Urna Chahar-Tugchi: La voce di un popolo di porcellana

Questo insieme è tenuto ben stretto, unito nel suo canto “...in tutte le direzioni giace il mondo in un sonno profondo e sognante come se fosse cullato contro il caldo seno di una Madre...”. Luoghi, melodie, armonie, ritmi che possono riavvicinarsi talvolta in un respiro o in un sogno, nonostante enormi distanze musicali. Alcuni strumenti sono sconosciuti agli europei come l’organo a bocca cinese (sheng) vecchio di almeno tremila anni, che vibra adattando la lingua all’interno della pipa e dalle frequenze emesse sia inspirando che respirando. Le note che ne escono simultaneamente consentono la formazione di accordi tramite i trentasette whistles di bambù che sono infilati nella scatola di metallo. Di altri strumenti a noi più comuni, esiste una “versione cinese” come il caso, già citato, dello “yangqin”, con le corde divise da ponti intermedi in modo da poter venire percosse dai martelletti, sempre di bambù, su entrambi i lati. A causa dello speciale ordine pentatonico, ci sono note che possono essere prodotte in due o tre punti differenti e le sue corde arrivano a superare anche il numero di centosettanta. La lingua mongola appartiene alla famiglia dell’Altai turco e comprende molte varietà di dialetti, quella scritta del popolo Uiguro ha caratteri che derivano dalle lettere arabe. La sua poesia epica (Tuuli) è sovente accompagnata dalla musica del “violino a testa di cavallo”, combina, come in una specie di enciclopedia vivente delle tradizioni orali, benedizioni, espressioni idiomatiche, fiabe, formule magiche, panegirici, miti e canti popolari. Urna Chahar-Tugchi è oggi una diva della Musica Asiatica, al pari di Sainkho Namtchylak, ha cantato e inciso anche in Germania, Polonia (con The Kroke Band), Italia, la sua lingua ha andamento da cerimonia mistica “se la mia voce fosse gemella del vento e la mia melodia suonasse come luce lunare, potrebbero unirsi ai sorrisi delle stelle e l’universo sarebbe a suo agio come mai prima”. La sua è la voce celebrativa delle gelide regioni mongole del nord miste ai deserti
meridionali, dove si possono incontrare improvvisamente figure nomadi provenienti dal nulla, pallide di vento e polvere. O immaginarle, esattamente come avviene nella canzone “Regarde Bien, Petits” di Jacques Brel: “...un viaggiatore che si è perso, un reduce di guerra, un mercante di trine, un abate portatore di false notizie che aiutano a invecchiare…”. La voce di Urna è quella di un altrove necessario, di una calma che stordisce, della umile periferia immaginaria fuori dalle caotiche città dell’Occidente, che ha trovato nella parola scritta su antichi fogli il significato della propria esistenza. Voce che intona “Sangjidorji” preghiera umile e devota a Buddha quanto ai doni della terra e contemporaneamente famoso canto di combattenti mongoli per la libertà. Voce di steppe ampie dove il tempo è sempre identico a sé stesso eppure altrettanto mutevole dall’inizio dei tempi, a fronte dell’interrogativo universale dell’orizzonte, alla sua ipnotica pienezza di vuoto. Il sovrannaturale trova facile dimora in un nulla labirintico di pura meraviglia divorato da sole e sabbie, abitato unicamente da nomadismi. E Urna canta la sua Fata Morgana mongola e nonostante la devastazione e la miseria delle guerre, la spedisce a un mondo di pace, invia desideri a una umanità ferita da esposizioni, dissolvenze, distorsioni, contrasti estremi di nitidezze e sfocature. Il suo canto risponde alle interrogazioni di una Natura perennemente in primo piano, tra la tundra dove vola il girfalco, il deserto dai cammelli selvatici e i monti dell’Altai dove ancora vive il leopardo delle nevi, raro quanto l’orso del Gobi gran mangiatore di rabarbaro selvatico. Un canto universalista che genera un mare di armonie a quell’enigma del tempo, piccola voce atemporale di donna che fa da ponte con quel totalmente altro, passando dall’esistere alla realtà in se stessa, tra desiderio, presenze ed emozioni. Solo in quei luoghi si possono incontrare il “ratto canguro” (Euchoreutes naso) o
“topo canguro” (Salpingotus kozlovi) che misura appena quattro centimetri “...fin dalla sua esistenza l'uccello lama maculato di giallo si è insediato sulle acque limpide all'interno della palude, allo stesso modo all'interno della religione, i monaci si sono insediati nel monastero giallo di Sharling...” I Mongoli venerano i cinque animali sacri: capra, cammello, cavallo, pecora, yak. Se non esistessero cacce indiscriminate, potrebbe trattarsi del paradiso terrestre per gli animali e Urna, tra nitidezze e sfocature, canta del sogno in cui appaiono le intelligenti e oscure verità dello spirito, le immagini sorte dalla necessità interiore di proiezioni di luce. D’altronde non è forse il canto, la pelle umana delle cose? Il derma della realtà che, ne esalta la materia restituendola alla sua spiritualità profonda, alle relazioni da cui discende? 


Flavio Poltronieri

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