Vincenzo Zitello – Graal (Telenn, 2024)

Gli album di Vincenzo Zitello si muovono sempre su due livelli, uno prettamente musicale che lo porta costantemente ad esplorare con la sua arpa nuovi territori sonori e possibilità espressive, l’altro è, invece, squisitamente concettuale, avendo la sua scrittura una potente forza evocativa nel raccontare storie, disvelare archetipi e leggende dimenticate, ma soprattutto una intensità affabulativa immaginifica. Negli ultimi anni abbiamo avuto, infatti, modo di lasciarci guidare alla riscoperta dell’Antica Sapienza con album come “Infinito” del 2014 e “Metamorphose XII” del 2017, della mistica degli Arcani Maggiori dei Tarocchi con “Anima Mundi” del 2020, del corpus di simboli che caratterizzava i bestiaria medioevali con “Mostri e Prodigi” del 2021 e delle fascinazioni esoteriche legate alla rosa con il più recente “Le Voci della Rosa”. A due anni di distanza da quest’ultimo, lo ritroviamo con “Graal”, album nel quale si intrecciano il ciclo epico legato a Re Artù e le leggende che avvolgono il Sacro Graal. Non potevamo, dunque, lasciarci sfuggire l’occasione per intervistare Vincenzo Zitello per farci raccontare questa nuova avventura musicale.

Ad un anno di distanza da "Le voci della rosa" legato alle diverse simbologie della rosa, torni con "Graal", un concept album in cui rileggi in musica il Sacro Graal, un altro simbolo che racchiude un grande insieme di leggende e di significati, non tutti legati al ciclo aturiano. Com'è nata l'idea di realizzare questo disco?
Era da tempo che pensavo ad un album collegato al mondo bretone e alla sua cultura, sentivo il desiderio di ringraziare e raccontarmi attraverso tutte quelle impressioni ricevute in tanti anni di frequentazioni e amicizie legate a quel mondo.  In particolare,  mi sono domandato cosa è rimasto in me di quella forza, che tanto ha segnato i miei inizi con l’utilizzo dell’arpa.  Non ti nascondo che la prima idea era di utilizzare solo brani della tradizione bretone, ma poi mi sono detto che già molto era stato fatto in quella direzione e che non aveva senso in questo periodo fare un album tradizionale. Ho, così, ribaltato il mio punto di vista, andando nella direzione opposta, scrivendo musiche contemporanee che però mi permettessero di rispecchiarmi e ritrovare impressioni  personali, collegate alla antica tradizione celtica e alla sua simbologia che tanto mi sono care. Nel Graal ho sempre trovato uno spazio sacro, libero anche dalla religione istituzionale e più legato alla bellezza della natura, nel quale mi sono sempre ritrovato. La musica è una questione di conoscenza, si esprime ciò che si è e ciò che si ha, in questo caso è stato necessario per  confrontarmi con un tema storico importante come il Graal, di un ascolto chiarificatore in relazione alla mia vita e spiritualità. Quello che desidero è portare chi l’ascolta in un luogo, una casa o un bosco, dove si ritrovi per conoscersi o ritrovarsi.    

Dal punto di vista compositivo come si è indirizzato il tuo lavoro di trasposizione in musica del Graal?
Ho visualizzato i personaggi di questo viaggio, li ho posizionati in uno spazio immateriale  fatto di impressioni e immagini, una specie di memoria collettiva, ma anche  personale, poi ho cercato il suono che li evocasse alla mia memoria. La saga arturiana mi accompagna da quando avevo otto anni.  Per fare questa immersione interiore all’inizio ho utilizzando solo l’arpa celtica, creando dodici brani che mi hanno permesso di vedere lo spazio, il suono e la direzione dell’ambientazione, ho ascoltato quel lato più legato al mondo celtico che c’è in me. Molti brani iniziano solo con l’arpa: una scelta che evidenzia uno stile da cantastorie, la melodia identifica il personaggio rappresentato e il clima emotivo, la scelta della strumentazione è magicamente conseguenziale.

Ci puoi raccontare come hai lavorato agli arrangiamenti?
Più che arrangiamenti li chiamerei piccole sonorizzazioni cameristiche, gli strumenti sono infatti suonati come un ensemble cameristico. Come sempre sono partito dall’arpa poi ho suonato gli archi, la viola, il violoncello e i violini, poi ho aggiunto gli strumenti a fiato, flauti, clarinetti e  altri  strumenti etnici come baghèt, Santoor, salterio ad arco, così da dare “il carattere”. Terminata questa parte che ha centrato il disegno sonoro, ho chiamato gli amici che stimo da sempre: Fulvio Renzi al violino solista, Giovanna Barbati al violoncello solista, Laura Garampazzi alla tromba e all’euphonium solista, Raffaele Rinciari ai rintocchi di pianoforte nel brano “Graal”, Luciano Monceri alla Nikelharpa, Mario Arcari all’oboe d’amore, Daniele Bicego al flauto irlandese e quattro percussionisti: Gianfranco Dadda, Glen Velez, Simone Colzani e Vicki Ferrara.

Quali sono le identità e le differenze di questo nuovo album rispetto ai tuoi ultimi dischi?
“Mostri e Prodigi’’ è nato durante la pandemia e ha una struttura di otto brani che raccontano attraverso il bestiario medioevale la voglia di evadere da un mondo che vuole imprigionare l’amore. I brani de “Le voci della rosa’’ sono stati costruiti attraverso una funzione poetica per poi essere liberata in suono e ho utilizzato per tutto l’album l’arpa con le corde in metallo. Entrambi sono nati con un progetto anche letterario che ho pensato con la saggista Elisabetta Motta. Parallelamente alla pubblicazione di questi due album, sono usciti anche due libri dallo stesso titolo entrambi curati da Elisabetta Motta e pubblicati da Pendragon, che ci hanno permesso poi di presentare i lavori con la formula, molto accattivante per il pubblico, di concerti poetici. “Graal”, invece, è un racconto fatto da un menestrello in parte bardo e in parte druido, un testimone dei drammi umani, che combatte per non dimenticare che ci si può  liberare dalle bruttezze del mondo, che abbiamo tutti sotto agli occhi, e dalla tragicità della vita. Con “Graal” ho cercato una pausa costruttiva di buoni sentimenti. Come dice un amico poeta “In  alto i cuori!”. 

Quanto è stato importante il contributo degli ospiti nella definizione del suono?
È sempre  importante confrontarsi. Chi è invitato a partecipare sente il progetto anche suo, il contributo porta sempre una novità e dinamizza il pensiero creativo in atto, rafforzandolo in una nuova direzione. Se il contributo è ben centrato, amplia la chiarezza della comunicazione e definisce meglio il disegno emotivo. Credo che le collaborazioni avute su “Graal” siano importanti e la cosa molto bella è stata la condivisione e il confronto che si è venuto a creare. 

Nel disco ritrovi Gianfranco D'Adda con il quale hai condiviso la collaborazione con Franco Battiato...
Gianfranco Dadda è un fratello e un amico: ci conosciamo dagli anni Settanta, abbiamo fatto anche tour con Franco Battiato e partecipato anche ad alcuni concerti estemporanei e di ricerca. Ultimamente abbiamo creato un concerto omaggio a Battiato, dove riproponevamo alcune situazioni sonore e sperimentali e performative degli anni Settanta. Assieme a Gianfranco c’erano altri amici musicisti: Viky Ferrara,  Fulvio Renzi, Pierangelo Pandiscia  e la Danzatrice Elena Lago. Insieme abbiamo fatto un concerto performativo dal titolo ‘’Il Mistico Ribelle’’. Dopo quell’esperienza ho deciso di invitare Gianfranco D’Adda nell’album, per  la sua energia e sono certo che ci saranno altre collaborazioni future

Durante l'ascolto quello che è emerge è come la tua scrittura e gli arrangiamenti abbiano un tratto cinematografico, immaginifico. Come sei riuscito a creare queste atmosfere, così evocative?
Sembra strano ma “Graal”  è  “scaturito” (non riesco a trovare un altro verbo per indicarne l’atto creativo)
molto naturalmente. Concordo sul “cinematografico” perché è stato talmente chiaro il processo che lo considero una visione sonora. Il tema del Graal è molto inflazionato tra libri, serie tv e cartoni animati; pertanto, ho voluto allontanarmi dall’idea stereotipata del “Graal”, cercando una relazione tra chi ascolta semplicemente e chi cerca dentro di sé. Credo che questo album sia piacevole nell’ascolto ma aiuti anche a riconciliare chi è in cerca di una sua visione. 

Quali accorgimenti tecnici hai utilizzato in fase di registrazione?
Cose  semplici, partendo dalla mia esperienza in anni di studi di registrazione. Tutto incomincia da come posizioni i microfoni, ho utilizzato un solo tipo di reverbero, e registro con Protools, non ci sono movimenti di volumi nel missaggio, tutto è suonato con l’intenzione e le dinamiche naturali. Questo processo è comune a tutti i miei album, occorre pensare bene come arrangiare, che  strumenti usare e non farsi troppi problemi nel togliere se le cose non suonano bene.

Come si evolverà il disco sul palco. Come sono i concerti in cui presenti questo disco?
Non mi preoccupo mai di rifare un album dal vivo, ci vuole uno budget troppo alto. Suonerò alcuni brani in una versione strumentale diversa, l’importante è il tema che deve essere riconoscibile. I miei concerti sono spesso con le due arpe e talvolta con Fulvio Renzi ai violini. Cerco di creare uno spazio in cui il
pubblico si può trovare in una dimensione unica: è da anni che faccio così e tutto funziona magicamente benissimo.

Quali saranno le prossime traiettorie del tuo percorso di ricerca musicale? Realizzerai prima o poi il progetto di un disco di musica elettronica al quale stai lavorando da un po’?
Sono più di nove anni che sto studiando i Sinth modulari, sicuramente appariranno presto, il ho già usati  in qualche situazione e in progetti performativi, legati alla danza e alle immagini fotografiche. Mi piace contestualizzare l’elettronica sonora come tavolozza per l’utilizzo e la fusione con strumenti acustici, non mi piace che simuli strumenti veri, l’elettronica per me deve essere un materiale sonoro astratto che evochi sonorità inesistenti.

Come mai hai deciso di realizzare una versione doppia del disco, con una versione per sola arpa?
È una pubblicazione che si può trovare solo su apple music: una chicca per amatori di sola arpa, l’ho pubblicato solo li, in modo che si possa  ascoltare una dimensione più arcaica del “Graal” e fare e un tuffo nelle radici dell’Album e del mondo arpistico.


Salvatore Esposito

Vincenzo Zitello – Graal (Telenn, 2024)
Questo concept album dell’arpista Vincenzo Zitello è l’esplorazione di un doppio luogo dell’anima, la Bretagna arturiana – ricomposta in musica in una cornice che racchiude i tratti dello studio e della devozione – e la sua Bretagna, attraversata e assorbita negli anni, grazie anche all’amico e maestro Alan Stivell. Una ricostruzione non filologica (ne siamo lontani) ma piuttosto metafisica, nella quale l’artista di origini modenesi si (e ovviamente ci) trasporta, attraverso un assetto piacevolmente visionario e astratto, nel grande ciclo bretone, nel girone infinito di un passato fantastico, illuminante, saggio, ricolmo di dignità a tratti severa e (anche per questo) innegabilmente concreta. Come si ricorda nell’intervista, qui non si tratta di rappresentare ciò che è, allo stesso tempo, irrappresentabile e trasfigurabile in mille modi differenti. Si tratta piuttosto di ricondurre un ciclo narrativo a un’interpretazione che somiglia molto – ne siamo entusiasti e grati a questo straordinario polistrumentista – a una ricognizione allucinata. Vale a dire a un programma che prevede una traiettoria almeno bifronte, una specie di specchio: un’esplorazione che, in egual misura, fa leva sull’esperienza e sull’immaginazione. Insomma, non una cosa da poco, soprattutto se, entrando nell’album, si inforcano tutte le meraviglie di cui è composto e che – tanto per descriverle con immediatezza – sono egregiamente ricondotte ad alcuni elementi fondamentali, che ne caratterizzano l’assetto in modo chiaro e inamovibile: l’ampiezza delle melodie, la leggerezza delle forme definite dall’arpa di Zitello e dagli strumenti dei musicisti che lo affiancano, l’andamento delicato e la ritmica raffinata, elaborata, mistica, decisa. Intorno a questi vi è un elemento più grande: la capacità di attendere il momento assoluto per rimarcare una voce, per ripristinare il silenzio, per regolare la dinamica esatta e determinare il passaggio da uno stadio all’altro (si potrebbe dire dall’esplorazione all’allucinazione, seguendo il ragionamento di prima). Al termine di questo ciclo, il significato diviene pieno, perfetto. Immaginiamo ora questi elementi come frammenti di un dialogo, o meglio come elementi fonemici di un linguaggio: ognuno si distingue dall’altro (nasce autonomo), ma nella sequenza che li incorpora assumono un senso preciso, che determina la lingua astratta di questo album, il suo carattere profondo e composito. In questo quadro gli elementi si esprimono seguendo un flusso esatto, indiscutibile e quasi percepibile, che viene generato nell’evocazione di immagini scelte (basta leggere i titoli dei brani: “Morgana”, “Le querce di Broceliande”, “Avalon” ecc.), dal procedere di un racconto placido in uno spazio totemico. Questo termine, “placido”, ci sembra proprio quello giusto, forse l’unico capace di rappresentare la consistenza di “Graal”. Come si legge nei dizionari, indica serenità, momentanea o permanente, che può ricondursi anche a uno stato di riposante quiete. Placido, nella sua stessa morfologia, trattiene una morbidezza seducente, incastonata in una sequenza magica di consonanti addolcite, fluide, fluenti. In piena corrispondenza con l’immagine di un’immersione lenta, morbidamente adagiata sulle corde di un’arpa celtica.


Daniele Cestellini

Posta un commento

Nuova Vecchia