Redi Hasa – The Stolen Cello (Decca Records/Ponderosa Music&Art, 2020)

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Violoncellista e compositore albanese di nascita ma salentino di adozione, Redi Hasa non ha bisogno di presentazioni per quanti frequentano la musica world e trad e che hanno avuto modo di ascoltare in numerosi album il suo inconfondibile approccio allo strumento. Il suo percorso artistico si intreccia in larga parte con il movimento di riscoperta della tradizione musicale salentina della quale è diventato uno degli interpreti più originali e raffinati, avendo caratterizzato con il peculiare timbro del suo violoncello una lunga serie di album da "A Sud Di Niente" della Compagnia delle Arti Xanti Yaca alle musiche del film "Il Miracolo" di Edoardo Winspeare con Offina Zoé, da "Contagio", "Maremoto" e "Arriva La Banda" con Bandadriatica a quel gioiello che è "Centueuna" di Salentorkestra, ed ancora lo splendido progetto "Il viola di Maria" con Maria Mazzotta con la quale ha dato vita anche ad un fortunato duo con cui firma "Ura" e "Novilunio". A coronamento di questo cammino sono arrivate poi le collaborazioni prestigiose con Ludovico Einaudi, prima sul palco de La Notte della Taranta e successivamente nel suo ensemble dal vivo e nei dischi "In A Time Lapse", "Elements" e "Seven Days Walking", e quella con Robert Plant come ospite nel suo ultimo disco "Carry Fire". All'appello, però, mancava un disco come solista che lo vedesse al centro della scena. A colmare questo vuoto è "The Stolen Cello", superba opera prima intessuta tra esperienze di vita, ricordi personali e suggestioni della sua terra, nel quale spicca non solo la sua capacità di esplorare senza confini le potenzialità espressive del violoncello ma anche la potenza affabulatrice della sua scrittura. Abbiamo intervistato Redi Hasa per ripercorrere con lui la sua storia musicale e soffermarci sulla genesi di questo primo album, senza dimenticare l'intrigante progetto "Bach Is Back" che lo ha visto protagonista lo scorso anno e che diventerà presto anche un documentario.

Vorrei partire da molto lontano, ovvero dai tuoi primi passi nel mondo della musica…
 
Ho cominciato a studiare violoncello a sei anni presso una scuola di musica di Tirana dove si facevano anche altre materie, ma principalmente la musica era lo studio principale. Mia madre insegnava violoncello in questa scuola e lo ha insegnato per quarantacinque anni. Ho avuto la fortuna di iniziare con lei anche a casa, dove lei si prendeva cura di me anche dal punto di vista musicale. E' stata lei a farmi mettere le mani sullo strumento e ad impostare il mio studio. Ancora oggi è la prima persona a cui faccio ascoltare tutte le mie composizioni. La mia era una famiglia di artisti perché, oltre a mia madre che insegnava violoncello, mio padre era un ballerino dell'Opera di Tirana e mio fratello suonava il pianoforte. Sono cresciuto con tanta musica. Da un certo punto di vista odiavo anche la musica perché volevo fare il calciatore, perché quando si è circondati ogni giorno dalla musica è normale che ti venga il desiderio di fare tutt'altro. Un po' i miei mi hanno convinto, un po' mi sono appassionato e alla fine ho deciso di fare il musicista. 

I tuoi genitori, insomma, ci avevano visto giusto... 
Loro venivano da una scuola russa e per loro la disciplina era molto importante. Mi misero in riga insomma... 

Ad un certo punto arrivi in Italia... 
Mi ero diplomato al liceo e nel 1996 avevo cominciato il Conservatorio a Tirana e dovevo diplomarmi in tre anni. Nel 1997 è scoppiata la guerra civile in Albania e praticamente hanno chiuso tutte le scuole e non avevamo più modo di studiare e continuare gli studi. 
C'era un coprifuoco alle sei di pomeriggio. Era una situazione molto triste ed era impossibile anche uscire per prendere un caffè con un amico perché non sapevi se tornavi a casa. Studiavo a casa con il violoncello prestatomi dal Conservatorio. Mio fratello che viveva già a Nardò in Salento, mi chiamò e mi disse di partire subito perché la situazione era molto grave. I miei genitori spesero tutti i loro risparmi per farmi avere il visto per potermi trasferire e fare l’esame di ammissione al Conservatorio "Tito Schipa" di Lecce. 

Quando sei partito dall'Albania, ti sei portato dietro il violoncello del Conservatorio di Tirana...
Sono partito, portai con me il violoncello del Conservatorio. Di fatto lo avevo rubato ma, in quel momento, era l’unica cosa che poteva salvarmi, perché stavo andando a fare un esame al Conservatorio di Lecce. Del resto sarebbe stato impossibile anche riconsegnarlo visto che le scuole erano chiuse. Ricordo che non avevo nemmeno la custodia e mio padre mi fece una sacca per proteggerlo. Era di costruzione rumena ed anche abbastanza rozzo esteticamente, ma per me rappresentava la mia salvezza. Arrivai a Bari nel 1998 e non solo superai l’esame di ammissione al Conservatorio di Lecce ma vinsi anche una borsa di studio. Quando tornai, poi, in Albania andai a riconsegnare il violoncello. Oggi ne ho uno bellissimo del Settecento che mi è costato quanto un appartamento. 

Quali sono i tuoi riferimenti stilistici nell’approccio al violoncello? 
Il violoncello per me è come se fosse un corpo umano. Devi conoscerlo, scoprirlo e poi abbracciarlo per poter suonare. Il suo timbro si avvicina a quello della voce umana, ma non sempre ti da quello che ti aspetti. Il violoncello ti può buttare per terra in quattro secondi, così come ti può far camminare a quatto metri da terra. In verità non ho mai avuto punti di riferimento, oltre a quelli classici come il violoncellista russo Mstislav Leopol'dovič Rostropovič o le punte di diamante della musica classica come Johann Sebastian Bach. Da loro, però, non ho tratto ispirazione, ma ho cercato di imparare quanto più possibile. Mi piace muovermi attraverso generi differenti dalla musica balcanica alla tradizione salentina, fino a toccare il jazz e la musica contemporanea, uscendo da quelli che sono i confini della classica. Se apri il mio YouTube non troverai mai dei video con violoncellisti, ma piuttosto nella cronologia troverai trombonisti, violoncellisti, trombettisti, insomma strumenti completamente diversi dal mio perché io mi nutro di tutto questo e lo uso per trovare una mia voce originale sullo strumento. Ho questo desiderio continuo di sperimentare nuove potenzialità espressive del violoncello che sono molto ampie. Noi siamo abituati a vedere questo strumento all’interno di un ensemble d’archi, invece può fare di tutto dalla batteria alla chitarra elettrica e perfino l’elettronica acustica. 
Per questo motivo io mi sono sempre spinto più avanti nelle mie esplorazioni, ma del resto non si finisce mai di ricercare perché questo percorso è senza limiti. 
 
Nei primi anni duemila hai cominciato ad incrociare il tuo percorso con la scena salentina... 
All'inizio mi sono avvicinato molto alla musica tradizionale perché mi interessava molto questo suono di cui mi sono sempre nutrito a partire da quella albanese. Per me è una musica importantissima che racconta veramente l'anima di un popolo. Da lì sono stato sempre un po' "traditore" ma accadeva anche quando studiavo musica classica, mi piaceva molto improvvisare sul palco, prendere i repertori e girarli a modo mio. Ho sempre amato sperimentare anche sui classici. Suonando musica tradizionale ho avuto sempre cercato di assimilarla bene per poi trovare la mia strada. Ho avuto la fortuna di incontrare tanti musicisti salentini e suonare con loro. Ho iniziato con Xanti Yaca, un gruppo storico di musica tradizionale che in quei tempi aprivano i concerti degli Inti-Illimani, c'erano i fratelli Diego e Raoul De Razza. Lì ho fatto un po' di scuola anche perché loro erano di Nardò e io vivevo là ed era molto facile anche provare. Mi sono lanciato poi dall'altra parte di Nardò verso Santa Maria al Bagno dove ho incontrato Dario Muci e Giancarlo Paglialunga, che suonavano nei Dakkamè, e poi anche Marco Tuma. Ho suonato con Officina Zoé con cui ho fatto le musiche di "Miracolo" di Eduardo Winspeare. C'è stata, poi, un esplosione molto piacevole con le collaborazioni con Enza Pagliara con cui ho registrato due o tre dischi, Maria Mazzotta, finché sono approdato a Bandadriatica con cui ho suonato per otto anni. E' stata quella un'esperienza meravigliosa, una famiglia bellissima in cui con i ragazzi abbiamo vissuto come fratelli. Da quel momento mi sono concentrato di più sulla musica balcanica, lavorando su brani originali che avevano influenze tradizionali ma erano caratterizzati da sfumature particolari che riflettevano la mia esperienza personale. Ho lavorato anche con Cesare Dell'Anna... insomma con tutti e mi dispiace se dimentico qualcuno. 

E' un dato di fatto che il tuo violoncello impreziosisce la maggior parte dei dischi usciti in Salento a partire dagli anni duemila, e ha contribuito anche a caratterizzare il suono di questa scena... 
Mi fa molto piacere questa cosa. Non saprei dire quanto è stato importante ma so che sentivo tanta passione quando suonavo. E' stato bello anche incontrare tanti musicisti e, se non ci sono questi incontri positivi diventa tutto difficile. 
Io ho avuto la fortuna di lavorare bene con tutti e insieme siamo riusciti a creare tanti dischi molto belli. 

Sul palco de La Notte della Taranta hai incontrato Mauro Pagani e Ludovico Einaudi... 
Ho suonato due anni con Mauro Pagani ed è stata un esperienza fantastica perché mi ha consentito di conoscere un grande musicista che è diventato poi un amico e con cui sono rimasto sempre in contatto, abbiamo fatto anche altre cose insieme. Ho conosciuto Mario Arcari, un musicista con la M maiuscola, il cui timbro è rimasto nella musica italiana con "Creuza de Ma" di Fabrizio De André. L'esperienza con Ludovico Einaudi, nelle edizioni 2010 e 2011, è stata altrettanto importante e bella perché non mi ero ancora trovato a misurarmi con un musicista di quella levatura. Ero ancora giovane e come tale se non mettevo in ogni pezzo sessantamila note non ero contento. Quando sei giovane, l’energia e la voglia di fare ti portano a strafare, invece con Ludovico Einaudi ho imparato il valore della pausa, dell’attesa, della ricerca dell’anima della nota, senza andare di fretta nel suonare una marea di note. Certo è importante suonare ma lo è anche ascoltare il silenzio che è musica. Ludovico Einaudi mi ha fatto aprire un'altra finestra e mi ha fatto vedere un altro paesaggio. La musica è meravigliosa anche per questo perché ti fa scoprire mondi incredibili e bisogna solo approfittarne. L’approccio musicale di Ludovico Einaudi mi ha rapito l’anima, la sua capacità di raccontare attraverso due note ed andare dritto al nocciolo del discorso. 

Quasi a sorpresa è arrivata la collaborazione con Robert Plant, della quale forse si è parlato veramente molto poco… 
E’ stato un incontro meraviglioso perché io, già dall’epoca in cui stavo in Albania, ho sempre amato moltissimo il rock. 
Suonavo il basso in un gruppo grunge e ogni tanto suonavamo cover di gruppi famosi come i Led Zeppelin di cui eravamo grandissimi fan. Stavo registrando il mio disco “The Stolen Cello” ai Real World Studios, gli studi di Peter Gabriel, e Robert Plant stava registrando “Carry Fire” nella sala accanto alla mia. Conosco bene il suo chitarrista Justin Adams, che era stato ospite di Ludovico Einaudi alla Notte della Taranta e lui gli aveva detto che in contemporanea c’era un violoncellista che stava incidendo un disco. Insomma si sono intrecciate tutte queste cose e Justin me lo ha presentato. E’ stato bellissimo conoscerlo e lui mi ha dato un brano chiedendomi di incidere una parte di violoncello. Mi ha detto di fare con calma e di registrare in modo da poterlo ascoltare e valutare se andava bene, diversamente non l’avrebbero utilizzata. Io ero felice come un bambino, tant’è che ho registrato subito la mia parte e gli ho inviato il brano. Robert Plant è rimasto molto contento e, infatti, poi mi ha dato altri due brani di “Carry Fire” in cui aggiungere il mio violoncello. Lui era molto interessato non solo alla musica tradizionale albanese, ma anche a quella della Notte della Taranta di cui si era informato tramite Justin Adams. Gli piaceva molto il disco “Taranta” che è uscito dalle due edizioni dirette da Ludovico Einaudi e mi ha fatto diverse domande sulla musica tradizionale salentina. 

Nei giorni della collaborazione con Robert Plant, cominciava a prendere vita “The Stolen Cello”, il tuo primo album come solista… 
Volevo dare un taglio completamente nuovo alla mia musica e trovare nuove ispirazioni. L’idea non era nemmeno quella di fare un disco. Quando sono a casa e ho un momento libero mi metto al violoncello, suono delle cose e registro ma poi le lascio là e le riprendo dopo un po’ di tempo. 
Quando la svolta è arrivata quando Alberto Fabris, il mio produttore, mi ha detto che era arrivato il momento di fare un disco a mio nome perché avevo quarantadue anni ed avevo lavorato in tutto il mondo. In verità, a me non è mai piaciuto stare in prima fila ma ho sempre preferito stare dietro le linee, mi piace collaborare ed organizzare dal punto di vista musicale. Insomma, preferisco stare nascosto e dare il mio contributo con delle idee, confrontandomi con altri musicisti. In questo caso ero solo ed è più difficile perché devi farti delle domande e cominciare a conoscerti. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella di raccontare con la musica la mia vita, partendo da quando ero piccolo e stavo in Albania. Volevo fermare il tempo e tornare in dietro per sentire quella bellezza e quella spensieratezza che si ha quando si è piccoli. Non si hanno preoccupazioni e la vita non va veloce come va adesso che siamo grandi. Quando si è piccoli si prende tutto il tempo che serve per godere della bellezza che ci regala la vita. Volevo fotografare in musica tutto questo e per questa cosa mi serviva ritornare dietro nel tempo, scavando anche attraverso i sogni dove spesso ritrovo l’albero di ciliegi che era vicino casa mia, la montagna di Dajti di Tirana, vedo la strada dove giocavamo scalzi con i palloni fatti di calzini. Ricordo che riunivamo tutti i ragazzi del quartiere perché non avevamo i soldi per comprare un pallone vero e per fare questa cosa mettevamo insieme tutti i calzini e ne facevamo una palla e giocavamo per strada. Volevo per un'altra volta ritrovare quelle sensazioni che mi aveva regalato la vita e che non volevo perdere. Per questo motivo ho iniziato da questi ricordi per lavorare sui nuovi brani. Nel disco sono confluite anche le esperienze successive come il mio incontro con il Salento, ma poi guardo anche al futuro… 

Come si è indirizzato il tuo lavoro in fase di costruzione ed arrangiamento dei brani… 
Ho lavorato in modo molto semplice utilizzando il mio set di pedali e l’elettronica. Registravo man mano tutto e poi eliminavo quello che non mi piaceva, tenendo le cose che mi piacevano. 
Ogni disco è bello per chi lo fa e io ho cercato di conservare intatte le emozioni che nascevano man mano e che tornavano dal passato. Quando riascolto il disco, ormai a distanza di tempo, ritrovo quelle sensazioni perché cercavo veramente di far vedere la montagna di Dajti, per esempio. Volevo creare delle immagini musicali. Inizialmente ho inciso tutto a casa, poi successivamente mi sono spostato ai Real World Studios con il mio produttore Alberto Fabris dove abbiamo cominciato a lavorare sui suoni e rifinire il tutto proprio perché era un disco per solo violoncello. E’ un disco un po’ strano perché tutti i suoni diversi dal violoncello sono prodotti sempre da questo strumento. Si ascoltano graffi sulle corde, percussioni, e altri rumori ma tutto arriva da là perché non ci sono altri strumenti. 

C’è un brano del disco a cui sei più legato… 
Un po’ tutti, non riesco a dire quale sia quello che sento di più perché in ognuno c’è un racconto e ne racchiude l’importanza intrinseca. Per rendere questo suono dal vivo, lo hai presentato recentemente con un gruppo nutrito di strumentisti… In effetti non volevo che fosse una semplice presentazione ma piuttosto desideravo che fosse una vera e propria festa per l’uscita del disco. Volevo condividere questa cosa così bella con alcuni dei miei amici più cari come Rocco Nigro alla fisarmonica, Vito De Lorenzi alla batteria, mio fratello Ekland al pianoforte, il Chorìon quartet, un quartetto d’archi composto da Ivo Mattioli (violino), Danilo Mattioli (violino), Cristian Musio (viola), Marco Schiavone (violoncello), oltre alla danzatrice Laura De Ronzo. Ovviamente non sarà sempre così nel senso che musicalmente sono sempre in movimento e vorrei sperimentare molto sul live, così ci saranno concerti in solo e altri con un orchestra da quaranta elementi.

Concludendo. Un ulteriore sviluppo del disco sono i vari singoli che stanno uscendo e che ti vedono riproporre alcuni dei brani con la partecipazione di un ospite speciale. Penso a "The Silence Of Trail" con Ludovico Einaudi e "The Prayer Of The Moon" con Mercan Dede. Come nasce questa idea di rivisitare i brani con uno special guest?
L'idea è quella raccontare, insomma, brani del disco con un altra anima, rileggendoli con l'intervento di altri artisti, scelti tra quelli a cui sono più legato e che mi piacciono. Voglio capire come le mie composizioni possano essere vissute da un altro musicista e, nel contempo, aprirle in maniera totale ad altri generi. Del resto è il pensiero alla base di disco dove non ci sono punti di riferimento. Ho avuto il privilegio di reinterpretare e reincidere i brani del disco con Ludovico Einaudi, Mercan Dede, ma anche Alva Noto con il quale ho riletto in chiave elettronica un altro brano che uscirà prossimamente come singolo in digitale. 



Redi Hasa – The Stolen Cello (Decca Records/Ponderosa Music&Art, 2020) 
L'ascolto della superba riscrittura strumentale di "With A Little Help From My Friends" e dell'autografa "Flladi", pubblicate entrambe come singoli in digitale, ci aveva lasciato intravedere quanta bellezza e poesia era in grado di generare in solo il violoncello di Redi Hasa, ma non potevamo immaginare minimamente la passione e la potenza evocativa delle composizioni racchiuse in “The Stolen Cello”, opera prima che segna l’inizio di una nuova fase del suo percorso artistico. In ognuno dei dodici brani del disco viene messo al centro il solo violoncello del quale Redi Hasa riesce ad esaltare l’immensa potenzialità espressiva, facendolo diventare voce narrante che come accattivante affabulatrice rapisce sin dal primo ascolto. Quasi fosse un concept album, il disco è una sorta di autobiografia in musica nella quale il violoncellista albanese ha raccolto ricordi, emozioni ed esperienze di vita dall’infanzia nella sua terra alla nuova vita in Italia. Se il titolo rimanda al suo arrivo in Italia quando portò con sé il violoncello del Conservatorio di Tirana, nelle varie tracce Redi ci racconta a cuore aperto il suo passato, i giorni spensierati passati a giocare con una palla fatta di calzini, a cui seguono i momenti tristi della guerra civile che esplose in Albania nel 1997 e lo condusse a fuggire in Italia. Attraverso le sue composizioni, il musicista albanese torna idealmente nella sua terra per ritrovare suoni, profumi, colori, emozioni, ma nel contempo volge lo sguardo al futuro traducendo il tutto attraverso una grammatica compositiva inconfondibile con il violoncello che diventa ora voce lirica suonato con l’archetto, ora strumento percussivo, ma anche cesello nei passaggi più arditi e pizzicato negli spaccati più misteriosi e riflessivi. Aperto dalla nostalgica istantanea del singolo “Dajti Mountain” che fotografa la montagna che sovrasta Tirana, il disco ci regala una delle sue perle con “Cherry Flowers (Lule Qerchie)” nella quale il ricordo dell’albero di ciliegi piantato davanti alla casa del violoncellista diventa l’occasione per sperimentare l’incontro tra i suoni dei Balcani e la musica contemporanea. Se nel lirismo di “Wave (Dallga)” ritroviamo echi del repertorio di Bach a rimandare ai primi studi di violoncello con la madre, la successiva "Little Street Football Made of Socks (Topi Me Çorape)” con la sua trascinante tessitura ritmica evoca le partite di calcio in strada con gli amici. Lo scorrere del tempo della poetica “Seasons Going By (Stinët Që Kalojnë)” e i ricordi di infanzia di “1990 Autumn Escape (Ikja e Vjeshtës 1990)”, in cui ritroviamo certi pattern musicali tipici delle composizioni di Ludovico Einaudi, ci introducono a “The Snow (Bora)” nella quale il violoncello pizzicato evoca i paesaggi albanesi coperti dal cadere lento della neve. La magnifica sequenza con “Shadows Drown on The Streets (Rrugët Që Prisnin Hijet)” e “The Silence of The Trail (Heshtja e Malit)”, due dei vertici compositivi del disco, ci conduce verso il finale con le suggestive “Time” e “Butterfly (Flutur)” che fanno da preludio alla splendida “The Prayer of the Moon (Lutja e Hënës)”, una riflessione notturna densa di lirismo che chiude un disco superbo tanto dal punto di vista concettuale, quanto da quello prettamente compositivo. 



Bach Is Back, l'omaggio a Bach di Redi Hasa 
Realizzato da Ponderosa Music&Art con il sostegno della Regione Puglia nell’ambito del Programma straordinario 2018 in materia di cultura e spettacolo, il patrocinio del Comune di Bisceglie e in partenariato diverse realtà culturali locali (Polo Bibliomuseale di Lecce, SAC Terre di Lupiae, la Delegazione Fai Andria Barletta Trani, Associazione Culturale Le 3 C), il progetto “Bach is Back” nasce dal desiderio del violoncellista Redi Hasa di rendere omaggio all’opera di Johann Sebastian Bach, attraverso l’incontro tra due universi musicali solo in apparenza differenti. A riguardo il violoncellista albanese racconta: “Coltivavo da tempo l’idea di realizzare un progetto su Johann Sebastian Bach perché è stata una figura fondamentale nel mio percorso. E’ stata mia madre a farmi scoprire le sue opere e ho studiato sin da piccolo le sue partiture ed in particolare le “Suite per Violocello”. Da quel momento non mi sono più separato dalla sua musica ed è stato sempre molto presente nella mia musica, avendomi aiutato moltissimo anche nella ricerca del mio suono al violoncello. L’idea era quella di unire le due parti che prevalgono dal punto di vista artistico nel mio approccio musicale, ovvero la musica barocca di Bach e quella della tradizione albanese. Volevo avvicinare questi due mondi diversi che si guardano e si danno la mano l’uno con l’altro per trovare un ponte anche fra due epoche differenti”. Sono nate, così, alcune suite originali scritte da Redi Hasa e nelle quali le composizioni di Bach sono diventate la base ispirativa per una ricerca a tutto campo i cui si intrecciano musica classica e tradizione si intrecciano tra incroci ed attraversamenti sonori con avanguardia e sperimentazione. Ad affiancare Redi Hasa in questa nuova avventura musicale sono stati il fratello Ekland, eccellente pianista che ha realizzato gli arrangiamenti e il percussionista Vito De Lorenzi. 
La curatela del progetto è stata invece affidata a Giorgia Salicandro che, a riguardo, ci racconta: “Per la costruzione dello spettacolo “Back Is Back” siamo andati in Albania e nel corso di quattro giorni intensi di incontri e prove abbiamo messo insieme il tutto. Successivamente a novembre del 2019 abbiamo realizzato quattro concerti in Puglia. Si è trattato di quattro eventi unici nel loro genere di cui i primi due hanno visto protagonista il solo Redi Hasa presso la Chiesa di San Giovanni Battista a Patù (Le) e la Chiesa di Santa Margherita a Bisceglie (Bt), mentre le due serate conclusive, presso l’Auditorium Vallisa a Bari alla Chiesa di San Matteo a Lecce, hanno visto la partecipazione della formazioe al completo e del coro polifonico albanese “Jehona” (Irini Qirjako, Fiqirete Kapaj, Sabahet Vishnja, Irena Saraci, Nevila Hasa Matjà), diretto dalla maestra Irini Qirjako, una tra le più popolari cantanti della scena folk albanese. Intersecando il repertorio colto della musica barocca e la tradizione musicale albanese iha preso forma un affresco sonoro di grande fascino nel quale la polifonia diventa terreno fertile per un incontro tra epoche e geografie differenti, esaltato dal fascino del barocco leccese delle chiese che hanno fatto da cornice ai quattro concerti. Progetto ambizioso ed audace “Back Is Back” diventerà presto anche un documentario, prodotto da Ponderosa Music&Arts che promette di svelare al pubblico tutta la bellezza racchiusa da quei quattro concerti dello scorso anno. 

 
Per gentile concessione di Ponderosa Music&Art

Salvatore Esposito

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