“...questa pietra più vecchia dei tempi, chiara come la luce, innocente più di Dio, muta come una lacrima...questa pietra di Mongolia tiene la Terra!”Damdinsuren Uriankhai, estratto da “Ogtloltsokhui”, 2007
Furono una solenne promessa, un “violino a testa di cavallo” rotto e una canzone perduta nel tempo, a riportare la giovane Urna nella Mongolia Esterna. L’amato strumento di sua nonna era andato distrutto nel tumultuoso e oscuro periodo della Rivoluzione Culturale Cinese, sul manico recava incisa un’antica canzone mongola dal titolo "I Due Cavalli Di Gengis Khan", quello e la paletta erano state le uniche parti a sopravvivere alla tempesta culturale “Quand’ero piccola vivevo con mia nonna ci prendevamo cura delle pecore in pascoli soleggiati e tranquilli. Qualche volta ero assonnata poiché ero ancora giovane, mia nonna mi lasciava riposare sulla sua schiena, mi raccontava fiabe e cantava accordi finché mi addormentavo”. La bambina, nata nell’ultimo mese dell’inverno del 1968, giocò la propria infanzia pascolando agnelli sulle dune di sabbia e vitelli sull’erba folta delle pianure di Shirdegiin Tsaidam. Possedeva già un cavallo quando iniziò a frequentare la scuola, che nella sua terra era consuetudine principiare a dieci anni. A venti la giovane mongola si iscriverà al conservatorio musicale di Shanghai, non parlava una singola parola di cinese ma imparerà ben presto sia la lingua che lo “yangqin” (hammered dulcimer). Tuttavia realizzò anche la propria incapacità di utilizzare in modo creativo le tradizioni musicali di luoghi distanti dal distretto di Ordos dov’era cresciuta, senza possedere prima la conoscenza di quelle culture altre. Tornando alla sua lontana promessa alla nonna: arrivata a Ulan Bator, Urna portò testa e manico rimasti del vecchio violino, a Hicheengui, noto liutaio che avrebbe dovuto ricostruirgli nuovo corpo e donargli corde di pelo di cavallo bianco. La storia dei due fedeli fratelli cavalli grigi di Gengis Khan è quella che meglio incarna le mutazioni storiche del popolo mongolo, una parte fondamentale della sua identità culturale, lo spirito del più giovane dei due animali, vive tuttora nei suoi discendenti. I due
cavalli un giorno se ne andarono stanchi di non venire mai ringraziati dal loro padrone e partirono prima che l’allodola bruna cominciasse a cantare. Ma dopo un certo tempo la feroce nostalgia del proprio gregge li assalì e tornarono mentre la neve si stava già sciogliendo. Nella Mongolia tutto raffigura cavalli in ogni posizione, dai dipinti alle statue, dai ponti sospesi a forma di criniera, alle canzoni tradizionali. Animali straordinari dal pelo duro e folto, capaci di sopportare sbalzi di temperatura che nella steppa passano dai +30 gradi estivi ai -40 gradi dell’inverno, capaci di grandi distanze e dalla tendenza a decidere autonomamente direzione e andatura. Urna si avviò, piena di speranza, nell'entroterra del Paese alla ricerca dei versi mancanti della canzone, rimanendo però ben presto delusa: nessuna delle persone che incontrava sulla sua strada sembrava conoscere ancora gli antichi costumi dei mongoli. Ma lei, oltre a quattro ottave di voce, possedeva volontà tenace e sapeva che niente è mai davvero impossibile. Si recò a far visita ad un’orchestra di violini, la celebre “Mongolian State Morin Khuur Ensemble”, raggiunse i nomadi dell’entroterra, assistette alle loro feste di matrimonio, visitò uno sciamano e finalmente incontrò una vecchia donna che conosceva le antiche canzoni mongole. Urna si è sempre considerata nomade, ha mutato spesso luogo di abitazione, ha vissuto al Cairo come a Berlino ma la vita è rimasta per lei, quella delle origini, del canto naturale e quotidiano della sua umile famiglia di allevatori di bestiame nella prateria occidentale dove nessuno ignora la folk music. Il suo orizzonte: quello dell’immensa steppa silenziosa che le aveva insegnato centinaia di arcaiche canzoni tradizionali; delle lunghe vallate tra i monti, dei greggi condotti da pastori erranti, della calma interiore che pervade l’anima mongola.
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