Entra in scena nel 2022 il Nubras Ensemble, un combo plurinazionale che costruisce ponti tra diversi linguaggi musicali. Un trio femminile di formazione classica intreccia i propri archetti con fiati, fisarmonica e percussioni, ispirandosi ad espressioni di tradizione orale, stilemi jazz e modalità musicali delle aree mediterranea e mediorientale. L’anno successivo, aggiudicatisi una borsa di studio nell’ambito del progetto “Culture Moves Europe”, i Nubras intraprendono una residenza artistica in Bulgaria il cui esito è “Bulgarian Routes” (2024), loro debutto discografico. Per l’occasione allargano l’organico, avvalendosi degli degli arrangiamenti di Georgi Seymenski e di altri tre eccellenti musicisti bulgari: Borislav Galabov, compositore e suonatore di gadulka, già membro dell’Ensemble Trakia, solista nel National Ensemble Filip Kutev e knell’Orchestra della Radio Nazionale Bulgara; Diyana Vasileva, voce del rinomato coro Mystery of the Bulgarian Voices; e Kiril Belezhkov, docente di flauto kaval e compositore. Lo scorso anno si autoproducono il secondo disco, “Live in Rome”, che fissa una sessione dal vivo, dove alla line up di base (da cui è uscito il campano Cioffi) si aggrega il percussionista di lungo corso Giovanni Lo Cascio e partecipano, come ospiti, le cantanti Roxana Ene e Yasemin Sannino e i fiatisti Giacomo Serino e Leonardo Poggiali. Oggi, Nubras Ensemble comprende la veneziana Giulia Anita Bari (violino), la valenciana Carla Mulas González (violino), la cracoviana Rachel Blueberger (violoncello), il trentino Giorgio Gadotti (sax alto e gaida), il napoletano Nino Conte (fisarmonica), il romano Giovanni Lo Cascio (tapan, dahola e tamburello) e la romena-romana Roxana Ene (voce), entrata integralmente nella band. Li incontro in un pomeriggio napoletano di fine novembre, all’indomani del loro showcase a “Napoli World”; ci accomodiamo per strada al tavolino di un piccolo bar dei Quartieri Spagnoli e, dopo aver discusso di genovese, pasta alla siciliana e di altri piatti napoletani assaggiati in una popolare e brulicante trattoria del quartiere, inizia una chiacchierata polifonica sul percorso creativo della band.
Giulia Anita Bari - Dall’esperienza maturata al Balkan Lab di Roma, dove io e Carla abbiamo iniziato a suonare. Si tratta di un laboratorio, diretto da Federico Pascucci, che ha gradualmente messo insieme musicisti amatoriali e professionisti desiderosi di approfondire i linguaggi delle musiche balcaniche. Poi è arrivato anche Giorgio, e questo ci ha permesso di entrare in contatto con queste sonorità da un punto di vista più didattico, approfondendone le estetiche. Tuttavia, sentivamo il bisogno di non far parte di un’orchestra predominata dai fiati, perché questo avrebbe limitato la possibilità di esprimere i nostri suoni. Così abbiamo deciso di creare un ensemble più piccolo, con cui abbiamo cominciato a sperimentare. Avevamo due violini e Giorgio, che proviene dalla scena del Siena Jazz come sassofonista. All’epoca, alla fisarmonica c’era Samah Boulmona, un musicista libanese, e Rachel, che avevamo incontrato in una malga a 2000 metri a Capodanno. Abbiamo iniziato a studiare insieme e, piano piano, la cosa è evoluta, prendendo le forme di Nubras. Poi è arrivato Nino e, più recentemente, si sono uniti Giovanni alle percussioni e Roxana.
Da dove proviene il nome Nubras?
Giulia Anita Bari - Il nome è stato suggerito, proprio da Samah. Ci chiamavamo No Brass Quartet, ma lui ci disse che in arabo esiste una parola – che in realtà non c’entra niente con No Brass – che è “Nubras”, che vuol dire coraggioso, anzi è la lanterna della persona coraggiosa che apre nuove strade. Così con un gioco di parole, da No Brass siamo diventati Nubras.
Quale area dei Balcani a questo punto avete deciso di perlustrare?
Giulia Anita Bari - La prima cosa è stata iniziare a viaggiare, andare nei luoghi e stare con le persone. Siamo stati in Romania, ospiti a casa di Marcel Ramba, un grandissimo violinista di Cluj. In Bulgaria, poi, abbiamo tutti iniziato a esplorare e a vivere fisicamente il luogo. Con i bulgari è nato un vero e proprio
progetto: siamo stati finanziati da un progetto europeo e siamo andati in Bulgaria a registrare e a costruire delle cose insieme a loro. Da lì è nato “Bulgarian Routes”, che è il nostro primo album.
Cosa è accaduto in Bulgaria?
Giorgio Gadotti - All’inizio suonavamo anche musica romena e serba, poi ci siamo un po’ spostati verso l’area della Bulgaria, in parte forse perché è più nelle nostre corde. La musica bulgara è più vicina alla Turchia, ne prende anche un po’ di tradizione. Alla fine, effettivamente, i Rom suonano comunque musica turca. Se consideri le tradizioni di quei Paesi, pensiamo, ad esempio, alla musica romena, i romeni non la definiscono neanche balcanica, è proprio una cosa a parte. È molto più continentale come suono, legata in parte anche alle armonie europee dell'Europa occidentale, quindi armonie classiche. Nel ‘900 si è sicuramente contaminata anche con l’armonia jazz. Invece, la Bulgaria ha una matrice più modale e molto più mediterranea. Vogliamo anche un po’ uscire da questa definizione di "balcanico", perché in realtà, al di là dell’essere appassionatissimi di musica balcanica, ci sentiamo proprio di appartenere culturalmente al Mediterraneo. Come dice Giovanni, noi siamo apolidi: veniamo dal jazz, però abbiamo studiato altre cose, siamo polistrumentisti, e il trio d’archi viene dalla musica classica. In realtà, la Bulgaria è un pretesto, anche un periodo. Non escluderei che, un domani, potremmo fare un focus, per esempio, sulla musica smyrneika, sempre come base da cui partire, cioè come un attraversamento.
Come riuscire a conciliare queste diverse anime?
Giulia Anita Bari - Una cosa che ci ha sempre affascinato è questo groove che hanno le fanfare balcaniche, con i loro levare, e i bombardini. Io credo che, non so se ieri nello showcase (riferendosi a “Napoli World”, ndr) si sia percepito, ma l’uso che facciamo degli strumenti, che in alcuni momenti è molto classico, permette al trio d’archi di sfruttare le sue potenzialità, che sono quelle date dagli strumenti di legno, per trasformarsi. Prendiamo molto spunto dagli accompagnamenti delle fanfare di ottoni per
utilizzare il nostro strumento anche solo in modalità di accompagnamento. Il violino non deve essere per forza il protagonista: come nelle orchestre, può funzionare da parte dell’orchestra e accompagnare. In tutto questo è importante il ruolo di Giovanni, che su questo ci guida e ci dà dei consigli su come costruire gli accompagnamenti. Secondo me, l’elemento interessante è un po’ snaturare il violino, uno strumento sempre visto come solista utilizzandolo in maniera più “sporca”.
Carla Mulas González - È una ricerca interessante, perché vedo che quando componiamo gli arrangiamenti, facciamo uso di questi nuovi elementi ai quali noi, come musicisti classici, siamo ancora poco abituati. Stiamo studiando e applicando questi elementi, ma sempre con la concezione grammaticale della musica classica. Per esempio, quando creiamo melodie nuove e suoniamo insieme, escono delle idee. La prima cosa che mi viene in mente per costruire insieme e mettere d’accordo il meglio possibile la timbrica e l’uso delle potenzialità di questi strumenti è una grammatica “classica”. Il mio linguaggio è quello, e lo mettiamo in moto, ed è lì che ho trovato il punto forte: per me, il sogno era creare un gruppo di musica da camera, aggiungendo gli ingredienti che abbiamo di nascita, quelli che acquisiamo studiando. Nuovi stili, come quelli della musica bulgara, che Giorgio conosce molto bene, quelli che stiamo studiando tutti, e tanti altri stili futuri a cui ci rivolgeremo.
Giovanni Lo Cascio - Il primo brano che eseguiamo nel concerto è stato arrangiato proprio per prendere ispirazione dal suonatore di zurna Kurtov, un musicista che suona la zurna in maniera incredibile, accompagnato dal tapan. Lei (riferendosi a Giulia Anita Bari, ndr) ha fatto un arrangiamento con cui, peraltro, inizia il concerto, utilizzando il violino quasi come se dovesse emulare una zurna, che è uno strumento completamente diverso, con una doppia ancia e una potenza incredibile. Quindi, in realtà, sono piccoli spunti che prendono dal linguaggio melodico e ritmico della musica dei Balcani, in particolare della musica bulgara, per provare poi ad adattarla al corpo e allo strumento, per vedere cosa succede. All’inizio anche per loro è stato un effetto strano e anche per noi, ma piano piano si sta creando
un’identità. L’identità non si crea a tavolino, nasce attraverso un processo di ricerca e selezione: “Questo funziona, questo ci piace, questo non so cosa sia, ma ci piace, questo meno”. Quindi siamo in una fase dove loro stanno sperimentando e credo che questo sia il nucleo di Nubras, perché nasce proprio dal concetto di “No Brass”, cioè nel senso di utilizzare gli archi in questa musica e capire quale uso possiamo farne. Loro stanno facendo questo tipo di sforzo mentale, cercando di proiettare il proprio strumento in una musica che usa strumenti simili ma in un modo completamente diverso.
Giulia Anita Bari - Come dice sempre Giorgio, che è il nostro mentore e ci spinge sempre a studiare, tanti gruppi fanno musica dei Balcani. La musica dei Balcani è davvero un milione di cose diverse. Focalizzarsi su una tradizione e studiarla in profondità è fondamentale, perché gli ornamenti e il linguaggio dei bulgari, anche all’interno della stessa Bulgaria, sono differenti e complessi. È una musica molto difficile, virtuosistica. Studiare una lingua musicale per poi dimenticarla e assimilarla a ciò che sei tu stesso: questo è il nostro processo. Perché, alla fine, la domanda che ci poniamo sempre è: “Ma chi siamo? E perché stiamo facendo questa cosa?” Ok, ci piace, abbiamo un feeling con questo suono, ma… rispetto a quella musica, noi che non siamo né Rom né Bulgari, che cosa possiamo dire? Quello che possiamo dire è quello che siamo noi, quindi dobbiamo studiare tanto. In modo approssimativo si riesce a fare poco, o al massimo qualcosa di poco convincente, a meno che non si sia un genio. Noi siamo persone equilibrate e normali, che studiano e cercano di capire. Poi, è importante lasciare che tutto venga digerito e assorbito. Siamo in una fase di ricerca, stiamo prendendo cose che ci piacciono e cercando di trasformarle.
Giorgio Gadotti - Non credo che sia impossibile farsi carico di una tradizione in cui uno non è nato. Se sono nato in Italia, per esempio, posso comunque essere appassionato di una musica che magari non ha nulla a che fare con le mie origini. Io sono appassionatissimo della musica bulgara. Vado in Bulgaria, la suono, la studio, e mi immergo in quella cultura. Però, anche se mi dedico a fondo a quella musica, non vivendo in Bulgaria, non essendo bulgaro e non parlando la loro lingua, non posso viverla con tutti i sensi, come un bulgaro. Ma c’è anche la contaminazione e lì entra in gioco il fatto che quello che uniamo
diventa unico. Ad esempio, Nino, che è un altro musicista fantastico, ha un modo unico di suonare. Ora sta componendo dei brani, e sento che, pur studiando le melodie e le armonie di Petar Ralchev, uno dei fisarmonicisti bulgari più virtuosi, quando lui compone, ci mette dentro qualcosa di suo. Esce fuori una parte di tarantella, che è una tradizione che lo ha segnato negli ultimi 15 anni. È bellissimo ascoltare come la musica bulgara si mescoli con questa sua influenza. E, con il suo approccio classico, sta creando una fusione davvero interessante. Poi, quando Carla prenderà le sue idee, le sistemerà e aggiungerà arrangiamenti di archi, vedremo come prenderà forma. Alla fine, penso che il folk si rinnovi proprio così. Alcuni bulgari riconoscono questa contaminazione, e credo che la apprezzino.
Giulia Anita Bari - Adesso siamo arrivati a un punto cruciale, perché sono entrati nuovi elementi freschi: Giovanni con tutto il suo mondo, la sua pacatezza, la dolce musica persiana, e poi c’è Roxana con la sua energia travolgente… due mondi che, già di per sé, stavano mescolandosi, e noi eravamo già nei casini...
Roxana Ene - Ho visto la locandina di un loro concerto a Roma. Da piccola avevo questo sogno: “Prima o poi voglio cantare con un ensemble”. Così, ho pensato che fosse il mio momento. Sono andata da loro, li ho ascoltati e mi sono presentata dicendo: “Sono una cantante rumena di origine Rom, nata a Roma”. Piano piano, ho iniziato a lavorare di più con Giulia, con cui avevo più contatti, e abbiamo fatto qualche collaborazione. Poi, a luglio, siamo arrivati al primo concerto in cui ho cantato diversi brani. Da lì, l’unione è diventata sempre più forte.
Cosa hai portato?
Roxana Ene - Beh, sicuramente ho portato con me questa identità complessa che, finalmente, ora riesco a esprimere. Ho fatto quello che potrei chiamare un “coming out etnico” e, anche se l’ho fatto tardi, ho deciso di rivelare le mie origini rom. L’ho fatto soprattutto perché nella mia voce sentivo che c’era qualcosa di legato a questa identità, e ho capito che era il momento di dirlo. Sono cresciuta a Roma, dove da piccola cantavo le canzoni romane, quindi c'era tutta questa complessità identitaria da affrontare. Abbiamo anche lavorato sui testi, riscrivendo brani e affrontando tematiche sociali rilevanti. In particolare, nel nostro lavoro abbiamo cercato di rappresentare una romanità che è anche rom, come nel brano “La Fioraia”, che è scritto in dialetto romano e racconta la storia di una donna Rom, iniziando però con parole in rumeno.
Giovanni Lo Cascio - Sono un esploratore del ritmo. Sono affascinato da tutto ciò che riguarda ritmo e timbro percussivo. Lo so, è una sorta di “malattia”. Nel corso della mia vita ho fatto e suonato davvero tante cose. Ma alla fine ciò che mi dà più gioia è suonare. Se mi dai uno strumento e dei musicisti con cui condividere la musica, sono felice. Anche quando questo richiede sforzi enormi, suonare mi ripaga di tutto. Mi sento fortunato a far parte di questo gruppo: sono musicisti eccezionali. È una nuova generazione che affronta la musica con grande preparazione, sia classica che jazz, e con un enorme rispetto per la musica stessa e per gli altri. Questo senso di ascolto e serietà è meraviglioso. Mi hanno accolto in questa famiglia, e io mi sento privilegiato e onorato. Credo che loro apprezzino il fatto che, avendo un po’ più di esperienza, possa offrire qualche consiglio ogni tanto.
Non solo Balcani: in concerto riprendete “Lu soprastante” di Matteo Salvatore. Ce ne parli?
Giulia Anita Bari - Da incaricato a sorvegliare le terre, col tempo, il suprastante è diventato simile a un caporale: una figura di raccordo tra i datori di lavoro e i lavoratori, spesso della stessa nazionalità della squadra che coordina. Oggi, come allora (come racconta la canzone di Matteo Salvatore), i caporali gestiscono le squadre e trattengono una quota dalla paga. Per tanti anni ho avuto l’Orchestra di Braccianti e ho lavorato intensamente nei ghetti del sud Italia. Sono stati anni lunghi e impegnativi. Da quell’esperienza è nata l’idea di portare alla luce i musicisti che avevamo incontrato lì, e così abbiamo costruito l’orchestra, che ha avuto la sua storia e il suo percorso. Devo dire che tutti noi condividiamo una forte coscienza politica. Credo che, soprattutto in questo momento storico, sia fondamentale che i musicisti si riapproprino di uno spazio politico. Non intendo cantare slogan; è un processo molto più complesso, ma è necessario. La musica deve tornare all’interno delle comunità, perché oggi è stata totalmente espropriata dal contesto in cui è nata: persone che si mettono in cerchio, si raccontano, ritualizzano. La musica serve per scandire la giornata, raccontare i problemi, stimolare le persone a reagire e a sviluppare un pensiero critico. Tuttavia, oggi è sempre più difficile avere, esprimere e trovare uno
spazio per questo tipo di pensiero. Il tema dei braccianti, a cui tengo molto, è un problema enorme per l’Italia. Questo progetto è nato proprio dopo la morte di Satnam Singh a Latina, abbandonato agonizzante con il braccio tranciato, poggiato in una cassetta della frutta. Andammo a cantare a Latina un brano legato a questa tragedia, che abbiamo poi rivisitato con l’uso dei krakeb, uno strumento associato alla schiavitù. Abbiamo adottato un approccio simile per “Cjetova,” un brano bulgaro a cui abbiamo aggiunto parole dedicate alla libertà delle donne, per stimolarle a uscire da schemi interiorizzati purtroppo da molte di noi. La musica deve essere suonata bene e non deve essere autoreferenziale. Non c’è più spazio per questa autoreferenzialità: ce n’è già fin troppa. Con la musica balcanica c’è sempre questa sensazione che inviti a muoversi e a ballare. Tuttavia, è importante che ci sia anche un messaggio, qualcosa che arrivi al pubblico, soprattutto quando si suona in Italia. Le parole devono essere comprensibili e servire a decostruire stereotipi, come quello della donna rom o zingara che vende le rose.
Come è nato il “Live”?
Giovanni Lo Cascio -È un’autoproduzione. In realtà, era il primo concerto che facevo con loro, a parte un piccolo intervento precedente. Lo abbiamo registrato in una situazione dove era abbastanza comodo farlo bene. Siccome il sound era cambiato rispetto a prima, perché i pezzi erano un po’ diversi e il mio ingresso aveva alterato un po’ l’impronta sonora, ci siamo ascoltati quel materiale e abbiamo detto: “Intanto, questo rappresenta meglio ciò che è oggi Nubras rispetto al disco precedente, che risaliva a un anno prima. La registrazione era buona. Certo, è un live composto da brani, alcuni nuovi e altri che, all’epoca, io stavo ancora imparando. Per alcuni di quei pezzi, leggevo ancora gli spartiti, quindi eravamo in una fase molto embrionale rispetto ad adesso. Però abbiamo deciso di pubblicarlo, perché rifletteva meglio quello che Nubras era in quel momento e avrebbe potuto diventare nei mesi successivi. Non ci siamo fermati, perché l’idea è sempre quella di andare avanti e produrre cose nuove. Alla fine ce lo siamo prodotti da soli.
Giorgio Gadotti - Lavoriamo su brani originali. Fino ad ora abbiamo realizzato arrangiamenti molto forti e personalizzati su materiale tradizionale, partendo magari da una melodia o da un’idea già esistente. Ora, invece, stiamo iniziando a comporre melodie completamente nostre. Di recente abbiamo lavorato su un brano scritto insieme da Giulia e Roxanne, e abbiamo composto anche degli strumentali firmati da Carla e Nino. Insomma, dal prossimo album, e in particolare dal 2025, emergerà davvero la nostra identità musicale.
Che anno sarà il 2025 per il Nubras Ensemble?
Giorgio Gadotti - A livello musicale, il 2025 sarà l’anno in cui almeno metà del nostro concerto sarà composto da brani originali. Sarà il momento in cui inizieremo davvero a sperimentare con questa nuova originalità. È chiaro che, quando si lavora con materiale tradizionale, si possono fare arrangiamenti o modificarlo, ma la matrice rimane sempre legata a qualcosa che esisteva già. Con i nostri brani originali, invece, potremo esprimerci pienamente e mostrare qualcosa di autenticamente nostro.
Roxana Ene - Come accennato prima, pubblichiamo “La Fioraia”, il cui titolo originale è “Mama mea e florareasa”, un omaggio alla cantante rom rumena Gabi Lunca! È un brano che racconta di questa madre che vende i fiori per crescere i figli. Ho riscritto il testo in dialetto romano raccontando del riscatto femminile e generazionale. La scelta del dialetto nasce dal desiderio di esprimere la mia identità culturale complessa. L’arrangiamento fedele per lo più alla versione originale con un intro di Nino Conte dove omaggia il fisarmonicista rom rumeno Ionica Minune.
Giovanni Lo Cascio - Dopo il Capodanno in piazza a Latina, faremo un concerto alla Accademia Chigiana, dove invece saremo in punta di piedi, apparentemente sarà cameristico per le dinamiche e i volumi. Il nostro è un gruppo estremamente elastico, dobbiamo riuscire a conciliare queste varie anime che ci sono e che abbiamo, perché non è che il mondo è sempre morbido o sempre duro o sempre grintoso: bisogna trovare un equilibrio. Per farlo, abbiamo deciso di vederci regolarmente. Non è facile organizzarsi, ma ci siamo imposti di dedicarci almeno una volta al mese a sessioni intense di tre giorni, dove concentriamo tutte le nostre energie creative.
Nubras Ensemble – Live in Rome (Autoprodotto, 2024)
Il brano d’apertura di questa calda live session capitolina è “Omaggio a Kurtov” – dedicato a Samir Kurtov, uno dei più rinomati suonatori bulgari di zurna di origine romaní. Gli archi riproducono il caratteristico fraseggio dell’oboe popolare, restituendo il senso di una fusione di storie musicali: un ensemble di archi di formazione classica si intreccia con fiati (sax e gajda), fisarmonica e percussioni. Un inizio impetuoso per il viaggio nelle tradizioni musicali di area balcanica che la band plurinazionale aveva già intrapreso nel disco di debutto, “Bulgarian Routes” (2023). Dallo stesso cuore dei Balcani arriva “Krivo Pazardjishko”, imperniato sul modulo coreutico dell’horo: si tratta di un pezzo appreso dal repertorio del virtuoso suonatore di gadulka Borislav Galabov. La festa continua con “Nubras Tropanka”, una danza della Dobrugia che procede giocando su differenti andamenti ritmici. Invece “Nevestinsko” è uno horo macedone, nello specifico è una danza nuziale. Sono due motivi mai scontati negli arrangiamenti proposti dall’Ensemble, che predilige cambi di scenari, esaltando il suono d’insieme ma al contempo proiettando luce sui solismi (ascoltate la fisarmonica di Nino Conte). “Una danza della provincia di Kardzhali” è una râchenitsa, che ci porta nei Rodopi orientali: che bello il dialogo serrato, prima tra archi e fiati poi tra archi e mantice, sostenuti dal solido elemento percussivo, fino a giungere al solo di sax! Ben pertiene all’idea di attraversamento che sostanzia il fare musica dei Nubras, è la romantica canzone “Üsküdar’a Gider İken”, folk song turca (ambientata del quartiere storico di Istanbul situato nella parte asiatica del Bosforo) che negli anni ha viaggiato verso ovest e perfino oltreoceano, cambiando lingua e abito musicale: qui si impone la preziosa vocalità di Yasemin Sannino, prima ospite dell’album. La longa è una forma di danza che dai Balcani si è diffusa in Turchia e poi nel mondo arabo: “Longa Riad” è una celebre composizione novecentesca dell’egiziano Riad al Sunbati, cui segue un’altra longa, “Kurdili Hicazkar”, che questa volta ci porta proprio nella Turchia ottomana multiculturale. Il brano, nel modo hicazkâr del maqam, è tra i più popolari, ed è opera del compositore e violinista turco ottocentesco di origine armena Kemani Sebuh Efendi. La successiva “Suite di Pirin” ci riporta in Bulgaria (è stata composta dal suonatore di kaval Kiril Belezhkov, altro rinomato solista), ma come sempre i Nubras fanno dialogare in maniera inusitata archi e percussioni ed archi e fisarmonica, prima far ripartire il ritmo dispari dispiegando il pieno assetto orchestrale, ma pure lasciando spazio allo spadroneggiare del sax. Archi e gajda aprono “Una pizzica in Bulgaria”, l’ingresso di percussioni ci scaraventa in una piazza ballerina del Salento, una dirompente gajda solista entra nuovamente sull’avvincente tessuto ritmico e armonico di questo spumeggiante andirivieni tra Sud Italia ed Est Europa. Eccellente si rivela la rilettura di “Di chi è quella ragazza”, arrangiamento originale della canzone popolare bulgara “Chie e tova momiche?”, nella quale entra la voce di Roxana Ene (al tempo dell’incisione ospite ma ora a tempo pieno voce solista del Nubras). Subito dopo si affaccia “Se giri l’angolo, c’è un giardino di fiori”, rivisitazione della canzone originale “Kanya se, Kune mome”. Non si concedono pause, così la temperatura si mantiene alta in “Čoček Cororo”, , featuring i traboccanti fiati di Giacomo Serino alla tromba e Leonardo Poggiali al sax baritono, valore aggiunto di questo vivacissimo motivo rom serbo che conclude “Live in Rome”. Un’istantanea sonora che cattura l’essenza di una band musicalmente in divenire, consapevolmente in evoluzione, audace nel creare insolite tessiture timbriche, insieme a invenzioni melodiche e armoniche.
Ciro De Rosa
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