larocca con un nuovo lavoro Intitolato "Dàimon".  Una collezione di canzoni che si ricollegano al mito di Er (raccontato da Platone ne "La Repubblica") e alla ricerca di un destino individuale col disegno/immagine che a esso soggiace.  Il disco è uscito con tre cover diverse, illustrate da Enrico Pantani e in queste dieci tracce Larocca rinnova la felice collaborazione con Hugo Race, che ha curato la produzione artistica e gli arrangiamenti insieme a Nicola Baronti.  Virate di soul tratteggiano l’iniziale “Non saremo più gli stessi” (“Tu che conosci il mio limite e le modalità del visibile, l'ineluttabile appare da una terrazza sul mare, senti alla porta il mio odore, stringi tra i denti il sapore, oltre la soglia sensibile”) dove la voce di Larocca si intreccia a quella di Federica Ottombrino, arpeggi di chitarra acustica e fraseggi di synth polverosi sottolineano “La banlieue” (“Che dirti da questi quartieri nemici? Di nuvole assorte, di tagli improvvisi, non so se ricordi o se sono esistito, quand’ero un sicario, il tuo preferito”) con la strofa parlata e il ritornello in francese.  Echi di Leonard Cohen e Nick Cave si colgono nell’oscura “Fatale”, un violoncello accarezza l'atmosfera acustica di “Giorni di Alcione” (“Piume d'uccello, ali di seta, giorni di Alcione fatti di creta, Giove tiranno, Giove in Ariete, cadono i pesci dentro la rete”). Un groove di basso, percussioni e tastiere ipnotiche colorano la claustrofobica “Leviatano” (“Ruba i tuoi pensieri, mormora l’inganno, parla da profeta, piange da tiranno, si confonde al sangue, striscia sulla mano, sale dalle bolge, ecco il Leviatano”), la lingua inglese scandisce intensamente “The Love of the Senses”, con un bell'impasto tra chitarre elettriche, synth e archi. 
In “L’abbandono” (“E in ogni paradiso c'è un margine di ignoto, cedere all’oblio in un fiore di loto, ali attorno ai polsi e arriva l'abbandono”) ritorna la chitarra acustica con arpeggi intriganti, “Nessun perduto amore” (“Nessun perduto amore che venga alla finestra, a togliere i costumi e i nastri della festa, è scritto su un quaderno a lettere cangianti, di tutte le stagioni, con tutte le varianti, l'estate ti sorprese seduto alla fermata, di qualche migrazione, di un'ultima crociata”) è una bossa-nova sporcata dalla chitarra acida di Don Antonio Gramentieri. “L’ora invisibile” (“Battono le ore, sangue e poi sudore, dietro la pianura l'alba si fa scura e il treno delle sei è il mostro in fondo alla notte, ancora ti vorrei, ma ho venduto all'asta le tue scarpe rotte”) è una dolce ballata pennellata da chitarra acustica, violino e pianoforte, in chiusura troviamo “Cul-de-sac” (“Tutto brucia nell'attesa, brucia il volto di Tiresia e cambiano i segni, come le carte e i tarocchi, acqua dolce che è passata su una terra desolata, nelle cantine, tra le rovine”) tra slide, synth e  i controcanti della Ottombrino, che hanno accompagnato tutto il disco. Larocca si conferma un ottimo autore, forte di una scrittura onirica, visionaria, colta e mai banale. Gli arrangiamenti rivestono di classe la sua voce calda, avvolgente, corposa e che scuote forti vibrazioni. Un lavoro ricercato, di contagiosa bellezza. Bentornato!


Marco Sonaglia

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