Luigi Cinque | Stefano Saletti | Urna Chahar-Tugchi – Persephone (Materiali Sonori, 2023)

Come è entrata nel progetto la voce di Urna Chahar-Tugchi?
Luigi Cinque - Ho conosciuto Urna a Samarcanda in un Festival di Musiche del Mondo nel 2000. La sentii la prima volta cantare nel cortile del nostro hotel. Dopo l’ho spesso cercata e coinvolta in altri miei lavori, dischi, film. È straordinaria. È davvero una cittadina del Mondo. Dalle steppe di Ordos mongole al Conservatorio di Shangai alle sue lunghe permanenze al Cairo. Da molti anni è una cittadina e una concertista tedesca. Ultimamente ha scelto l’Italia centrale. È stata una Persephone perfetta e quella lingua misteriosa (per noi) in cui canta è adattissima al nostro concept album. Urna e Stefano hanno trovato un accordo musicale molto emotivo e molto bello. Il suo canto come avete sentito o sentirete, è attualissimo.
Stefano Saletti - L’ho incontrata la prima volta quando ho suonato all’Ara Coeli al concerto di Luigi. Mi ha lasciato senza parole per la bellezza e la forza del suo canto. Ci è sembrata la maniera migliore di chiudere il triangolo tra il mio Mediterraneo, la sperimentazione globale di Luigi e appunto la vocalità unica di Urna. Abbiamo testato il progetto alla Notte dei Musei nel 2022 in un concerto all’Ara Pacis e il grande successo che abbiamo ottenuto ci ha fatto capire che dovevamo continuare su questa strada e fare diventare il nostro incontro anche un disco. Poi ne abbiamo parlato con Giampiero Bigazzi della Materiali Sonori che si è subito mostrato entusiasta dell’idea e così è partito il processo creativo che ha portato alla 
realizzazione dell’album.

L’elemento percussivo lo portano personaggi della scena italiana e internazionale: come nasce il loro coinvolgimento?
Luigi Cinque - Sono artisti che abbiamo conosciuto in precedenti lavori. Che stimiamo. E… che servivano – come poi si è dimostrato – alla musica del CD. Tutti bravissimi. Louisinho Do Gege, un candomblè di Salvador Bahia. Giampaolo Ascolese che ritengo essere uno dei migliori e sperimentati batteristi dell’area jazz e altro. Poi i bravissimi drummist coinvolti da Stefano.
Stefano Saletti - Sì sono musicisti con i quali ho collaborato in passato. Con Giovanni Lo Cascio, sono quasi trent’anni che suoniamo insieme, prima nei Novalia e poi nella Banda Ikona. Cercavamo un suono fortemente mediterraneo per le percussioni di Jerusalem Corner e lui l’ha portato. Con Ruca Rebordao avevo suonato due anni fa nella Med Esch Luso 7 Sois Orkestra, un ensemble che ho diretto per il Festival 7 Sois 7 Luas. Ruca è angolano/portoghese e il suo tocco afro-europeo sembrava perfetto per alcune parti del disco. 

Come si è sviluppato il processo compositivo per questo album?
Luigi Cinque - È stata un’occasione per sperimentare possibilità individuali. Per me, soprattutto, il cantato shaman, lo chiamo così. Ringrazio per questo i miei partner che lo hanno accolto durante il lavoro.
Stefano Saletti - Con quel procedimento che chiamiamo di composizione in tempo reale. Non è semplice improvvisazione secondo lo schema classico, tema/solo/tema, ma è un processo compositivo nel quale il 
tema stesso nasce dal dialogo dal suonare insieme, dai rimandi che ognuno fa all’altro. Siamo entrati in studio senza nulla di preparato prima e siamo usciti dopo alcuni giorni con ore e ore di registrato. Poi abbiamo riascoltato il tutto, selezionato, editato, risuonato in alcuni casi e il disco ha preso forma. Mi piace pensare il lavoro in studio come un procedimento artigianale nel quale man mano affini i dettagli e arrivi a quello che immagini come risultato finale.  

Prima dello studio di registrazione, ci sono stati concerti: quanto la costruzione anche estemporanea live è entrata nella dimensione della sala?
Luigi Cinque - È sempre un po' così. C’è la parte intuitiva, impro, larga e rilassata dove l’ansia deve essere bandita. Dove si suona su schemi del tutto individuali e soprattutto si ascolta. Poi tiri le reti, sovrascrivi e infine baratti la freschezza e la follia del segno con la ragione delle cose, con la cornice a tempi stretti di un cd. La postproduzione è stata – nel nostro caso – un momento importante. Un bel momento di riflessione.
Stefano Saletti - Abbiamo cercato di ricreare una dimensione live così da non perdere quel metodo e quello stile che ha caratterizzato i concerti. Abbiamo suonato guardandoci, pur se separati da un vetro, cercando l’uno nell’altro l’ispirazione. Ci sono stati momenti “alti”, nei quali la voce di Urna disegnava arabeschi meravigliosi e noi li abbiamo assecondati e ci abbiamo costruito melodie, bordoni, loop, spesso in tempo reale. Mi ha stupito che di quello che avevo registrato in quei giorni, la quasi totalità era perfetta così, quasi non necessitasse di correzioni o riletture. Sono stati momenti di alta ispirazione da parte di tutti. Poi abbiamo cercato di usare lo studio come uno strumento. Abbiamo utilizzato il pianoforte per sonorità che normalmente non usiamo: Luigi vi ha creato microcellule sonore che sono state alla base di
alcune composizioni. Lo stesso ho fatto io alternando chitarra elettrica “trattata”, bouzouki filtrato con delay e reverberi, l’oud usato sia come solista sia come basso attraverso un octaver, spesso creando pattern o loop con l’utilizzo di elettronica. Luigi ha alternato fiati digitali fortemente effettati ai live electronics, ai suoni acustici del clarinetto, del sax, della gaida. Mi è piaciuta la libertà assoluta di sperimentare senza avere idea precisa di dove si andava a finire, facendo del viaggio stesso l’obiettivo finale del percorso creativo. 

Se volessimo provare a definire il suono, è ‘world music’ o è preferibile cercare oltre, abbandonando questa categoria dietro cui inevitabilmente si confrontano tensioni ideologico-estetiche?
Luigi Cinque - A Yerevan per gli ottant’anni di Jivan Gasparyan, nel dopo-concerto, fummo ospiti dello sponsor che era il meraviglioso palazzo di rappresentanza e lavorazione del Cognac Ararat. C’era con noi Peter Gabriel, fraterno amico di Jivan. Peter, illuminato da un paio di cognac, rideva con il suo assistente (e con noi) sulle parole world music che in effetti – diceva – non definiscono niente.  “Come dire world cars, le automobili del mondo” – diceva – “che vuol dire? La Ford, la Toyota, la Peugeot, la Kia, la Suzuki, la Wolkswagen e mille altre marche? Sono tutte macchine del mondo come le musiche.” Anche il jazz e le avantgarde varie sono musiche del mondo. Altro è invece – aggiungo – dire Real World. Ecco io definirei l’ambito dell’album un lavoro real world (mondo reale), a parte l’etichetta omonima. Le parole hanno un senso. Persephone è una musica mia di Stefano Saletti e Urna Chahar-Tugchi in stile “mondo reale”. Aperto ai suoni/rumori/del villaggio e anche all’altra metà della musica che è il live electronics.
Stefano Saletti
 - Credo però che alla fine world music continui a essere il termine più adatto per catalogare le musiche che hanno radici nelle varie tradizioni, seppur contaminate e aperte al dialogo e al confronto come nel nostro caso. Noi ci siamo divertiti a parlare di “world music di nuovo conio”, quasi a cercare di allargare il discorso ad altri linguaggi: alla contemporanea, al jazz, al minimalismo, all’ambient. Ma ogni definizione è solo il tentativo un po’ limitativo alla fine di dare una catalogazione o peggio una semplificazione dentro uno schema. Ma mi chiedo, cosa intendiamo ad esempio oggi per rock? O jazz? Quali sono i confini tra i vari generi?

Come si articola nel vostro progetto la tensione tra melos e logos?
Luigi Cinque - Non c’è tensione. Il logos abita più spesso nel significato della parola. Noi il significato lo abbiamo in parte saltato. Qui il canto delle steppe, arcaico e modernissimo di Urna di cui sfugge il senso (all’occidentale) e il mio invece (a parte il cunto, dedicato nel suo inizio al mare dei migranti) è costruito su ricavi di memorie, su frammenti di steli dissotterrate, su brevi melodie che ho imparato con le Mae dos Santos e in altri luoghi, sono nel loro umile, scavi di “melos orante”. Il logos lo lasciamo allo spettatore che ascolta e al piacere o meno che può avere nell’ascolto.
Stefano Saletti - Le vedo strettamente collegate. Dietro ogni nota c’è un pensiero, anche se nel nostro caso resta oscuro utilizzando una lingua volutamente indecifrabile. Urna canta in mongolo, Luigi ha utilizzato fonemi che rimandassero a culture arcaiche o lontane senza volutamente curarsi dell’intellegibilità. Anche 
il cunto che declama su Afrikan cunto è sensazione pura oltre a canto siciliano. Per quanto mi riguarda mi sono preso una pausa dal Sabir, la lingua antica del Mediterraneo che uso nelle mie composizioni, anche per marcare un distacco rispetto ai progetti con Banda Ikona o Café Loti. Ho usato la voce per parti corali evocative o ritmiche senza l’utilizzo della parola. Il significato alla fine viene fuori dalla somma di più elementi che sono di parola, ma anche di suono, di melodia, di timbro. La voce di Urna, il suo canto che rimanda alle steppe, al profondo Oriente, è fascino puro, è abbandono totale. Per questo non abbiamo voluto tradure i testi, avrebbe limitato l’immaginazione di chi ascolta.  
 
“Blue Masada” impone il sentiero: come nasce?
Luigi Cinque - Da ritmi candomblè, uniti a clarinetto, piano, voci e gli strumenti di Stefano. Come fosse un boccascena teatrale in cui ci presentiamo.
Stefano Saletti - È l’esempio di come abbiamo lavorato. C’è un mio tema all’oud nato in studio su un riff al piano creato da Luigi sul quale Urna ha composto la sua parte vocale. La ritmica l’ha spostato dall’Europa al Brasile con le parti di Lousinho Do Gege che ha un drumming pazzesco.
 
“Phone” è incanto della voce…
Stefano Saletti - Sì è un canto meraviglioso di Urna e ogni volta che l’ascolto mi dà i brividi. Ho creato un loop col bouzoki giocando di rimando con la sua voce. I fiati di Luigi cesellano il tutto. Praticamente non 
abbiamo toccato nulla di quello che è nato in studio, quasi una magia.   

“Jerusalem corner” ci porta verso il martoriato Medioriente: come nasce e cosa contiene?
Luigi Cinque - Oggi appare una canzone profetica. Quel che sente un viaggiatore fermo ad un angolo di Gerusalemme. Le voci, il klezmer del clarinetto con l’oud… il canto perduto di una donna (palestinese questa volta) sul tetto di un quadro di Chagal.
Stefano Saletti - Sì è così. E’ nato unendo momenti compositivi diversi e ritmi differenti. Volevamo rendere la complessità del mondo mediorientale. C’è il suono delle strade di Gerusalemme, c’è il canto del muezzin, ci sono i bambini di una scuola ebraica, c’è una calma apparente, una pace che però nasconde una tensione. Poi arriva questo tema in un ritmo di 7/8 che con il suo incedere quasi militaresco ci riporta alla realtà, fino a crescere di tensione con sonorità elettroniche, fredde, martellanti sulle quali si muovono i fiati di Luigi, la voce di Urna e la mia chitarra elettrica che urla suoni di violenza. Alla fine ritorna una calma apparente nella quale si alternano i vari temi sui rumori della città. Il brano sembra scritto dopo i tragici fatti del 7 ottobre, ma è nato ovviamente prima. La questione palestinese ci dilania da decenni, in un misto di rabbia, impotenza, dolore. 

Cos evoca “Temeen Jing”? 
Luigi Cinque - Sai la musica è polisemica per eccellenza. L’intenzione quanto meno mia è di essere metropolitani, mitteleuropei. Per me è una canzone d’amore in bianco e nero ad Hamburg o in Bretagna o 
nei Paesi Baschi sull’Oceano. Qualcuno mi ha scritto che è un brano in stile ECM. Lo spedirò a Manfred Eicher per sapere cosa ne pensa. C’è anche un vago sentore della Francia di Jane Birkin di “Je t'aime... moi non plus” dico io.
Stefano Saletti - In effetti se chiudi gli occhi ci vedi le steppe ma anche i paesaggi brumosi della nostra Mitteleuropa. Volevamo rendere un’atmosfera di spazio infinito. Uso degli effetti alla chitarra che aprono questi paesaggi sonori. Nella seconda parte il saz turco dialoga con il sax di Luigi e con le percussioni di Ruca Rebordāo, a creare l’idea di una cavalcata negli spazi aperti. È tutto molto cinematografico se ci pensi, sembra in tanti passaggi una colonna sonora per un film da girare. 
 
In ‘Afrikan Cuntu’, la tradizione del cunto siciliano incontro l’Africa nord-orientale.
Luigi Cinque - In effetti c’è una linea di narratori/cuntisti che dalla Sicilia o viceversa che attraversa tutta l’Africa. Bellissimo il coro di Stefano.
Stefano Saletti - Questo è l’unico brano nel quale siamo partiti da un tema preesistente, un riff sudanese in 6/4. Ci abbiamo giocato sopra e poi Luigi ha improvvisato questo canto siciliano creando un ponte tra Mediterraneo e Africa. Io ho messo delle voci invece che riportassero all’uso ritmico della vocalità tipicamente africana. Insieme a “Mother Dance”, è l’unico brano dove non c’è la voce di Urna. Volevamo creare un percorso differente all’interno del disco e aprire ad altre possibilità espressive.

In “Hurdun Mori”, come mai entra la gaida gallega e non una zampogna… per uno che ha scritto Kunsertu?
Luigi Cinque - Ho avuto un maestro di gaida gallega durante una mia permanenza nei Paesi Baschi tra Gijon e Santiago. Ero a Gijon a trovare Luis Sepulveda per invitarlo a partecipare al mio progetto (anche film per RAI TRE) Officina Mediterraneo. La sera mi portò – gentilissimo e speciale qual era – a sentire un concerto di suoi amici gaideri. Mi innamorai dello strumento e dopo una settimana mi sono comprato una gaida in Re a Santiago de Compostela da Louis Mourinho costruttore.  La trovo più adatta a me, alle cose che faccio, più delle zampogne nostrane e surduline. Il suo puntero, la sua chanter ha una diteggiatura che assomiglia a quella oboistica, flautistica, clarinettistica. Posso giocarci con fraseggi che arrivano da altri mondi musicali, dal jazz, dal douduk etc. etc.

“Perse” è costruita intorno al canto di Urna Chahar-Tugchi…
Stefano Saletti - È il proseguo naturale di Phone. Il sax e il bouzouki introducono questo canto struggente di Urna su un loop di mare e tastiere. Un mare infinito, dove i colori si intrecciano tra di loro. 
 
Ci parlate di “Mother dance”?
Luigi Cinque - È dedicata a mia madre Ida.
Stefano Saletti - È l’altro brano che abbiamo creato senza Urna. Nasce dalla sperimentazione di temi e riff su ritmi differenti. Una stratificazione tra l’11/4, il 5/4 e il 4/4 a creare una trama sonora che unisce 
poliritmia africana a composizione con riferimenti alla contemporanea. È il brano più complesso del disco, quello sul quale abbiamo più lavorato in termini di editing, ma ci è sembrato un ottimo modo di portare il disco verso terreni fino a qual momento inesplorati. 
 
Lo accennavate già prima: nel booklet troviamo tre citazioni da Louise Glück (“Averno”), Toni Morrison (“Beloved”) e Emily Dickinson (“To Fill a Gap”). Quali i punti comuni?
Luigi Cinque - I testi e anche questa mia risposta sono presi dalle note di Tiziana de Rogatis con la quale da tempo lavoriamo su un progetto più ampio di cui questo CD potrebbe essere in buona parte il sonoro musicale. Glück riprende in modo esplicito il tema della predazione della dea adolescente da parte del dio infero Ade, e lo trascrive nella chiave della violenza di genere. Sono i femminicidi, che fanno oggi sparire le donne, le trascinano negli Averni sotterranei dei dirupi, degli scantinati, delle discariche, delle tombe improvvisate nel terreno, dei tramezzi di armadi e pareti. Morrison, fondendo il tema classico di Demetra in cerca della figlia perduta con quello nigeriano/yoruba degli abiku (gli spiriti ritornanti dei bambini morti), dà voce ad una madre afroamericana in fuga dallo schiavismo. Infine, Dickinson evoca nei propri versi il rischio che si annida nel “riempire il vuoto”, per sopravvivere alla perdita.

Quella di Luigi Cinque è un’utopia musicale?
Luigi Cinque - Io ci credo. Umilmente dico. È un problema di neoumanesimo (che poi vuol dire restiamo 
umani fuori dai recinti). È una dimensione che chiamo Drammaturgia delle Arti e anche drammaturgia degli stili. Ecco se qualcuno volesse definire la mia musica può dire che è quel mondo sonoro in cui gli stili sono personaggi di una commedia (forse tragedia) sonora contemporanea. Sono tutti fantasmi. Siamo già nel postumano.

Il dialogo musicale è il perno dell’allestimento del concerto di Santo Stefano a Roma: guardiamolo in retrospettiva. Qualche anticipazione sull’edizione 2023?
Luigi Cinque - Ci sarà il Balanescu Quartet con uno sguardo alla Doina romena ungherese che ritengo essere il canto a lungo contadino femminile europeo più vicino al Blues delle origini, quello del Delta. Ci saranno molti ospiti. Il coro Baobab di Stefano e Barbara Eramo. Una finestra aperta al Madrigale con Peppe Frana, e nella mia Hypertext O’rchestra, Anais Drago, Marco Colonna, Benny Penazzi e un paio di grandi firme che verranno a farci visita per un concerto certamente dedicato alla pace fra esseri umani e soprattutto fra generi. Non si spara né si accoltella la Madonna. Se volete potete invitarla a ballare al Tangerine Cafè. Se vi dice di no è no.

Sicuramente nuovi progetti in cantiere…
Luigi Cinque - Tra i vari: la registrazione con lo Shaman Quartet (Michele Ascolese, Giampaolo Ascolese, Pep Caporello + ospiti) e un reincontro con gli amici yoruba del Candomblè a Salvador Bahia sulla scia del mio film “Transuropæ” Hotel. E poi porteremo in giro “Persephone” con una bella presentazione il 4 Febbraio 2024 all’Auditorium di Roma.
Stefano Saletti - Un nuovo disco con Banda Ikona al quale sto cominciando a lavorare, una nuova orchestra mediterranea che mi vede coinvolto, e poi un’intesa attività live con i tanti progetti che ho. Amo particolarmente suonare dal vivo perché il confronto continuo con il pubblico mi dà gioia. Con Luigi e Urna stiamo preparando un tour nel 2024 per suonare “Persephone” dal vivo (dopo la presentazione fatta a Firenze a settembre) e appunto il 4 febbraio ci sarà la prima data a Roma. 


Ciro De Rosa

Luigi Cinque | Stefano Saletti | Urna Chahar-Tugchi – Persephone (Materiali Sonori, 2023)
A leggere i titoli degli otto brani, questo album inizia col penultimo, “Perse”. Comincia bene, col respiro delle onde del mare e i cicli melodici del sax soprano e del bouzouki che si alternano ed invitano ad una navigazione lenta per poi lasciar spazio alla meraviglia: la voce della cantante mongola Urna Chagar-Tugchi è un invito a divenire consapevoli della vastità e della densità dello spazio sonoro – prima appena accennato dagli strumenti e dai suoni ambientali. Non poter decifrare neppure una parola di quel che sta cantando acuisce la sensibilità per le vette acustiche su cui la voce sa inerpicarsi senza mai perdere, ad un tempo, fluidità e solennità. Il canto ci inizia a questo vibrante cammino sonoro e subito si fa sussurro e sembra lasciarci. Ma qui ci soccorre il secondo brano dell’album, “Phone” che compone col suo nome la seconda parte del titolo e rimanda al pantheon greco e alla consorte di Ade, con cui veglia gli antenati: ma solo un terzo dell’anno; per il resto del tempo Persefone è accanto a Kore/Demetra, dea dei raccolti. Persefone è, dunque, per antonomasia, la dimensione spirituale che rimanda alla capacità di attraversare e mettere in comunicazione i mondi senza perdere mai di vista la fertilità della terra, forse l’unico orizzonte di senso possibile. “Phone” racconta questa capacità di ascolto a partire dalla nuda voce di Urna Chagar-Tugchi che disegna un suo spazio rituale, assecondato dalle tastiere e dal bouzouki che, nel gioco di rimandi con la voce, rende palpabile il caleidoscopico gioco di specchi dell’intero album e la sua abilità nel chiudere ciascun ciclo lasciando sempre una porta aperta, come ben fa il sax soprano nei suoi commenti.  A metà del 2020, intervistato da Stefano Saletti, Luigi Cinque prendeva le distanze dalla dimensione del “concerto” mostrando una preferenza per quella del “rito” e per gli ensemble allargati, come quello che già allora stava esplorando questo repertorio più spiccatamente mediterraneo, capace di coinvolgere fino al 2022 alcuni dei musicisti più preparati e versatili del contesto italiano: Biondi, Mirabassi, Mortavi, Santacaterina.  Già vent’anni fa, l’Hypertext O'rchestra di Luigi Cinque aveva fatto tappa a Tangeri e di lì a breve, dopo quasi due decenni di Novalia, Stefano Saletti e Giovanni Lo Cascio davano vele alla Banda Ikona, già protagonista di cinque ottimi album. A fine 2022, l’incontro di queste due traiettorie mentre solcano il “sesto continente” è stato sancito dalla creazione del progetto “Persephone”, capace di intercettare nel Mare Nostrum forze sia centripete, sia centrifughe in direzione di steppe e oceani, della Mitteleuropa così come delle ecologie acustiche meridiane, dal Sud Italia all’Africa. A legare Sicilia e Sudan, in particolare, ci sono il tempo terzinato e i cori di “Afrikan Cuntu” (ben “introdotto” dalla kalimba nel finale del precedente, ipnotico “Temeen Jing”), con lo straordinario trio di percussionisti Lousinho Do Gege, Giovanni Lo Cascio e Ruca Rebordão a fare da propulsore per il cuntu cui dà voce Luigi Cinque. Altrettanto efficace è il drumming di Giampaolo Ascolese in “Mother Dance” (l’altro brano senza la voce di Urna Chagar-Tugchi) in dialogo con i fiati di Luigi Cinque in una traccia di maggior tensione, insieme a “Blue Masaba” e “Jerusalem Corner”, con un generoso ricorso di ostinati di tastiere, corde e percussioni. Ogni musicista ha a sua disposizione un ampio ventaglio di strumenti, timbri e stili, sempre, però, al servizio di una narrazione e di una scaletta coerente che privilegia l’ascolto reciproco e il dispiegarsi, per gradi, della narrazione musicale, capace sia di accelerare il tempo e indurre alla danza, sia di fermarlo del tutto, si ascoltino “Tameen Jing” e “Hurdun Mori”, quando a cantare è Urna Chagar-Tugchi.


Alessio Surian

Foto di Salvatore Esposito (7-11)

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