Khmer Rouge Survivors – They Will Kill You If You Cry (Glitterbeat, 2016)

Nell’immaginario occidentale la Cambogia occupa un posto speciale, poiché è difficile non pensare alla drammatica storia contemporanea del Paese della Penisola indocinese, che ha subito, pagandone le conseguenze, tre milioni di tonnellate di bombe americane negli anni Settanta, di cui tanti nel ‘nostro’ mondo si sono dimenticati, ed è stato sconvolto dal genocidio di circa due milioni di persone perpetrato dal regime dei khmer rossi (1975-1979). Parliamo di eliminazione fisica di chiunque, in qualche modo, fosse associabile alla precedente monarchia, alla religione, alla cultura tradizionale, all’occidentalizzazione e perfino alla mera alfabetizzazione. Perciò è inevitabile andare con la memoria al passato, nell’ascoltare i tesori semisconosciuti di questo nuovo capitolo di ‘fieldwork’ di Ian Brennan – ricercatore senza patenti accademiche –, realizzato con il contributo fotografico della compagna Marilena Delli. Si tratta di un nuovo volume per la collana ‘Hidden Series’ della label Glitterbeat. Dopo il Vietnam, lo scenario operativo di Brennan è ancora il sud-est asiatico post-conflitto, dove il pluripremiato produttore discografico è andato a scovare la testimonianza sonora di maestri sopravvissuti alle devastazioni umane e ai ‘killing fields’ di Pol Pot. Come ha scritto Giovanni Giuriati, l’etnomusicologo italiano esperto delle tradizioni musicali del Paese orientale (si veda “La Cambogia e le musiche del mondo. Esotismo, primitivismo, senso di colpa e informazione interculturale, in “EM”, nuova serie, 1, 2003, pp. 71-88, Roma, Squilibri), la musica cambogiana partecipa della diffusione legata al fenomeno della world music, sempre a cavallo tra apertura interculturale ed esotismo. In più c’è quel senso di tragicità, perfino di colpa (Occidente muto di fronte ai crimini del regime) cui non sfugge il pur pregevole lavoro Glitterbeat, che parla di musica ma anche di orrore, che vuole raccogliere l’eco di un mondo sonoro quasi scomparso. Tuttavia, sulla scorta di chi ha svolto lavoro continuato sul campo, occorre rilevare che, nonostante le devastazioni e le enormi trasformazioni sociali, in Cambogia le forme tradizionali sono ancora dinamiche e ricche. Cosicché l’unicità di cui si parla nella presentazione del CD è più figlia del marketing, dell’appeal da ‘senso di colpa’ occidentale (per riprendere ancora Giuriati) che corrispondente alla realtà musicale della Cambogia odierna. Ad ogni modo, “They will kill you if you cry” è un disco importante, diverso per stile e atteggiamento dalle ricognizioni nelle audiocassette folk, rock & pop 1960-1970 ripubblicate in formato digitale dall’etichetta Sublime Frequencies, dal rock psichedelico ante-Pol Pot di una recente compilation Rough Guide, o ancora dalle opere sulla musica d’arte cambogiana (pensiamo al revival del corpo del balletto reale) o a quelle di artisti euro-americani che attingono a tratti estetizzanti della millenaria tradizione musicale khmer. Purtuttavia, con la sua missione allineata alla ‘urgent anthropology’, il CD conserva il fascino un po’ nostalgico per un suono in via di estinzione. Insomma la raccolta, che vuole ‘scoprire’ un patrimonio musicale sopravvissuto, si configura in prospettiva ambivalente: da un lato tende a ‘congelare’ lo stato della musica cambogiana in quel passato precedente alla distruzione dei khmer rossi, ma al contempo presenta maestri di alto livello tuttora attivi. L’antologia Glitterbeat descrive in quattordici tracce la musica tradizionale suonata da alcuni sopravvissuti all’eccidio del regime comunista; mette al centro cantanti e strumentisti riconosciuti come gli ultimi depositari di tecniche strumentali su cordofoni, fiati, strumenti ad ancia libera e percussioni. Sotto il profilo vocale, tutti i cantori presentano una tessitura alta: la linea vocale è in genere acuta. Le musiche si muovono su poche tonalità e presentano l’inserimento di micro-variazioni. Il titolo del disco “They Will Kill You, If You Cry” riprende la dichiarazione del direttore musicale, flautista e percussionista Arn Chorn Pond, orfano a dieci anni perché la sua famiglia era stata sterminata dai khmer rossi, il quale ricorda la sua drammatica vicenda di bambino soldato, divenuto suonatore-intrattenitore per i militari per salvarsi la pelle. La raccolta si apre con la cantante Rab Ban che intona “Phnom Domrey Trom” (“Dove gli elefanti vanno a morire”), accompagnata da Mon Hai, originario del nord del Paese, un’area montagnosa prossima al confine con la Tailandia, che è uno degli ultimi suonatori di kann, un corno di bambù. Non meno prezioso l’ascolto del chapie dwng veng, un liuto a manico lungo imbracciato da Soun San, il quale porta sul suo corpo i segni della sofferenza e canta con voce ‘blues’ “Pjanch Meah”, “Phleuv Dail Treuv Deu” e “Preh Kon Euypok“ in una sorta di struttura responsoriale che giustappone canto solista e strumento di accompagnamento. Altra voce femminile da brividi è quella di Keut Rann, vocalist non vedente, che interpreta a cappella “Aasojet Anet Mai“ (“Abbi pietà di mia madre”) e “Pineak Doeulang Knong Soun”, tenendo in vita lo ‘smot’, stile vocale di tipo cerimoniale usato nelle pratiche buddhiste theravada, che presenta analogie con l’hollerin del sud degli States, commenta Brennan nelle note del disco. Ora, se è vero, come scritto nelle note che accompagnano il lavoro, che i maestri rimasti sono pochi, è altrettanto vero che giovani come Phoeun Srey Pov, che ha poco più di vent’anni – tanto per fare un nome tra i principali cultori – stanno apprendendo quest’arte canora antica di secoli. Tornando al disco, incontriamo ancora Rab Ban (“Orano”) accompagnata da percussioni e da una sorta di violino, mentre “Jivit Rongkroh Proh Songkream” (“La mia vita come vittima della guerra”) è un pezzo dall’andamento narrativo, accompagnato da strumenti a corda sfregati, eseguito da Thuch Savang, poeta e chitarrista poco più che cinquantenne (rappresentato nella copertina del disco con il volto deturpato). Un altro artista, Kong Nai, lo hanno soprannominato il Ray Charles di Cambogia per la cecità e per la forza espressiva: è il leggendario cantante e suonatore di liuto chapei, voce ancora toccante nonostante l’età, interprete di ben tre brani, "Kontriev Doeung Kon Mai” (“Tutti i bambini devono mostrare gratitudine alla loro madre”), "Kamara Rongkaam” (“Nazione nel dolore”) e “Boonchnam Kamkosal” (“Il mio dolore incomincia”). Altro strumento che fa capolino nell’antologia è il khene, l’organo a bocca, che Mon Hai suona in ”Prolop Phkaypreat”. Voci e battito di mani si uniscono nella vecchia canzone, molto popolare, “Ao Sat Sarika” (“Dov’è andato mio marito?”), affidata a Prom Chantol e a sua figlia Ouch Savy. Un impianto pentatonico da folk song caratterizza "Bong Euy Sdaap Pkor” (“Ascolta il tuono”) per chitarra, flauto suonato da Arn Chorn Pond e voce di Thorn Seyma la quale, solo pocho tempo prima dell’arrivo dei ‘curatori’ occidentali, aveva scoperto che suo padre Thom Mouy era stato un famoso cantante prima di perire anche lui nei ‘killing fields’. Un florilegio variegato, con punti elevati, ma perfettibile, considerato che alcuni brani sono un po’ brevi e non tutti conservano la stessa potenza espressiva. Non è tutta la musica della Cambogia, ma una fotografia di musica e di artisti-testimoni che hanno resistito alle nefandezze inaudite dell’uomo verso il proprio simile. 


Ciro De Rosa  

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