
Nell’arco di quindici anni di carriera come si è evoluto il tuo approccio al songwriting?
La scrittura è stata, e lo è ancora, il mio maggior terreno di sperimentazione, come e forse più della musica stessa. Ho iniziato come storyteller sulla scia del primo Bob Dylan e Bruce Springsteen, ho piegato poi la scrittura verso le rivisitazioni storiche e letterarie nei progetti su Giordano Bruno (che è ancora inedito) e Dino Campana, fino ad utilizzarla anche nei laboratori con i ragazzi diversamente abili con la collaborazione di Nada, Cristina Donà, Basile, Bobo Rondelli ed altri maestri. Una lunga ricerca che credo con l'ultimo disco sia arrivata ad una forma che per me in questo momento è la più soddisfacente che potessi aspettarmi. "Exit I Enfer" ha una scrittura molto stratificata che può avere molti piani di lettura diversi, che unisce memorie personali a fatti e contingenze storiche in una sorta di lungo flusso di coscienza che attraversa tutte le 11 canzoni del disco.
Dal punto di vista musicale ci puoi ripercorrere il percorso che da “Il ritorno delle passioni” ti ha condotto a “Exit I Enfer”?
Ho pubblicato sei album, ognuno dei quali aveva una precisa idea sonora alla base che, tuttavia, non sempre si è realizzata per come la pensavo - ed in particolare mi riferisco ai miei primi due album - ma che è sempre stata chiara e parallela alla storia che volevo raccontare. "Il ritorno delle passioni" e "La breve estate" sono album ingenui ma con ottime canzoni dentro che volevano inseguire un suono classico di canzone d'autore italiana inserendo elementi "colti" di musica popolare. Barnetti Bros Band era ovviamente il nostro disco di "Americana" che aveva anche un aspetto direi antropologico nell'idea di andare a registrare il disco in New Mexico, dove tutto l'immaginario di quelle canzoni era nato. Con gli ultimi tre album, invece, credo di avere progressivamente messo sempre più a fuoco il lavoro globale che unisce narrazione, produzione, timbri e arrangiamenti anche grazie ai collaboratori che mi sono scelto di volta in volta, che nell'ordine sono Antonio Gramentieri, Riccardo Tesi e nell'ultimo disco Hugo Race. Nello specifico: con Gramentieri abbiamo realizzato in "Qualcuno stanotte" del 2014 un album metropolitano, molto legato a Lou Reed ma anche al sound delle grandi band americane come E-Street Band o Heartbreakers. "Un mistero di sogni avverati" era la realizzazione del mio grande amore per la poesia di Dino Campana, progetto nel quale per dare luce alle liriche campaniane mi sono affiancato un altro grande toscano, Riccardo Tesi, dando al disco quella cifra al contempo classica e contemporanea che era insita anche nei "Canti Orfici". "Exit I Enfer" è da questo punto di vista il progetto più ambizioso e riuscito.
Da un punto di vista musicale con Hugo abbiamo riascoltato a lungo quelle che secondo noi sono state le vere eccellenze italiane in termini di suono e produzione, ovvero Morricone, Reverberi e tutta quella scuola di arrangiatori che costruivano scenari orchestrali bellissimi attorno alla voce del cantante confidenziale, fossero essi i vari Tenco, Endrigo, Bindi. Senza la pretesa di ricreare un suono orchestrale, abbiamo però mantenuto lo spunto più importante: la voce da "crooner" in primo piano, e un mondo sonoro molto ampio e profondo che gli si muove attorno. Un suono che io definirei da primissime ore del mattino, in uno stato di dormiveglia - o per citare uno dei miei dischi preferiti di Sinatra: "In the wee small hours of the morning". Con molti innesti elettronici, sempre discreti ma efficaci. Da un punto di vista personale queste canzoni raccontano per buona parte quelli che sono stati i miei piccoli o grandi "inferni" quotidiani degli ultimi anni: c'è una sofferenza che vive sottopelle a queste canzoni, ma anche un senso di rinascita forte. Il disco - e il titolo - suggeriscono quindi un percorso fuori "da dentro", attraverso undici canzoni molto intime e dolorose.
Com’è nata la collaborazione con Hugo Race e quanto è stata determinante per la riuscita sonora del disco?
Con Hugo c'è innanzitutto una lunga amicizia fraterna. Non solo: anche la conoscenza da parte sua di buona parte dei fatti personali che hanno dato vita alle canzoni del disco. Sono canzoni che avrei potuto mettere in mano solo a persone che hanno una reale confidenza con me. Oltre a ciò Hugo è, come sappiamo tutti, un musicista straordinario con una visione sonora in continua espansione ma che rimane sempre riconoscibilissima.

Come si è indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento dei brani? Musicalmente è una vera e propria rivoluzione per te...
Abbiamo messo da parte il rock, le chitarre elettriche, abbiamo rimosso quasi integralmente le chitarre acustiche. In definitiva tutti i punti di riferimento che potevano far pensare ad un disco di un cantautore rock sono stati tolti. Se vuoi parlare di un salto, di un rischio o di una rivoluzione, io sottolineerei soprattutto questa scelta. Hugo ha lavorato sulla voce, sulle timbriche, sull'elettronica e le orchestrazioni. Credo che il risultato finale sia molto originale e in totale controtendenza rispetto a quanto si senta oggi, anche nelle migliori produzioni.
Ci puoi presentare gli altri musicisti coinvolti nel disco?
Questo è il terzo disco consecutivo che ha come ossatura il trio base dei Sacri Cuori - "Don" Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e Checco Giampaoli - seppur utilizzato stavolta in un contesto molto diverso. Direi che oltre a Hugo - che nel disco suona molti strumenti diversi - i contributi più importanti vengono da Enrico Gabrielli, che ad oggi è certamente uno dei musicisti italiani più richiesti al mondo. Enrico ha arrangiato (e suonato) tutte le parti fiatistiche, e ha dato qualche altro apporto sparso con una musicalità che mi ha davvero impressionato. Talento puro. A cui si aggiunge Howe Gelb, che credo non abbia bisogno di presentazioni.

Luci ed ombre, amore e morte, vertigini ed abissi. Questo è un disco intessuto tra opposti che collidono e aperture visionaria della tua scrittura. Ci puoi raccontare la genesi dei brani?
Fatta eccezione per due brani, le restanti canzoni sono tutte scritte in un arco di tempo di tre, quattro anni. Non ho vergogna nel dire che la scrittura è stata davvero la forma migliore di auto-terapia per me. Per molti anni mi sono sempre occupato di fare Arte, di raccontare le migliori storie nel miglio modo possibile, spesso forzando sulla forma e sui contenuti. E' ciò che ogni buon narratore è chiamato a fare in ogni ambito, sia esso cinema, letteratura o musica. Ma su queste canzoni è stata la vita ad avere il sopravvento, si sono spesso scritte da sole, prendendo una forma autonoma e non stabilita. Anzi, molte di queste canzoni sono rimaste e sono state messe su disco nella loro originale e unica forma, ad esempio lasciando parti scritte in italiano e in inglese all'interno dello stesso brano. Era il significante ciò che mi interessava, più che i significati in sé. Che se ci pensi è il esattamente il modo emozionale, casuale, intuitivo nel quale si srotolano le nostre vite. Nessuna deduzione, nessuna premessa o conclusione. Sono canzoni scritte in una linea molto sottile, che non si fanno carico di grandi valori o di grandi temi, c'è solo una nuda verità personale. Che in quanto tale può essere certamente di tutti.
Quali sono i brani a cui sei più legato?

Uno dei vertici del disco è certamente il primo singolo “Cose che cambiano”. Come nasce questo brano?
La versione che sentiamo su disco è lontanissima da quella originale, che è invece una ballata scritta con la stessa accordatura aperta usata da Nick Drake in "Pink Moon". Ci siamo presi tutti i rischi nel trasformarlo in un brano urban con un groove molto moderno e anche nel farne il primo singolo dell'album.
Ero curioso di conosce la genesi de “Il giardino dei salici”?
Ho scritto questa canzone addirittura nel 2000, quindi quasi vent'anni fa. Era nascosta da qualche parte, ed è magicamente riapparsa. Il giardino dei salici è il luogo dove il viaggio interiore di questo disco inizia simbolicamente, e dove si presume possa finire in una totale rinascita.
Altro brano intrigante dell’album è “Si chiamava Lulù”. Cosa ti ha ispirato questo brano?
Una storia personale prima di tutto. O più semplicemente: una relazione andata male, o forse mai nata. Poi è diventata un piccolo short-movie che si svolge in una sola notte in una stanza di un imprecisato albergo in un imprecisato luogo. E' di fatto una delle due uniche canzoni a carattere narrativo del disco, ed è curioso che in entrambe le protagoniste siano due figure femminili.
In “Fin du monde” compare alla voce Howe Gelb. Ci puoi parlare di questo brano?
Racchiude con un accento moto ironico - certamente l'unico momento leggero del disco - quella che possiamo considerare la morale del disco. Ovvero: vi stiamo forse raccontando la fine del mondo, ma in fondo possiamo sempre ballarci su. C'è un omaggio neanche troppo celato a Leonard Cohen sia nell'arrangiamento che nell'idea di farsi profeti di una apocalisse grottesca. Ed è anche il motivo stesso per il quale Howe compare: quale brano migliore per un grande dissacratore come lui?
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Quello immediato è quello di dar maggiore risalto possibile a questo album, al quale tengo moltissimo. Cercare di dargli una vita "biologica" il più lunga possibile, in questi tempi dove la musica è consumata molto rapidamente e dove dopo tre o quattro mesi un disco sembra aver esaurito la propria possibilità di interessare le persone e di stare in circolo a lungo. Per chi come me si prende lunghi periodi per realizzare un album è una battaglia da portare avanti, è impensabile realizzare un disco ogni anno o ogni due anni. Nel contempo sto pensando ad un progetto che mi porto dietro da quasi dieci anni e che ancora non ho terminato e pubblicato, ovvero il ciclo di canzoni ispirate alla vita e alle teorie di Giordano Bruno. Magari tra due o tre anni è la volta buona, chissà. Ma sono lento, lentissimo. E soprattutto molto pigro.
Massimiliano Larocca – Exit I Enfer (Santeria Records/Audioglobe, 2019)

Salvatore Esposito
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Storie di Cantautori