Vincenzo Zitello – Anima Mundi (Telenn, 2019)


Non ha bisogno di presentazioni, Vincenzo Zitello in quanto a parlare è il suo lungo percorso artistico costellato di prestigiose collaborazioni internazionali e intrecci con la canzone d’autore al fianco di Franco Battiato ed Ivano Fossati, ma soprattutto mettere in fila una corposa discografia di dischi a suo nome. Nel corso degli anni, il suo approccio stilistico all’arpa celtica è diventato sempre più riconoscibile, così come l’eclettismo che da sempre lo contraddistingue gli ha consentito di approcciare strumenti e tecniche musicali differenti. In parallelo, il suo background classico e la capacità di imprimere alla musica una profonda tensione evocativa, lo hanno condotto ad esplorare sentieri nuovi dal punto di vista compositivo, come dimostrano gli ultimi album “Infinito” e “Metamorphose XII” nei quali le suggestioni nordiche incontravano i suoni del Mediterraneo, aprendo ad inattesi risvolti simbolici in ogni traccia. In occasione della pubblicazione di “Anima Mundi” abbiamo incontrato Vincenzo Zitello a Roma, a margine di un concerto con il progetto “The Magic Door”, per farci raccontare la gestazione di questo nuovo lavoro, dedicato agli Arcani Maggiori dei Tarocchi, soffermandoci sulle ispirazioni e il processo creativo alla base dei brani principali.

Com’è nata l’idea di realizzare un disco sugli Arcani Maggiori dei Tarocchi?
L'idea è nata molti anni fa nei miei percorsi mentali. Conoscevo i Tarocchi da quando ero ragazzo, ma non li avevo mai frequentato, se non in modo molto superficiale. La vera folgorazione è arrivata quattro anni fa, quando un amico mi ha regalato "La via dei Tarocchi" di Alejandro Jodorowsky. 
Mi hanno colpito non tanto le sue spiegazioni antropologiche che trovo - in parte soggettive – ma piuttosto le parti poetiche in cui fa parlare l’arcano come nel caso de “La Morte”, dove c’è un vero e proprio insegnamento di vita da rileggere continuamente. Successivamente, un altro amico mi parlò del libro "I Tarocchi Contemplativi" di P. D. Ouspensky, dei surrealisti e mi fece tutto un collegamento che mi affascinò molto. Quando, però, introducevo questo discorso notavo che i miei interlocutori finivano per buttarla sempre sulla cialtroneria. L’argomento però mi affascinava e soprattutto mi consentiva una grande libertà interpretativa e, così, ho cominciato a comporre i vari brani seguendo l’ordine delle carte.

Il titolo “Animamudi" evoca in qualche modo Giordano Bruno...
Inizialmente si sarebbe dovuta intitolare "Arcani", però, mi piaceva l'idea che in qualche modo rimandasse alla carta del Matto nel cui fardello c'è il Mondo. L’anima che potrebbe non essere sotto controllo e il mondo. Si è sempre di fronte a questo dilemma. Siamo collegati spiritualmente, ma poggiamo sul mondo. I tarocchi non li vedo in modo divinatorio ma, per me, rappresentano qualcosa di introspettivo e molto personale. L'anima del mondo è qualcosa che si vede a proprio modo. Il mio lavoro è stato quello di interpretare ed entrare dentro al significato di ogni carta.

Ci puoi raccontare le fasi realizzative del disco?
Il disco è nato in diciannove giorni e ho impiegato in tutto ventuno giorni per realizzarlo perché poi ho dovuto ritoccare alcuni brani. In alcuni casi, ho inciso due brani in un giorno e questo anche sulla spinta creativa, nata dalla lettura del libro di Jodorowsky. Tutti i brani durano al massimo tre minuti e questa è stata una scelta precisa dettata dall’esigenza di evocare l’effetto immediato che una immagine ha su di noi. Volevo che il disco avesse questa successione incalzante perché su una carta non si può meditare per troppo tempo, bisogna coglierne l’essenza archetipica.

Nelle note di copertina del disco descrivi le due fasi realizzative del disco. Nella prima parte hai composto ed inciso in solitaria, poi hai arricchito tutto con gli ospiti nella seconda fase...
Inizialmente i brani erano nati per sola arpa, ma poi mi sono accorto che avevano bisogno di alcuni colori affinché risaltassero al massimo le immagini che evocavano. Non era possibile immaginare i tarocchi in bianco e nero, così nella seconda fase ho aggiunto altri strumenti, scelti accuratamente affinché imprimessero ai brani una particolare atmosfera. Ho scelto tutti gli strumenti che andavano a sottolineare certi aspetti e in questo modo si creano dei dialoghi che compiono tutta la forma strumentale ed evocativa del disco. Ho suonato oltre venticinque strumenti ma ovviamente non contemporaneamente. Per esempio, ho usato i cromorni del Quattrocento ed in particolare ho suonato il modello disegnato da Leonardo da Vici che vi aveva aggiunto tappo che ne cambiava il nome in cornamuto e così anche il suono. Ho suonato il santoor iraniano che è uno strumento a corde e martelletti tra i più antichi al mondo, la lama sonora che suonato in un certo modo sembra una voce. L’unico strumento che mi mancava era il contrabbasso e l’amico che doveva venire a suonarlo era impegnato. Così, ho deciso di ricomprarlo perché quello che avevo lo avevo dato ad un amico. Ho comprato un contrabbasso quattro/quarti che ho suonato con l'arco. Ovviamente non utilizzo parti campionate ma suono personalmente vari strumenti che ho a casa. Ho una enorme collezione di un centinaio di strumenti tradizionali, tutti conservati all'interno di un grande armadio che ho fatto costruire ad hoc per non farli rovinare.

Come hai approcciato il lavoro a livello di costruzione dei brani?
Quando sono andato ad ascoltare le tracce mi sono accorto che, in modo forse non cosciente, avevo lasciato degli spazi in certe gamme di suoni ed in particolare l'ho scoperto aggiungendo, dopo le percussioni, il violoncello. Se si suona una nota in quell'altezza e ne aggiungi un altra è come se la sommassi, o si cancella o diventa qualcosa di diverso. Avevo lasciato spazi perfetti in tutti i brani per aggiungere gli archi, così come con i flauti che stavano su un altro colore. 
La grande magia di questo disco è proprio questa, la sua leggerezza con i brani in cui si riesce a leggere tutto. Non so se questo sia dovuto alla perizia compositiva che ho accumulato negli anni. Cerco di analizzare sempre quello che faccio, cerco di investire molto nella fase compositiva del brano in modo che se un giorno qualcuno vorrà suonarlo vorrei che ci trovasse le influenze che lo hanno caratterizzato. Ci sono certe scritture che hanno una grande originalità con il trio barocco inteso in una accezione completamente differente. Alla fine tutta questa musica si basa su un territorio molto italiano perché anche se ho guardato alla tradizione irlandese ancora prima loro hanno appreso da noi. La musica irlandese celtica non è altro che una copia della nostra musica barocca. La tarantella napoletana è diventata la giga. La musica ha sempre girato moltissimo e non è un caso che Hendel sia morto a Dublino.

Hai arricchito tutto con la partecipazione di qualche amico?
Il primo che ha partecipato a questo disco è Glen Velez al quale è piaciuto molto questo lavoro. Ha registrato le sue parti a New York ed, in particolare, ha compreso perfettamente l’atmosfera che volevo imprimere a "La morte" dove si ascolta una sorta di battito cardiaco che ha costruito con un tamburo sciamanico. Ne "Il carro", poi, ha aggiunto le tabla che si sposano perfettamente con il bansuri. Tra i vari ospiti mi piace citare, Laura Garampazzi alla tromba il cui particolare timbro in alcuni passaggi sembra quasi celestiale e Milo Molteni che, con il suo violino, dialoga con la tromba ne "La giustizia". Si tratta di un brano di impostazione celtica, dove il violino evoca il malandrino, mentre la tromba rimanda alla giustizia. Diventa quasi una cosa western, una sorta di slow air irlandese. C’è, poi, Gino Avellino che suona il sackbut tenore, un trombone a tiro del Cinquecento di cui ho una copia. Spesso sono rappresentati gli angeli che suonano questo strumento insieme all'arpa e a differenza del trombone ha un suono più dolce, sembra un canto gutturale.

Registri in analogico o in digitale...
Ho uno studio casalingo e registro sempre in digitale. In passato, ho composto musiche per Toyota, Lexus e Porche e questo mi permetteva di avere ottimi guadagni. Tuttavia, all’inizio, andavo in studio, ma finivo a spendere più di quello che guadagnavo. 
Alla fine ho pensato che dovuto mettere su uno studio mio e ho fatto dei corsi per imparare come si usava il ProTools. Ormai sono quindici anni che lavoro in questo modo. Realizzare un disco ha dei costi molto elevati e la mia versatilità nel suonare vari strumenti mi consente di incidere praticamente in solitaria. Ho tantissimi strumenti e dei microfoni pazzeschi, alcuni dei quali mi sono stati regalati. Ho anche la mia etichetta su iTunes Store, perché mi volle direttamente Steve Jobs. All'epoca avrei dovuto uscire con la CBS e un amico che lo conosceva gli portò i miei dischi e poco dopo da Lussemburgo mi arrivarono i contratti per tutto il mondo. L'unico problema è che non riesco a metterli su Spotify, ma mi sto attivando anche in questo senso.

Quali sono le differenze con i dischi precedenti?
Non ci sono grandi differenze ma ciò di cui sono contento è che si riconosca una mano, uno stile e un modo di pensare. Nel limite delle cose c'è sempre la possibilità di avanzare un po'. L'album precedente che, come sai, era doppio mi è stato utile a dimostrare che l'arpa è uno strumento ricchissimo che non perde il suo smalto né confrontandosi con ventuno musicisti, anzi da solo ha una magia maggiore e non è un caso che in molti mi abbiano detto che adorano proprio quello in cui suono in solo. Questa è una cosa che vivo anche durante i miei concerti con la gente che dopo due ore non vuole andar via. Di "Solo" che è un disco per sola arpa, ho venduto, durante i concerti, quasi quarantamila copie in dieci anni e non è poco! In "Atlas" c'è un richiamo profondo ad altri album precedenti come "Aforismi d'arpa" e c'è tutto un continuo tra i vari dischi. La cosa che mi fa piacere è che dischi di trent'anni fa non hanno perso smalto negli anni e, infatti, suono ancora diversi brani in concerto e se li tolgo la gente me li chiede. Di questi dischi mi piace molto che i brani continuino la loro vita in concerto.

I brani legati alle virtù presentano un sostrato quasi intimistico e riflessivo. Ce ne puoi parlare?
E' stata una scelta voluta perché alcune cose sono come dei doni che si hanno di natura. Volevo che fossero come un divenire molto pulito, molto aureo. L'altro volevo che fossero in certi momenti anche iconografici che toccassero certe culture in modo non turistico ma la parte popolare fosse una magia che 
arriva da lontano.

Il disco si apre con “Il Matto” un brano dalla costruzione molto particolare…
Ho letto varie cose su questa carta per trovare l’ispirazione giusta. Ho cercato di far emergere il rapporto tra la pietà e la grandezza della pazzia che può creare grandi cose. C'è il tamburo sciamanico di Glen Velez che porta questo tempo largo, l'arpa che fa da telaio, gli archi che evocano la pietà della civiltà, il flauto che rimanda all'intelligenza del pazzo che ha delle intuizioni e lo sberleffo dei cromorni rinascimentali, aerofoni a doppia ancia il cui suono sembra quasi quello del kazoo.

Ne “Il bagatto” si ascolta il theremin…
Il theremin che è uno strumento che non si tocca. Se un profano vede suonare questo strumento pensa subito che chi lo suona è un mago, ma c'è una gestualità particolare per suonarlo. Mi piaceva l'idea di avere questo strumento perché evoca la presenza di una voce che racconta qualcosa.

Ci puoi raccontare come hai lavorato al particolare arrangiamento de “L’Imperatore”?
"L'imperatore" rimanda ad un imperatore cinese e infatti suono il bawu. Pensavo alle immagini del "Piccolo Imperatore" e volevo che avesse questa atmosfera orientale quasi sospesa. Ad un certo punto entra il bawu, uno strumento tipico dell'opera cinese tradizionale, che sembra un clarinetto.

So che particolarmente travagliata è stata la gestazione de “Il Papa”…
Con il "Papa" c'è stato un blocco nel lavoro con l'arrangiamento e ho avuto un sacco di problemi. Ogni volta che ci lavoravo succedeva qualcosa. Si bloccava il computer, poi si è addirittura rotto, ho avuto un incidente con l'auto con uno che mi è venuto addosso. C'è stata una specie di canalizzazione di cose negative. Non riuscivo proprio a finirlo, tanto che volevo cambiarlo e rifarlo daccapo. Alla fine è venuto molto bene e sono contento, perché ho voluto usare un concept barocco con i cinque flauti dolci della musica barocca. Quando ho finito ho capito perché avevo avuto tutti quei casini perché il pezzo si basa su tutta una serie di tensioni armoniche, ci sono anche i tritoni. 
Quando si lavora ad un disco come questo riemerge qualcosa di archetipale. Questo mi permette anche di essere distaccato da questo lavoro e mi consente anche di riuscirlo ad analizzare in qualche modo.

“Gli Amanti” rappresenta una sorta di cesura nel disco…
Con "Gli Amanti" è come se fossi entrato in un altro episodio, fino ad arrivare al "Diavolo" e in questi brani c'è una concezione più classica e meno barocca della composizione. Man mano che si arriva alla fine del disco, i brani diventano più moderni ed impressionisti. Nel "Diavolo" ci sono questi flauti che entrano e spariscono evocano il Leuprechaun, questo diavoletto irlandese.

De “La ruota della fortuna” mi ha colpito molto il dinamismo…
Ne "La ruota della fortuna" ci sono degli strumenti che si ricorrono che rappresentano i tre animali sulla ruota. C'è il theremin, l'autoharp che si contrappone alla ritmica e il tutto si svolge in maniera armonica, tanto che si ha l'impressione di ascoltare proprio il giro della ruota.

Altro brano emblematico del disco è “La morte”…
"La morte" era difficile da rendere e ci sono dovuto tornare più volte, perché volevo che fosse luminosa e che non avesse una atmosfera tetra e oscura. Volevo che passasse l'idea di una sorta di passaggio con questa tensione drammatica che non esplode mai.

Concludendo. So che è già in cantiere un nuovo lavoro...
Da qualche tempo ormai sto lavorando già ad un nuovo disco: "Mostri e prodigi". Nel quale tratterò il tema dei bestiari medioevali in modo letterario. Per esempio le sirene non cantano ma dicono la verità e per questo gli uomini non vogliono ascoltarle perché sennò impazziscono ascoltando le loro parole. Vorrei cercare dei poeti contemporanei, grazie ad una amica che è una saggista molto brava che ha fatto una tesi su Montale, ha scritto molti libri di arte mettendo insieme cose molto interessanti. Vorrei che lei si occupasse di questo. Pensa al Basilisco, il re dei serpenti che è un’altra figura particolare che rappresenta il peccato ma nella mia interpretazione rimanderà alla Kundalini, energia primaria che ha a che fare con la sessualità. I nuovi brani durano cinque minuti e seguono un divenire come se accompagnassero l'ascoltatore man mano. Il disco è sostanzialmente pronto e uscirà nel prossimo autunno.


Vincenzo Zitello – Anima Mundi (Autoprodotto, 2019)
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Mettendo da parte i facili pregiudizi e gli inevitabili ammiccamenti ai sedicenti chiromanti e imbonitori che popolano le tv private, dedicare un disco agli Arcani Maggiori dei Tarocchi è una sfida di non poco conto. Non solo per il pericolo di essere fraintesi nelle intenzioni, ma anche per la difficoltà intrinseca dell’argomento che certamente non può definirsi come alla portata di tutti, non fosse altro che per la fama poco “nobile” che lo accompagna. A fronte di ciò va detto che gli Arcani Maggiori dei Tarocchi non sono un comune mazzo di carte da gioco, ma rappresentano la sintesi di un cammino che conduce l’essere umano alla piena conoscenza della propria interiorità, attraverso una serie di immagini archetipiche, che si susseguono carta dopo carta. Gli Arcani Maggiori sono un libro aperto sulla Natura e sul Cosmo che conduce chi riesce a penetrarne il significato più profondo ad una dimensione superiore in cui si passa dal disordine della quotidianità, all’ordine e al silenzio del Divino. La comprensione di queste carte richiede, dunque, un approccio non dogmatico che supera il relativismo scientifico e si apre alle conoscenze secrete. A raccogliere questa importante sfida è stato Vincenzo Zitello che prosegue il suo cammino di ricerca interiore attraverso la musica, intrapreso con “Talismano” proseguito con “Infinito” e “Metamorphose XII” e che, ora trova, la sua massima espressione con “Anima Mundi”, undicesimo album in carriera che raccoglie ventidue brani ispirati alle carte degli Arcani Maggiori. Inciso in larga parte in solitaria, destreggiandosi tra arpa celtica e una miriade di strumenti tradizionali (lama sonora, salterio ad arco, thin e low whitle, kalimba, cromorni, fujara slovacca e xaphoon) e non (viola, violoncello, contrabbasso, theremin, flauto traverso, flauti barocchi), il disco vede anche la collaborazione di alcuni ospiti come Glen Velez (bodhran, riqq, maracas, rider, triangolo), Gino Avellino (sackbutt e trombone tenore), Arthuan Rebis (esraj, nyckelharpa, bouzouki), Laura Garampazzi (tromba), Mario Arcari (oboe e corno inglese), Daniele Dubini (basuri e handpan), Alfio Costa (Hammond B3), Andrea Valeri (chitarra acustica), Daniele Bicego (uillean pipes, tin whistle, flauto irlandese e traverso), Ezio Guaitamacchi (auto harp), Claudio Rossi (mandolino americano, lap dobro), Federico Sanesi (tabla), Carlo Bava (ciaramella) e Milo Molteni (violino). L’ascolto è un’esperienza immersiva, un viaggio interiore in cui Zitello ci invita ad entrare in contatto con il mistero degli Arcani Maggiori per cogliere la sua lettura in musica dei simboli che racchiudono. Per quanti hanno familiarità con le opere di Alejandro Jodorowsky o con il ponderoso volume di Osvald Wirth, sarà facile cogliere le più nascoste sfumature di ogni brano. La prima cosa che colpisce è che il disco si apre con “Il Matto”, ovvero la carta zero che solitamente è posta alla fine del mazzo degli Arcani Maggiori, ma ascoltando attentamente il brano si comprende come la scelta non sia stata casuale perché questa carta rappresenta la forza creatrice a cui Zitello sembra far appello affinché lo guidi nel suo viaggio. Si prosegue con “Il Bagatto” con l’arpa che tesse una elegante trama melodica di matrice rinascimentale e ci introduce alle atmosfere evocative de “La Papessa” e a quelle delicate ed introspettive de “L’imperatrice”. Se l’incedere solenne de “L’Imperatore” colpisce per la ricchezza delle immagini sonore che ne caratterizzano l’intreccio, “Il Papa” si svela in tutto il suo fascino antico con il corno inglese e il tin whistle ad impreziosire la gamma melodica. L’intreccio di corde tra archi e arpa de “Gli Amanti” ci schiude le porte ad cuore del disco in cui spiccano “Il Carro” con il suo tessuto melodico archetipale, “La Giustizia” con la tromba che imprime al brano un atmosfera marziale e “L’eremita” in cui salteri e thin whistle dialogano con l’arpa. “La Ruota Della Fortuna” con il suo ordinato caos sonoro si svela pian piano in tutto il suo cinematico dinamismo accompagnandoci verso altri due brani emblematici ovvero “La Forza” e “L’appeso” che spiccano per la ricercata architettura sonora con quest’ultimo in cui fanno capolino i flauti barocchi. Uno dei vertici del disco arriva con “La Morte” in cui Zitello riesce a cogliere perfettamente la dimensione simbolica del passaggio e della rinascita nell’accezione iniziatica più profonda. La sequenza aperta dalla riflessiva  “La Temperanza” ci conduce attraverso gli echi di blues de “Il Diavolo” con gli incroci sonori tra lap dobro, arpa e violoncello e le atmosfere misteriose de “La torre” nella quale compare anche una sega sonora, per culminare nelle atmosfere siderali de “La Stella” e “La Luna”. “Il Sole” con le uillean pipes che rimandano alla sua potenza creatrice ci guida verso il finale con la tensione che pervade il “Il Giudizio” e “Il Mondo” che ci riporta alle sonorità barocche ascoltate in apertura. “Anima Mundi” è, dunque, un altro imperdibile capitolo della discografia di Vincenzo Zitello che si conferma compositore dotato di rara sensibilità e arrangiatore illuminato in grado di far convivere sonorità e suggestioni differenti.


Salvatore Esposito

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