Paolo Angeli – Níjar (ReR Megacorp/Anma Productions, 2023)

Paolo Angeli: trittico musicale

#BF-CHOICE 

Jar’a”, “Rade” e “Níjar”. Tre nuovi dischi in tre anni per Paolo Angeli, anzi quattro con la pubblicazione di “Jalitah”, registrato dal vivo nel 2018 insieme a Jacopo Incani/Iosonouncane (a sua volta autore di un triplo album nel 2021, “IRA”). In studio, “Níjar” era nato nelle stesse due giornate di registrazioni che avevano dato vita a “Rade”: due odi, una al lato solare e alle coste del Mediterraneo, l’altra alla poesia di Lora e del flamenco, in un dialogo capace di abbracciare dal canto liturgico e la psichedelia, rinnovando il rapporto con Marti Jane Robertson in fase di editing e missaggio e sempre attento alla dimensione grafica, con espliciti riferimenti cromatici a “Sketches of Spain” di Miles Davis e “Olè” di John Coltrane nell’incontro con Emanuela Manuche Porceddu per la copertina, arrivato come un’illuminazione: “Osservando ‘Manuche - Postcards from’ nel suo work in progress basato su un cardo - da lei raccolto, fotografato e poi stampato in serigrafia - ho pensato che rappresentasse perfettamente il concetto alla base dell'album”. Nel frattempo, anche il fratello Nanni Angeli ha sviluppato il lato del suo lavoro di fotografo che si intreccia alle musiche di Paolo. A giugno, con il Circolo Arci Area Sismica di Meldola, ha inaugurato a Cervia la mostra “Preposizioni semplici”, prima esposizione di foto scattate in quasi trent’anni accomunate dall’essere nate come “pezzi singoli” per “illustrare” le musiche dei dischi solisti di Paolo, il tentativo di raccontare ogni nuovo disco con una foto, alternando pellicola e digitale, bianco e nero e colore, dettagli di realtà e rari campi larghi: 13 immagini (dal 1995 al 2022) di cui 6 a colori e 7 in bianco e nero, “che narrano la storia di un rapporto profondo, il tempo di due percorsi paralleli in cui ogni disco rappresenta un punto d’incontro”.  Non c’è due senza tre, ad un anno di distanza da “Jar’a” riprendiamo la conversazione con Paolo Angeli mentre è in tour in giro per il mondo.

Cominciamo da “Níjar” che ci ricorda che da diciassette anni vivi in Spagna. Hai scelto come titolo dell’album questa cittadina andalusa che nel 1928 ispirò Garcia Lorca: in che modo quel territorio impasta la tua musica?
Níjar è prossima ad Almeria, in Andalusia, un’area caratterizzata da ampie zone pressoché desertiche, in cui, tra le altre cose, ambientavano i film western. L’album “Níjar” è una vera e propria colonna sonora del libretto teatrale “Bodas de Sangre” di Federico García Lorca: ne ricalca il montaggio e la suddivisione in atti e quadri. Le arie desertiche in cui è ambientato il dramma, mi hanno portato ad utilizzare molto i delay analogici, per avvicinarmi ad evocare il suono della natura: è un album che sa di vento e di polvere, di passione.

In “Níjar” confluiscono flamenco, l’ascolto dei brani registrati da Lomax negli anni '50, il jazz di Miles Davis (che grazie alla Columbia si fece ispirare da quelle registrazioni) e Coltrane, l’idea della colonna sonora: come dialogano queste dimensioni musicali?
Dopo aver ascoltato dal vivo Paco del Lucia nel 2010, il mio rapporto con il flamenco è stato viscerale. È una musica con una indiscutibile radice gitana, che esprime in profondità il legame con la cultura andalusa, ma che ha, grazie alla sua natura meticcia, la capacità di collocarsi nella contemporaneità. Quando si parla di flamenco è inevitabile citare i grandi interpreti che ne hanno tracciato la storia, partendo dai grandi cantor e chitarristi del passato, fino ad arrivare a due figure rivoluzionarie. La prima è costituita dal binomio Paco de Lucia e Camaron de la Isla; la seconda ruota intorno ad Enrique Morente. Paco ha compiuto diverse trasformazioni, inizialmente ha rinnovato il lessico chitarristico, per arrivare all’orchestrazione con l’uso del Cajon (strumento peruviano), l’introduzione del flauto traverso e il sax e del basso elettrico. Camaron, realizzando nel 1979 “La leyenda del Tiempo”, ha portato oltre la sfida: è un album che i gitani restituivano ai negozi dicendo “..questo non è Camaron! “
Parliamo di una registrazione rivoluzionaria, in cui si trovano strumenti come il Moog, la batteria, le chitarre elettriche, il piano fender e il Sitar. Il testimone della sperimentazione fu raccolto da Enrique Morente, famoso per la sua insaziabile necessità di ricerca. Vanno citate le sue commistioni tra flamenco e le voci bulgare, gli incontri con Pat Metheny. Ma, tra tutti, il suo album di rottura fu Omega, realizzato nel 1996 con la band punk Lagartija Nick e, in alcuni casi, proposto dal vivo con la partecipazione dei Sonic
Youth. Morente iniziava i live con il flamenco puro, voce e chitarra, per poi fare aprire il sipario su una montagna di amplificatori, proponendo un muro di suono e di Larsen sulla soglia del rumore. Il cantaor di Granada venne considerato dai puristi l’assassino del flamenco. Ma con il tempo i due album che ho citato, veri e propri disastri commerciali quando vennero pubblicati, sono diventati i punti di svolta di questo genere musicale: una cultura viva e in continua trasformazione. Come potevo approcciarmi a questa storia? Davis e Coltrane avevano già tracciato la strada e costituivano un perfetto e riuscitissimo approccio: non era necessario per loro essere spagnoli, gitani, andalusi per avvicinarci a questa forma d’arte. Lo hanno fatto calandosi con rispetto in questa musica ma dal punto di vista del jazz. Davis interpreta le Saetas della grandissima cantora la Niña de los Peines. Morente sosteneva che una delle Saetas più belle mai incise nella storia era stata quella di Miles Davis.  Ecco, forse sono stato prolisso, ma per me l’approccio è molto simile. Ho ascoltato centinaia di esibizioni di musicisti flamenco, ne ho analizzato le forme, i Palos, le dinamiche di relazione tra il ballo, il canto e la chitarra. Solo dopo aver digerito questa esperienza ho sentito di calarmi nell’album che considero il mio album spagnolo. Per questo rivendico un concetto meticcio con la copertina ideata da Manuche: una continuità con i dischi di Davis e Coltrane. “Níjar” è il mio tributo rispettoso alla storia musicale espressa dai grandi interpreti del passato e, allo stesso tempo, ne osserva le trasformazioni calandole tra le musiche che ho più amato nel mio percorso creativo.

Come si sta sviluppando il tuo lavoro vocale e il tuo rapporto con lo spagnolo?
L’album – ad eccezione delle parti vocali e del brano “A Federico” in cui, per la prima volta dopo tanti anni, abbandono la chitarra preparata per suonare una chitarra flamenca – è stato registrato nella stessa seduta di “Rade”. La mia vocalità è in continuità con quella espressa nei miei album precedenti: fa riferimento al repertorio tradizionale sardo. È incredibile la somiglianza delle linee melodiche della nostra tradizione con quelle iberiche. Va considerata la dominazione spagnoli di quattro secoli. Ma va anche analizzata la differente armonizzazione dei canti polivocali che viene realizzata tra la Sardegna, la Corsica e la Spagna. Inizialmente mi trovavo in difficoltà: avevo sempre e solo cantato in sardo o gallurese. Ma in seconda battuta ho considerato le parti vocali come uno zoom sul testo dell’opera teatrale. Sarebbe stata 
una forzatura interpretarli in ‘limba’, soprattutto perché dopo diciassette anni lo spagnolo è parte della mia vita.

E i testi che canti nell’album? Come li hai scelti e qual è oggi l’attualità di Lorca, in particolare nel Mediterraneo?
Li ho scelti per cadenzare l’andamento della colonna sonora. Nei momenti in cui introduco la voce umana, ribadisco il collegamento con il libretto teatrale. Uno dei momenti più emozionanti soprattutto dal vivo, è il “Monologo della luna”. Ma se c’è una traccia che devia verso la musica contemporanea e che sintetizza anche la mia passione per l’art-pop di Björk, è la tittle track “Níjar”.
Es justo que yo aquí muera
con los pies dentro del agua,
espinas en la cabeza.
Y que me lloren las hojas.
Questo testo è un manifesto della passionalità sentimentale tra due esseri umani, è l’apice della stesura del testo. Ma se i versi vengono estrapolati dall’opera, assumono una funzione di denuncia sociale: è giusto che io muoia qui, con i piedi dentro l’acqua, le spine nella testa, e che mi piangano le foglie…  Non trovi che possa essere il commiato di uno dei tanti migranti morti in mare? 
Questa ovviamente è solo una meta-lettura, una seconda chiave dello stesso testo, che evidenzia il tradimento dell’occidente nei confronti dei popoli del sud del mondo. Nei giorni in cui stavo ultimando la registrazione delle parti vocali dell’album, si sono verificati dei fatti di cronaca che hanno catalizzato l’attenzione dei media. Proprio a Níjar è stata rasa al suolo un’intera baraccopoli di migranti, in gran parte africani, che lavorano nell’agricoltura, in condizione di semi schiavitù molto simile a quelle che si verifica in Calabria e Puglia. 
Ho pensato: come avrebbe reagito Federico García Lorca a questo fatto di cronaca?  Avrebbe scritto un libretto teatrale denunciando questa situazione? Il brano è stato utilizzato come colonna sonora delle fotografie di Giulio Piscitelli sulle condizioni dei migranti in Libia, prodotto da Medici senza frontiere.

Quali sono gli elementi di continuità e quali nuovi nella tua collaborazione con Marti Jane Robertson?
Marti è il perno delle mie nuove produzioni. È una fortuna incredibile avere in Sardegna una risorsa così importante e competente. Non è necessario che sia io a sfoderare il suo curriculum per evidenziare il suo percorso in studio in ambiti internazionale che spaziano dal jazz, al rock, alla musica d’autore. Con lei abbiamo un’intesa speciale, umana e professionale. Per me è sempre magnifico poter realizzare i miei album in Sardegna: è la terra in cui faccio decantare e sedimentare tutti gli input che raccolgo nei miei viaggi e nella mia quotidianità. Con Marti è maturata una totale fiducia e per un musicista trovare questa sinergia, senza dover spiegare niente, è una grande fortuna. Il mix di “Níjar”, ad esempio, è stato realizzato a distanza, con me a Valencia e Marti a Cagliari. Solo con un’anima creativa gemella puoi raggiungere certi livelli di intesa e professionalità.

Quasi in contemporanea con "Níjar" è uscito "Jalitah": vuoi rievocare per noi la collaborazione con Iosonouncane, la produzione discografica di queste registrazioni? 
Con Jacopo abbiamo vissuto un tour sorprendente nel 2018. Io rientravo dalle esibizioni oltreoceano, culminate con il live alla Carnegie Hall, lui stava raccogliendo gli esiti dell’album stupendo “DIE”. Ci siamo ritrovati a fare sold out in teatri da oltre 1000 posti, per un pubblico misto, che da un lato osservava con sospetto me che eseguivo canzoni (per quanto storte e innovative) e, dall’altro, lui che si lanciava in lunghe improvvisazioni che facevano da collante tra i brani. È stato un incontro coraggioso, estremamente creativo, che sta lasciando un segno importante e che considero molto prezioso nel mio percorso artistico. Oggi potete cogliere quello che è stato in un album che, penso, troverà anche tra un decennio la stessa curiosità e attenzione di oggi. Quando la musica viene fatta con onestà intellettuale e gli incontri avvengono per necessità creativa, si supera il tempo.

Avete in serbo nuove collaborazioni?
Per il momento entrambi siamo proiettati sui nostri percorsi individuali. Sicuramente non vogliamo fare un tour con lo stesso repertorio registrato su “Jalitah” per cui dobbiamo necessariamente scrivere un nuovo capitolo del nostro incontro. Mai dire mai… 

Rispetto a "Rade" hai cambiato chitarra: come è nato e si è sviluppato il rapporto con il liutaio Michelutti e cosa ne è nato?
Non è stato semplice. Suonavo la Stanzani, sorella gemella di quella adottata da Pat Metheny, dal 2003. Allo stesso tempo sentivo la necessità di apportare altre modifiche allo strumento, realizzare nuovi prototipi, aggiungere corde, perfezionare concetti già esplorati ed abbandonati a metà strada. Carlos e Francesco Michelutti mi hanno accolto nella loro liuteria con un’apertura mentale rara da trovare nel mondo degli artigiani. Sono stati i perfetti complici per questa nuova avventura. Inoltre, entrambi sono in grado di passare dalla liuteria chitarristica a quella degli strumenti ad arco. Questa conoscenza non 
comune è stata fondamentale per approcciarsi alla realizzazione della mia chitarra che, a tutti gli effetti, si colloca a metà strada tra la chitarra, la percussione e il violoncello. Quello che posso dirti, dopo un rodaggio di 5 concerti dal vivo, è che è uno strumento sorprendente, con 25 corde, e che permetterà uno sviluppo del mio linguaggio verso sentieri inesplorati. Proprio in questa fase del tour in solo ho la sensazione che lo strumento si sia assestato e che sia insostituibile per esprimere le idee musicali che sto maturando in questo momento. Sono un grande ammiratore della liuteria Michelutti e felice del rapporto professionale ed umano che si è creato tra di noi. Stiamo già valutando insieme come modificare ulteriormente la chitarra: un peccato che Cremona non sia dietro l’angolo.

Che occasioni avremo di ascoltare questi album in concerto?
In questo momento sto eseguendo parte di “Níjar”, inglobandola nel repertorio del Rade Tour. Negli ultimi tre anni ho realizzato “J’ara”, “Rade” e “Níjar” e cerco in ogni concerto di dare spazio ai tre lavori e anche a riprendere parti da Talea e 22.22 free Radiohead. Credo che l’esperienza live debba rimanere un contesto in cui un’artista possa esprimersi in modo imprevedibile e, se necessario, che abbia la libertà di rivoltare come un calzino la sua scaletta ogni sera. Come posso spiegare quello che, ad esempio, è accaduto ieri nel festival Etnosfera di Aggius? Mentre eseguivo un brano tradizionale del loro repertorio, dal pubblico è 
scattata l’armonizzazione da parte dei cantori del paese. Credo che sia stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita professionale, anche perché il canto di Aggius (la Tasgia), insieme al cuncordu, è l’espressione canora che amo di più della musica sarda. Si è chiuso un cerchio dopo Trent’anni di frequentazione delle settimane sante, per aprirne uno nuovo. Per questo penso sia bello ascoltare diversi miei concerti nella stessa stagione, per evidenziare quanto l’improvvisazione rappresenti la linfa vitale alla base dei live. 
Allo stesso tempo riconosco che calarsi nelle atmosfere di “Níjar”, dall’inizio alla fine di un set, permette di esplorare in profondità la mia relazione con il testo di Lorca, in cui anche i recitativi hanno una funzione importante quanto i momenti topici. Bisognerà aspettare i tour in autunno per poter ascoltare la versione integrale dell’album, ad eccezione del live per il festival Suoni Controvento, che sarà maggiormente centrato su questo repertorio. Vi aspetto!


Paolo Angeli – Níjar (ReR Megacorp/Anma Productions, 2023)
I due minuti iniziali di “Níjar” offrono all’ascoltatore la possibilità di accordarsi: sui passi, fra i cardi secchi di una campagna arsa, insieme ai trilli acuti della chitarra, a disegnare una luminosità ampia e accecante. Solo dopo due minuti giunge, dolente, la voce umana, a far risaltare i bordoni che cominciano ad innervare il racconto musicale, lasciandosi dietro “Cardos” e, con “La Nana”, distillando dai passi pochi gesti, quelli dell’archetto sulle corde o dei martelletti sui bassi, a disegnare un incedere mesto e melodioso, premessa al canto vero e proprio. Ma qui potremmo anche sostare. Potremmo riavvolgere la linea degli ascolti e tornare a all’aprile di tre anni fa, quando Paolo Angeli condivise il primo seme di questo percorso, un’interpretazione de “La nana del Caballo Grande” omaggio al Camaron de “La Leyenda del Tiempo”, proprio nel Giorno della Memoria dei rom, sinti e camminanti. Una prima finestra sul flamenco che rimandava esplicitamente a “Bodas de sangre” e che, a poco a poco ha dialogato col testo di Lorca, realizzando un personale colonna sonora dell’opera teatrale.
Il canto diventa protagonista col terzo brano di questa suite, “Ramas de Sueños”, con cui tutto si dilata, facendo filtrare venti, onde, echi e, a metà dei suoi sei minuti, passi, questa volta sul legno: il ritmo della danza alternato alla voce che raccoglie le parole e i colori giusti per la narrazione che comincia a comporsi. Poi “Aijibe” sospende tutto a favore delle pause e del flamenco, di un modo di interrogare la chitarra, consapevole dei secoli di voci che la abitano e la nutrono, le note filtrate dal chorus elettronico che ne arrotonda il fraseggio. È solo allora che il ballo si stacca dalla dimensione individuale e, con “Jinete”, si fa collettivo, mette in primo piano, con incalzante effetto percussivo, lo scorrere del tempo, mentre l’archetto torna, ma, questa volta, non descrive più un paesaggio: affonda i crini nelle passioni individuali, non scruta più il possibile, ci restituisce all’ineluttabile dei sentimenti più profondi, alla straordinaria e sincronica polifonia degli infiniti timbri di cui solo la chitarra di Angeli è capace. 
Ora sì che i passi fra i cardi possono tornare: sono gli stessi, ma completamente stravolti, eco di una storia che ha trovato la sua direzione, lo sguardo che passa oltre e di lato rispetto ai rischi che sta affrontando, ignaro della “Rama oscura”, il cambio di passo - prima solo rimandato – con cui corde e percussioni incidono crepe e timori psichedelici, l’ombra che si fa ascolto. Ed ecco la sequenza degli ultimi cinque brani, quelli che incastonano Níjar e Lorca. Si comincia con “Monólogo De La Luna”, essenziale e cosmico in appena due minuti, lontano dalla chitarra nelle forme in cui abitualmente la ri-conosciamo per tuffarci nelle sue viscere, in bordoni profondi che vibrando si fanno attraversare dalle frequenze offerte dagli elementi naturali, cui non può non rispondere la voce, a dar corpo gallurese e liturgico al testo andaluso di Lorca. E siamo al fluire della sidra durante le tragiche nozze che si celebrarono a Níjar il 24 luglio del 1928 e ispirarono i tre atti di Lorca del 1932. “Níjar (Sidra)” sorprende come uno dei diamanti musicali di Alvin Curran, aprendo con un gioco vocale in cui la lingua si scompone, le sillabe si armonizzano e richiamano reciprocamente sostenute solo da uno shaker, dal ritmo che richiama le parole del sogno e il cuore del lavoro di Lorca, la colpa che l’uomo attribuisce alla terra, ma farebbe meglio a identificare nella cultura patriarcale: la festa fa ancora filtrare le note dal timbro di kora già introdotte da “La Nana”, ma il vortice, anche sonoro, sta prendendo il sopravvento: la canzone lo guarda passare, lo saluta e ritorna all’essenzialità delle parole che contano, delle loro sillabe. Rimane la “Sucia arena”, la meditazione di fronte al lutto, con le corde che si fanno guidare dall’archetto fino al compimento di un ciclo; proprio in fondo lasciano spazio alle onde, all’acqua, alla chitarra flamenca capace di guardare alla linfa narrativa di Lorca con “A Federico”: un’oasi di bellezza strumentale da cui riparte la coda “Télon”, con le sue prime note singole, scappate da un ballo, che a poco a poco ritrovano la dimensione collettiva e offrono, proprio in chiusura, una breve sequenza accordale: il timbro cui forse siamo più abituati, ma qui inedito, capace di offrire un sapore ad un tempo desueto e familiare come un abbraccio impastato di sole e mare.


Alessio Surian

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