
Il tuo nuovo album “Qualcuno Stanotte” arriva a sei anni di distanza dal tuo secondo disco “La Breve Estate”, nel mezzo però non sei stato fermo, ma anzi hai dato vita a progetti importanti come “Barnetti Bros.” con Massimo Bubola, Jono Manson e Andrea Parodi, e “The Dreamers” con Riccardo Tesi ed Erriquez. Ci puoi parlare di questi progetti paralleli?
Sono stati due progetti importanti e formativi. Soprattutto perché hanno segnato una cesura per me, un "prima" e un "dopo", e sono stati preludio a questo nuovo progetto, a questa nuova avventura con i Sacri Cuori. Tanto l’esperienza con i Barnetti quanto quella di The Dreamers mi hanno fatto comprendere come il fare musica, il fare dischi non potrà più prescindere dal concepirli in maniera progettuale, con un percorso e una storia ben precisi ogni volta. Prendendomi tutto il tempo necessario tra un'opera e l'altra, come è stato nel caso di questi sei anni anni intercorsi dalla pubblicazione de “La Breve Estate”. Barnetti è stata una grande avventura, un film di Peckinpah che è diventato un disco, e ha chiuso quella che io considero la "fase uno" della mia carriera. "The dreamers", invece è un importante progetto con ragazzi diversamente abili, che per primo ha un po’ cambiato le mie categorie musicali e non solo.

La premessa è che con Antonio Gramentieri ci conoscevamo da quasi dieci anni. Ma i rispettivi percorsi erano, all'epoca, molto lontani per poter pensare ad un incontro; anche perché ognuno aveva da mettere a fuoco le proprie cose. Dopo i Barnetti ero arrivato al capolinea di un certo percorso, tanto nella scrittura quanto nelle soluzioni musicali, ed aspettavo un'illuminazione, un'idea, una progettualità che mi ridesse la spinta pur continuando a scrivere e a fare concerti. L'idea di lavorare con Sacri Cuori si è affacciata lentamente, ed a un certo punto mi è sembrato quasi naturale proporre loro questa collaborazione perchè li stavo seguendo da tempo, stavo sviscerando certi dischi e certi suoni e soprattutto l'idea di musica non solo come insieme di melodie, suoni e versi ma anche come ambiente. Questa cosa per me era una categoria totalmente nuova, mentre per Gramentieri era una chiave ricorrente di lavoro. Inoltre ciò che mi affascinava di più dei Sacri Cuori era la loro identità di organismo musicale poliforme, dove si lavora su un certo suono, su certe dinamiche a prescindere da chi siano i primattori. Era incuriosito dall'incontro, dal confronto con loro e sapevo che per me sarebbe stato un approccio totalmente nuovo al fare dischi, come una reazione chimica incontrollata.
Dall’idea iniziale è arrivato poi il momento di passare all’azione. Come si sono svolte le sessions?
Le registrazioni si sono svolte nella maniera più spontanea, e rapida possibile, e questo è un fatto del tutto nuovo per me. Ho portato ad Antonio le canzoni e abbiamo iniziato semplicemente a suonarle, poco dopo eravamo già in pista per registrare. Ho visto le canzoni prendere forma da sole, non nascere pian piano a pezzetti come spesso accade nella maggioranza delle produzioni di casa nostra. Il processo è stato talmente rapido e spontaneo che nell'ultimo giorno in studio ci siamo trovati con Gramentieri a scrivere insieme una piccola ballata acustica di due minuti, che è il brano che conclude il disco. Un episodio che ancora di più mi fa dire che questo disco è "accaduto", semplicemente. E che proprio per questo suona, e suonerà molto a lungo credo, sempre fresco e pulsante alle mie orecchie. Ha un margine in entrata e in uscita, qualcosa di istantaneo e se vogliamo anche incompiuto che lo rende vivo. Credo che se in Sacri Cuori, e in Gramentieri sopra tutti, c'è una magia sia proprio questo: creare questa zona intermedia, questo margine di non detto, dove la musica può ancora accadere tutta.

Questo è un altro taglio voluto col passato, con un linguaggio che conoscevo e che ritengo di aver già usato a sufficienza. Il mio primo album era folk puro, "La Breve Estate" invece si poneva giusto a cavallo col rock, mentre con "Chupadero!" abbiamo celebrato il nostro amore per i suoni del border e non solo. Queste nuove canzoni, e soprattutto le mie voglie mi spingevano verso suoni più torbidi, cinematici, di ambiente appunto. In questo senso i Sacri Cuori sono degli specialisti, nel creare certe profondità, nel dilatare e punteggiare i chiari e gli scuri in musica. Avevo in mano storie e canzoni che avevano bisogno di queste zone d'ombra anche perché in buona parte ambientati in città vere o presunte e con storie, anche personali, molto forti.
Altra sostanziale differenza, è l’aver messo un po’ da parte le atmosfere roots a favore di un profilo più vicino alla canzone d’autore...
L'ibrido che viene fuori da questo disco credo sia qualcosa di unico a suo modo, visto che la risultante sonora e stilistica credo poggi il piede un po’ in ogni ambito: nella canzone d'autore certo, nella roots music, ma anche in qualche inclinazione indie, e basterebbe l'utilizzo di certi sintetizzatori oggi usati con cognizioni di causa variabili a giustificare la mia affermazione.
Non vorrei categorizzare troppo questo disco: si sono incontrati un autore e una band, ognuno con le proprie specifiche, e questo credo già faccia categoria a parte. Riguardo alla roots music: è una realtà, quella del cosiddetto roots rock italiano, che a me iniziava ad apparire un po’ costretta in cliché e stereotipi, condannata in ogni caso ad essere succursale degli americani. Con Barnetti il tentativo era di dare una spallata, mischiando le carte e i linguaggi, cantando in italiano e cercando antropologicamente un incontro credibile tra Italia e border USA. Direi che con “Chupadero” si è fatto il massimo, per quanto mi riguarda, attraversando il roots americano senza essere provinciali e mantenendo fede alla propria identità. Era insomma tempo di voltare pagina.
Cercando una definizione esaustiva e un minimo comune denominatore per le canzoni del disco, le definirei molto semplicemente canzoni di amore e di salvezza, che attingono tanto dal piano mio personale quanto dall'osservazione della realtà e dei tempi che viviamo. Sono storie di solitudini, personaggi in cerca di un riparo, di un appiglio, di una qualsiasi forma di amore che salvi le loro vite se non per sempre, almeno per qualche ora. Con uno scenario urbano di fondo che diventa esso stesso personaggio, uno sfondo magmatico e misterioso che avvolge le varie storie narrate. E' un disco che ha, come sempre accade nei miei album, una "letteratura" di genere come riferimento, in questo caso posso citare i film noir americani degli anni Quaranta e Cinquanta, l'hard-boiled, ma anche il neorealismo italiano, le periferie narrate da Pier Paolo Pasolini e la grande provincia di Pier Vittorio Tondelli. A questo si aggiungono anche i miei racconti del quartiere in cui sono cresciuto e qualche confessione sentimentale, cosa assolutamente inedita per me finora. In fondo, a me piace definire la musica con cui sono cresciuto rock "romantico", e certe cose riaffiorano sempre.
Uno dei brani più intensi del disco è l’iniziale “Angelina”. Ci puoi parlare di questo brano?
“Angelina” è uno dei tanti personaggi femminili di questo disco. Quella che considero la mia vera maturità artistica è quella di aver capito che nelle canzoni le donne sono un soggetto assai più interessante e mutevole di cui parlare. Angelina non esiste, è un personaggio letterario: nella prima scena è la classica femme fatale che pensa di potere non cedere ai sentimenti mai, ma poi è proprio l'amore a farla capitolare. In questo è estremamente umana e attuale. Il tutto espresso con un rock'n'roll che a un riff alla Clash unisce dei fiati r'n'b.

Qui diventa un blues psicotico, indifferente, dove la motricità statica del brano vuole restituire la meccanicità della vita lavorativa. Che fa da contrasto al messaggio, al grido del protagonista, che è una rivendicazione di autonomia e di identità che solo il Lavoro può darti. In tempi in cui, da venti anni a questa parte, c'è stato un attacco frontale dei poteri forti alle conquiste e ai diritti fondamentali legati al mondo del lavoro.
Chi sono i “Magnifici Perdenti”? Come nasce questo brano?
Aldilà del richiamo a certa letteratura rock, i magnifici perdenti sono l'umanità precaria di oggi: precaria nella vita, nel lavoro e soprattutto in amore, specialmente nel mondo giovanile.
E' quindi una sorta di canzone generazionale, però atipica, perché priva di parole roboanti e proclami ma piuttosto con un filo di disillusione e realismo. Certo la lunga coda strumentale alla fine forse suggerisce che l'uscita, da qualche parte, c'è.
Cosa ti ha ispirato invece il magnifico spooken word “Strade Perdute”?
Le ispirazioni vengono da vissuto e dall’immaginazione insime. Un amore lungo una vita o una sola, breve estate. E poi un treno, da lasciar passare o da prendere, con tutte le conseguenze sulla vita di due, o più, persone. Due immagini, ed è già un film.
In realtà ha un tono più leggero solo perché tratta di un preciso periodo della vita, l'adolescenza. Dove però gli urti e le "sconfitte" fanno più rumore che mai, e ti risuonano dentro per sempre. E' una traduzione/adattamento di una canzone minore dei Gaslight Anthem, band che ha recuperato una certa forma di innocenza del rock. Abbiamo preso l'originale e l'abbiamo piegato in una chiave più cantautoriale e legata al nostro immaginario. L'adolescenza è un momento affascinante: ci si sente in grado di fare grandi promesse senza sentirsi mai, nemmeno per un secondo, dei gran bugiardi.
"Città degli Angeli” si caratterizza per una scrittura dal taglio cinematografico. Cosa ti ha ispirato questo brano?
Il sottotitolo di questa canzone è significativo: "una visione metropolitana di Firenze".
Volevo scrivere una canzone sulla mia città, ma l'unico modo per farlo era trasfigurarla, renderla quello che non sarà mai: una grande metropoli cosmopolita. A questo ho aggiunto i ricordi e i personaggi del quartiere in cui sono cresciuto, Rifredi, alla periferia nord della città, negli anni Ottanta in cui l'eroina era una grande piaga sociale giovanile, specialmente in zone come quella in cui vivevo. Crescevo vedendo questi ragazzi bucarsi davanti a casa mia, accovacciati tra due macchine parcheggiate. Immagini che rivedevo a letto, di notte, quando chiudevo gli occhi, e che mi impedivano di dormire. Per scacciare la paura mi dicevo che quei ragazzi erano angeli, angeli che dormivano di giorno e uscivano solo a notte fonda in cerca della luce.
Concludendo quali sono i tuoi progetti futuri?
Concerti, ovviamente, ma oltre a tutto ciò che è strettamente connesso al disco nuovo, direi proseguire questo percorso di progettualità in musica: aspetterò fino alla prossima "illuminazione" prima di rimettermi al lavoro su un disco nuovo. Un paio di idee ce l'ho già in verità, me le sto portando dietro da anni e forse sono mature per venire fuori: due opere dedicate rispettivamente a Dino Campana e a Giordano Bruno.
Massimiliano Larocca - Qualcuno Stanotte (Brutture Moderne/Audioglobe, 2014)

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