Luigi Cinque | Stefano Saletti | Urna Chahar-Tugchi – Persephone (Materiali Sonori, 2023)

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Si muove oltre i confini il trio di artisti da sempre propensi agli attraversamenti, alle esplorazioni di differenti linguaggi musicali, culturali e performativi. Luigi Cinque, polistrumentista, compositore, regista, agitatore sonoro: uno storico innovatore, in perpetuo movimento tra scrittura musicale, poesia, improvvisazione e nuove tecnologie applicate; Stefano Saletti, polistrumentista, compositore e cantante, altra figura di spicco delle musiche del mondo in Italia, che con “ostinazione” abbraccia in note i mondi mediterranei. Infine, Urna Chahar Tugchi, nativa della Mongolia Interna (Cina) ma cittadina del mondo, voce straordinaria (con le sue quattro ottave) quanti duttile. È il “mondo reale” espresso da tre personalità che sanno ascoltarsi, che trovano con naturale vitalità un terreno comune, nell’incontro e nel confronto, assecondati con energia e sensibilità da una sezione di percussioni (Giampaolo Ascolese, Lousinho Do Gege, Giovanni Lo Cascio e Ruca Rebordāo) in simbiosi con i solisti.  Prodotto per Materiali Sonori, “Persephone”, dal nome della divinità ctonia, mito mediterraneo si configura come un continuo viaggiare tra stili, lingue, storie e sponde. Ne parliamo con Luigi Cinque e Stefano Saletti.
 
Il mito ci presenta delle aperture di senso: avete scelto di rappresentarvi/ci attraverso una madre e una figlia…
Luigi Cinque - Il mito presenta sempre aperture di senso. Altrimenti non sarebbe tale. Arricchisce. Devia lo sguardo appannandone l’apparente visione logica. Ci fa volgere altrove, nel più profondo. Persephone
meravigliosa fanciulla rapita dal dio Ade e portata nel regno, appunto, degli inferi, finisce, per intercessione nelle alte sfere della Madre Demetra, dea della Terra, per essere liberata, ma solo sei mesi l’anno. L’alternarsi del buio degli Inferi al fiorire della natura rappresenta una delle condizioni più significative dall’altra metà del cielo. È un mito ctonio, potente. Se la cultura non fosse stata, nel premoderno e nel moderno, a perenne trazione maschile (anche nelle sue eccellenze, vedi Freud e prima e dopo di lui una schiera infinita di antro/sociologi e altro) il mito di Persefone avrebbe la stessa rilevanza socio-psicoanalitica del mito di Edipo. È un mito del Mondo. Molta mitologia yoruba candomblè ha assonanze con Persefone. Persino la sua dea superpotente - la dea del Mare - Yemaya. Tanti Orixa (gli dei degli schiavi) sono compagni di banco di Persephone. E via dicendo…
Stefano Saletti - Per quanto mi riguarda, soprattutto per il rapporto tra oscurità e luce, tra mistero e rivelazione, tra detto e non detto. È la caratteristica di tutto il disco, il costante equilibrio tra ciò che è manifesto e ciò che resta sottinteso. Anche la vocalità di Urna si muove su questi due piani alternando momenti di esposizione forte della melodia, quasi violenta a volte, a momenti più rarefatti nei quali la sua voce diventa sussurro, lamento. Il fascino del mito, in effetti, sta proprio in questo rapporto costante tra verità e verosimiglianza che lo fa diventare concetto astratto e universale,   

Perché proprio Persefone?
Luigi Cinque - Persephone è un mito mediterraneo. Fa parte del Panteon del Mare Nostrum. Ed è appunto un’i(dea) di Mediterraneo (e dei suoi aspetti più reconditi e inesplorati), che per vie diverse e in tempi sfalsati, ha intrigato e intriga me e Stefano. Diciamo che è un argomento che, quanto meno nelle suggestioni ed evocazioni, nell’idea pure di paradiso perduto, credo, nei climi dell’ulivo e del mirto, nelle descrizioni di Matvejević e Braudel, negli stili e nei colori della musica, nella civiltà del cibo e via 
dicendo, ci vede… come dire… complici di una poetica… “fedeli alla linea”. Persephone fu rapita in Sicilia e stava lì, sotto il lago di Pergusa, ad Enna prima di essere successivamente trasferita sotto il Peloponneso. Nel booklet citiamo Louise Glück (“Averno”), Toni Morrison (“Beloved”) e Emily Dickinson (“To Fill a Gap”) con l’ausilio di una studiosa come Tiziana de Rogatis. Per dire, comunque, che per noi, come per loro, Persephone è un riferimento. Ma sempre in una dimensione contemporanea. I miti servono a questo. A portarseli in tasca nel proprio tempo come amuleti spaziali. Come caramelle. Per noi nel fare il disco ha fatto inconsciamente da collante per tutti questi motivi.
Stefano Saletti - Perché, come dicevo prima, permette di avere più piani espressivi e sonori. L’idea nasce da una suggestione di Luigi nella quale mi sono subito ritrovato, un po’ perché in tutti i miei lavori ho sempre lavorato in una dimensione di concept album, un po’ perché partendo dal mito di Persefone si possono alternare momenti così differenti nei quali melodie, suoni, timbri vanno a comporre un mosaico sonoro affascinante e in continua mutazione. È un mito profondamente mediterraneo, come dice anche Luigi, quindi l’ideale per fare da cornice alle nostre composizioni e ai nostri strumenti che da sempre viaggiano tra porti, lingue e storie differenti. Persefone unisce le sponde dell’amato mare in un unicum culturale, Come diceva il già citato Matvejević: “Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo”.

Come vi siete (ri-)trovati?
Luigi Cinque - Facendo la vita che facciamo – sempre precaria, ad ogni livello (e per fortuna) – ci si incontra. Poi bisogna vedere se si riesce a convivere all’interno dei progetti. Non sempre il criterio è la sola qualità tecnica. Convivere nello stesso progetto prevede una saggia gestione dello spazio. Nel nostro caso siamo – ci metto anche Urna – tre band leader, come si dice, e dunque, nella cornice di un CD, ci 
siamo lasciati in primo piano, reciprocamente, un ragionevole spazio vitale. Questo ha determinato uno stile. In questo mettersi da parte in favore dell’altro c’è secondo me il “noumeno”, l’essenza del progetto che, se non definisce, sicuramente suggerisce qualcosa che va oltre la cosiddetta world music. In questo senso il CD Persephone è un importante passaggio ad altro. Questa Persephone con Urna e Stefano, secondo me, raccoglie qualche sfida e mette insieme il cunto e il jazz afro alla Manu Dibango, la canzone mitteleuropea, un certo cordismo non temperato con il temperamento pianistico, usa il criterio non protagonista della musica da film anche per lasciare alla voce di Urna il rilievo che merita. Ce n’è per tutte le sensibilità. Sono brani concept molto diversi tra loro.
Stefano Saletti - Sono diversi anni che collaboriamo insieme, sia in progetti con alla base il concetto di improvvisazione sia in partiture più strutturate. Ricordo che ci siamo incontrati casualmente anni fa a una mostra fotografica del comune amico Valerio Corzani e parlando è scattata – almeno da parte mia – la voglia di fare delle cose insieme. Riconosco in Luigi una preparazione anche intellettuale che pochi musicisti hanno, una maniera di pensare la musica non soltanto come successione di note più o meno riuscite, ma come una costruzione quasi ideologica, strutturata dietro a un pensiero ben definito. L’apparente casualità che spesso sembra vivere dentro alle esecuzioni, in realtà nasconde al suo interno segreti profondi, frutto di anni di ricerca sulle musiche del mondo, nel loro rapporto con la contemporanea, il free jazz, la partitura classica. Sono stato ospite diverse volte del meraviglioso concerto di Santo Stefano all’Ara Coeli, poi abbiamo creato un quartetto di improvvisazione con Riccardo Fassi e Mario Rivera, quindi è nata l’idea di fare un trio con Urna Chahar-Tugchi, cantante straordinaria dalla vocalità prorompente. Volevamo unire i nostri mondi e ci siamo riusciti, preservando gli spazi creativi ed espressivi di ognuno di noi tre. È vero quello che dice Luigi, ognuno ha i suoi progetti, ma è stato bello in Persephone aver messo da parte un po’ di se stessi e aver aperto la mente all’altro per abbandonarsi a 
qualcosa che inevitabilmente diventa nuovo. E’ una delle È che amo di più di questo trio: la capacità di ascoltarsi.   
 
Affinità e divergenze tra il Maestro Saletti e il Maestro Cinque?
Luigi Cinque - Le differenze tra noi sono varie non ultima l’appartenere, per età, a due decadi diverse. Ma la più interessante è nelle “disanaloghe” aspettative, emozioni e potenzialità che il Mediterraneo suscita in noi. Per me – che da ventenne quando ebbi l’occasione di frequentare l’argomento in termini poetici e musicali con gruppi di rielaborazione e tra questi il Canzoniere del Lazio, coadiuvato poi da studi etnomusicologici allora rinascenti dai pionieri dei Cinquanta come De Martino, lo stesso Carpitella, Leydi e, ovviamente, l’americano Lomax – il folklorico mediterraneo fu un modo politico di uscire dalla cappa del colonialismo culturale angloamericano. Quel sound dei nostri nonni diventò il mio (e nostro di una generazione) oggetto di studio, di attraversamento, di trascrizione, di archeologia, di liberazione. Riprendo ancora Matvejević, che diceva “Il Mediterraneo era un destino”. Ma alla fine del millennio, per farla breve, la UE e la politica del mondo che conta (leggi USA & friends in Medio Oriente) hanno abbandonato il Mediterraneo aa altro destino scegliendolo come territorio cuscinetto e spazzatura e preferendo allargare ai Paesi dell’Est potenziali NATO. Risultato oggi quel Mare – sempre culturalmente bellissimo – è un cumulo di macerie. La mia idea di Mediterraneo si è fatta meno pratica. Più interiorizzata e dunque la musica che per me lo riguarda si collega più ad una utopia individuale vagante perché la realtà di questo luogo è – a mio parere – senza speranza. Il profilo del Mediterraneo è rimasto nei dettagli e lo osservo come si può stare davanti al tempio caduto di Selinunte. Mi interessa il frammento. La sua descrizione in musica mi risulta poco 
dentitaria e spesso noiosa. Ho in questo senso un pensiero Pasoliniano quello del tradire per rileggere e tramandare. In questi anni il Mediterraneo perduto me lo sono cercato e spesso trovato nell’Africa Equatoriale, nel Caribbe, in Brasile, nel raga indiano, ma anche nel jazz, in Ligeti o Monteverdi, nei madrigali del ‘600. Evitando l’accanimento terapeutico nel rifare stilemi e ritmiche che un tempo erano vive e piene di energia. Per Stefano, credo, il discorso sia più ottimistico e, come sappiamo, molto ostinato.  
Stefano Saletti - Sì, per me il Mediterraneo resta ostinatamente il mare della libertà. In questo ci vedo delle affinità tra le nostre esperienze ma anche delle differenze sui limiti che individua Luigi. Nel passato si è abusato di questo termine, trovo ridicolo ad esempio sentire spesso parlare di jazz mediterraneo quando poi gli schemi esecutivi sono quelli classici dello stile americano (dov’è il Mediterraneo mi chiedo?). Quindi è vero che quella spruzzata di etnico che andava di moda anni fa sull’onda della novità del momento, era solo un’estetizzazione sterile, ma nel Mediterraneo, nell’incontro con le altre culture c’è una forza che ancora oggi mi emoziona. Nei ritmi del Nord-Africa o in quelli frenetici e “dispari” dei Balcani, nella struggente dolcezza delle melodie portoghesi o corse, nei timbri e nei colori di strumenti affascinanti che sono cugini stretti o fratelli della nostra musica popolare, ritrovo la nostra anima perduta o abbandonata per inseguire quei modelli culturali troppo spesso imposti oltreoceano. Venendo più strettamente alla domanda. Trovo affinità nel pensare la musica come una costruzione che avvolge completamente il musicista. Entrambi ragioniamo in termini di musica totale. Non esiste solo il musicista, esiste il pensiero, una visione del mondo e della realtà anche politica se vuoi. Passiamo tanti momenti insieme a ragionare di questo e mi piace molto. Luigi è uno splendido compagno con il quale confrontarsi, ragionare, discutere. Le divergenze possono nascere dalla scelta di un suono rispetto a un altro, di una possibile via da prendere con quel brano, ma sono sempre solo dettagli che non intaccano la voglia di sperimentare e creare insieme. 

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