Fra fra – Funeral Songs (Glitterbeat, 2020)

Per chi da quarant’anni segue i Fra Fra Sound, il gruppo fondato dal bassista Vincent Henar ad Amsterdam nel 1980, chiariamo subito che questo non è un loro album. Si tratta della sesta uscita della collana “Hidden Musics” della Glitterbeat, dischi rari, un’uscita all’anno circa, dal 2014. Non si tratta neppure di concerti, ma di musiche di cerimonia che Ian Brennan è andato a registrare in loco. Riguardano le musiche dei frafra, quasi un milione di persone, soprattutto agricoltori, che vivono fra la parte meridionale del Burkina Faso e la parte settentrionale del Ghana, nei distretti Bolgatanga, Bongo e Tellensi-Nabdan. Come al solito, da queste parti, c’è di mezzo la colonizzazione britannica che, chissà perché, ha preferito chiamare “frafra” la popolazione che parla gurune. Qui il concetto di famiglia corrisponde a quello di “yiri” (casa); “yiridoma”, gli abitanti della casa, si riferisce a tutti quelli che la abitano e, in senso lato, ad un gruppo vasto che comprende bambini, genitori, zii e rispettivi figli e nipoti, parenti prossimi, bambini non ancora nati e parenti deceduti. La famiglia frafra non si limita ai vivi, include anche i morti. Come distinguere queste ampie famiglie? Ogni “yizuo” (clan) è in grado di tracciare la propria discendenza a partire da un antenato comune ed i riti di passaggio hanno un ruolo chiave nel metter in comunicazione mondi visibili e non. Ian Brennan ha scelto di registrare un trio di musicisti attivo nella cittadina di Tamale. Il trio è guidato da “Small” che, oltre a cantare, suona il kologo, strumento a due corde sollecitato sul ritmo percussivo scandito da alcune piastrine di metallo assicurate ad una corda con cui si cinge la testa. Oltre alle voci, la tessitura sonora frafra è arricchita da piccoli flauti ricavati da corna di animale, presenti nell’album in “I Will Follow You For Life, Everywhere”. Come registrare? Ian Brennan spiega così la sua motivazione e le sue scelte: «La regione settentrionale del Ghana è la fonte dei blues, la terra in cui sono nati e che non hanno mai lasciato. Dato che i canti funebri sono spesso eseguiti in processione, ho cercato di microfonare il gruppo nelle fasi che precedono l’entrata nel terreno designato, mentre girano in tondo sulla ghiaia circostante. Per la registrazione, includere quante più possibili fonti sonore è più importante della precisione. Ogni microfono racconta una versione leggermente diversa della verità, quindi ho cercato di piazzarne rapidamente quanti più possibile. Più che cerimonie funebri, si tratta soprattutto di celebrazioni. Questo modo di piangere i defunti rivela somiglianze non superficiali con le marching band di New Orleans. Sta a noi non sottovalutarle e non considerarle mere coincidenze, visto il triste passato che riguarda la tratta degli schiavi transatlantica che ha riguardato proprio questa regione settentrionale». L’album comprende sette brani particolarmente toccanti. Il primo è dedicato agli orfani ed è un accorato lamento interpretato dalle sole voci in modalità call & response ed un epilogo sostenuto dalle percussioni. L’ineluttabilità di “You can’t escape death” è introdotta dal kologo, che induce una cornice ipnotica con una cadenza rilassata, mentre chi ha familiarità con la musica gnawa riconoscerà affinità con il fraseggio del guimbri nella successiva “Naked (You Enter & Leave This World With Nothing)”. La filosofia riguardo alla presa del suono risulta in una qualità disomogenea, che però permette di ascoltare modalità diverse di arrangiamento, come nel “compatto” frammento di “Goodbye” che riunisce tutti intorno alla stessa linea melodico-ritmica. Per chi è curioso di scoprirli, i precedenti episodi di questa collana comprendono Ustad Saami (“God is Not a Terrorist”, 2019), Abatwa (The Pygmy, “Why Did We Stop Growing Tall?”, 2017), Khmer Rouge Survivors (“They Will Kill You, If You Cry”, 2016), “Every Song Has Its End: Sonic Dispatches from Traditional Mali” (2015), Hanoi Masters (“War is a Wound, Peace is a Scar”, 2014). 


Alessio Surian

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