Michele Gazich con Marco Lamberti, Giornata Europea della Cultura Ebraica, Campo di Ghetto Novo, Venezia, 18 settembre 2022

Il Campo di Ghetto Novo, nel sestiere di Cannaregio a Venezia, è stato spesso luogo di danza, cinema, musica. Il 18 settembre è stato al centro della Giornata Europea della Cultura Ebraica. In questa cornice, Francesca Brandes ha chiamato sul palco due musicisti con cui condivide un dialogo di lunga data sugli ebrei e la loro lingua a Venezia. Per primo è salito Marco Lamberti che con la sua chitarra acustica ha offerto una sorta di approdo armonico a Michele Gazich che, senza fretta, ha attraversato la piazza e il pubblico presente facendo risuonare, oltre ai suoi passi, due campanellini, per poi avvicinarsi al suo violino e al microfono: “Ho sognato questo concerto. Non per dire – ha confidato ai presenti –. Tanti anni fa ho davvero sognato di suonare in Campo di Ghetto Novo a Venezia. Ora avviene nella realtà. Per me è uno di quei concerti per cui è valsa davvero la pena vivere, scrivere e suonare il violino”. Gazich ha intitolato questo concerto per la Giornata Europea della Cultura Ebraica "Shekinah. Nuove canzoni per tornare ad abitare sé stessi". In una recente intervista a Francesca Brandes ricordava che questo titolo “viene da lontano. Sono da sempre affascinato dal concetto ebraico di Shekinah, che etimologicamente significa ‘dimora’ e sta ad indicare la scintilla del Signore, la luce divina. Il chinarsi paradossale del divino verso l’uomo, anzi, l’abitare del divino nell’umano”
In apertura di concerto, “Fuoco nero su fuoco bianco” (dal cofanetto “Verso Damasco”) ben esemplifica il lavoro di mediazione fra sapienzialità ebraica e narrazione musicale che Michele Gazich ha già avuto modo di raccontare ai lettori di Blogfoolk così come la sua “gestualità” vocale che comunica con poetica decisione il bruciare delle lettere di fuoco nero sul fuoco bianco della pagina. L’intesa con Marco Lamberti, definito “maestro dell’anima”, è impeccabile, sia alla chitarra, sia nell’offrire la seconda voce, e riflette gli oltre quindici anni di collaborazione. Nel tardo pomeriggio, la loro musica si intreccia ad un’ecologia acustica unica attraversata da diverse palle che rimbalzano nei giochi di bambini e adolescenti, dai loro salti, da pattini di bambine, da voci vicine, da rintocchi di campane lontane, dall’acqua della fontanella accanto al palco: tutto sembra magicamente confluire in uno spazio sonoro nato forse per dipingere nel silenzio della memoria e della meditazione e capace di accogliere e mettere in relazione ogni altra voce. A metà concerto, si unisce al duo l’armonica a bocca di Maurizio Bettelli, ad accentuare il carattere blues con cui viene interpretata “Come Jona”, altra perla da “Verso Damasco” che racconta l’emergere dalle acque con il cuore mutato, capace di prendere posizione, di scegliere di parlare e di agire, occasione per ripensare ai legami della comunità ebraica di
Coney Island con Woody Guthrie (che Bettelli ha tradotto in italiano). Anche da “Argon”, l’album pubblicato l’anno scorso, giungono brani che scavano nella memoria, come la canzone omonima: da un lato riprende il primo racconto dell’autobiografico “Il sistema periodico” di Primo Levi, che evoca gli antenati ebrei piemontesi (“il loro vivere ai margini in un atteggiamento di dignitosa astensione, per necessità o per scelta”), dall’altro lo intreccia con il lavoro di ricerca e documentazione di Leo Levi ed, in particolare, con “Musiche della tradizione ebraica in Piemonte” del 1954, da cui riprende la preghiera che conclude il brano. A legare profondamente Michele Gazich a Venezia sono anche i quaranta giorni trascorsi nel 2017 a San Servolo, immerso nella lettura delle cartelle cliniche che raccontano di come l’isola fu manicomio per oltre due secoli e mezzo, fra il 1725 e il 1978. Di quell’attività di studio, scrittura e composizione è frutto l’album “Temuto come grida, atteso come canto”, concepito nell’ottobre di cinque anni fa, memore ottobre dell’11 ottobre del 1944 quando dall’isola di San Servolo vennero deportati gli ebrei presenti nel manicomio: persone che non sono mai più tornate, cartelle cliniche che si chiudono con la parola “ritirata” o “ritirato” (d’ordine del comando SS germanico). A sfidare quel surreale e tragico linguaggio burocratico, Michele Gazich ha voluto rileggere e mettere in
musica le loro storie, otto canzoni che sanno narrare generazioni diverse e, a volte, di anziani che si sentono bambini, come in “Alice, la bambina” che ha bisogno di stare insieme agli altri e cui Michele Gazich dona nel Campo di Ghetto Novo una nuova canzone, un nuovo volo in “Alice nel paese di Chagall”, popolata dai colori e dai personaggi del pittore bielorusso. I versi cantati risultano sempre nitidi e toccanti, specifici nel sussurro, così come nel grido e sempre in dialogo con il lirismo del violino, suonato con l’archetto o pizzicato, felicemente alternato alla parola a cesellare la profonda carica emotiva che scaturisce da ogni brano. Il ricorso alla viola e al bouzouki rende particolarmente toccante "Maltamé", ispirata alle storie degli ebrei imprigionati nell'isola di San Servolo e alla loro deportazione nei campi di concentramento. Scriveva recentemente Michele Gazich: "Ogni volta, percorrendo in treno il Ponte della Libertà, canticchio tra me e me qualcosa: può essere una melodia, oppure delle parole ritmicamente ripetute, alle volte è una canzone già formata. Quando è una canzone, spesso è proprio ‘Maltamé’, la canzone che ho scritto, su sprone del mio amico Shaul Bassi, nella parlata degli ebrei di Venezia: una lingua oggi non più utilizzata se non dai pochissimi che ancora ne pronunciano gli ultimi residui. La mia canzone è una sorta di filastrocca-preghiera, ha in sé qualcosa di
atavico e di sacro, è costruita con i frammenti linguistici sopravvissuti al tempo e alla violenza dei carnefici negli anni Quaranta. Da quando l’ho scritta, me la porto in tasca, ma sarebbe meglio dire nella gola. Quando la canticchio in treno verso Venezia penso sempre a quegli ebrei che il percorso in treno l’hanno fatto nella direzione opposta: da Venezia verso la Germania. Non sono mai ritornati. Cantando nella loro lingua, non posso certo riportarli a casa, ma le parole possono essere mattoni per costruire nuove case-canzoni di memoria."
La “casa” ha attraversato tutto il concerto, aperto con le parole “Nuovo ghetto a Venezia, per nuovi ebrei senza terra promessa”, ed occasione di nuovo incontro con Gualtiero Bertelli e la sua “Nina”, proprio sulla fatica del trovare lavoro e casa, intonata nel Comune che ha visto gli abitanti del centro storico scendere a meno di 50.000 mentre l’Ater (l’istituto per l’edilizia residenziale) di Venezia sta lasciando sfitto il 20% del suo patrimonio abitativo. 


Alessio Surian

Posta un commento

Nuova Vecchia