Artisti Vari – Discover music from Brazil with ARC Music (ARC Music, 2016)
Uno degli aspetti più interessanti dei dischi prodotti dalla ARC Music - label di spicco nel mondo delle musiche etniche di tutto il mondo, nel cui catalogo figurano spesso approfondimenti tematici su repertori e aree di produzione, dagli Stati Uniti al sud America, dal Giappone all’India e all’Africa - è la possibilità di comprendere molto di ciò che contengono. Per due motivi principalmente. Innanzitutto perché l’elemento quantitativo (che assume la forma di una sequenza di paradigmi di generi tradizionali, più o meno noti, o di riproposte) è sempre fondamentale e assume un grande valore “statistico”). L’album brasiliano di cui si parla qui è composto da venti tracce, corredate da note esplicative (necessariamente sintetiche ma sufficienti a un primo orientamento), indicazioni sui generi che rappresentano, sugli stili, sugli artisti e le formazioni che le eseguono, sulle “provenienze”, cioè sui percorsi che hanno portato alla loro realizzazione, o meglio alla realizzazione della forma in cui sono presentate in scaletta. In secondo luogo perché la qualità delle musiche è straordinaria e si configura come il risultato di ottime esecuzioni (e quindi ottimi musicisti), un programma di rappresentazione coerente - che regola il rapporto tra tutte le espressioni e i diversi soggetti impegnati nelle esecuzioni - e una selezione capillare, per nulla scontata e per nulla “bella”. Come ci dicono le prime note che leggiamo nel libretto, infatti, in Brasile (come anche altrove), hanno ancora un ruolo le musiche legate al carnevale, la samba o il bossa groove. Ma ce ne sono ovviamente altre con le quali gran parte degli ascoltatori non ha familiarità o addirizza non conosce affatto. E che costituiscono, come i più attenti sono in grado invece di riconoscere, la base di una ricca cultura musicale, come il forrò, il jazz brasiliano, oppure il genere MPB, la “Musica popular brasileira” ovvero il Brazilian Pop. Sulla scorta di queste considerazioni i curatori della raccolta “Discover music from Brazil” (il cui sottotitolo specifica “with ARC Music”), hanno inserito alcuni brani degli indigeni dell’Amazonia, oppure la musica della Capoeira. Non stupiamoci quindi di rimbalzare tra atmosfere agli antipodi e una vasta gamma di strumenti, che nel loro insieme configurano uno spazio denso e sicuramente affascinante da attraversare. Brani come “Mal-Me-Quer”, “Banzo” e “Aquela Bele”, ma anche “Melodias para Katja” o “Angola Dream” ce lo fanno comprendere a dovere. Tutto il resto è ancora da scoprire.
Nii Okai Tagoe – West to West (ARC Music, 2016)
“West to west” è il nuovo album di Nii Okai Tagoe, cantante, ballerino, compositore e sopratutto percussionista ghanese che si inserisce nel filone più interessante della world music africana. Se infatti in “African Roots”, il suo primo album, Tagoe aveva inseguito sonorità più tradizionali, con “West to west” sposta il baricentro degli undici brani in scaletta verso una proposta più articolata. Nella quale convergono elementi melodici e timbrici internazionali, sebbene tutto affondi saldamente i piedi in uno strato compatto di percussioni e ritmica senza soluzione di continuità. È chiaro l’intento di addensare una visione locale con una forma di interpretazione più internazionale. E il risultato non è per nulla scontato. Anzi, la varietà che si incontra giustifica anche il ricorso a formule che, nell’insieme, non sono certo nuove: fiati, chitarra elettrica, batteria a supporto dei tamburi tradizionali come “chene”, “djun djun”, “Kpanlogo”, “axaste”, “brekete”, ma anche balafon e gome. Uno dei manifesti di questa formula è “Monkeys”, una ballata cadenzata, che va dritta alla fine sostenuta da una batteria ipnotica, puntellata da differenti linee melodiche - sia in coro che in forma monodica - e una chitarra stridente e acida che dialoga con il canto. Ci sono gli archi che allungano la tensione dei ritmi delle percussioni, come ad esempio in “Moni Ley”, brano incentrato su un’alternanza che si fa via via più intensa tra la voce solista e i cori femminili, mentre l’andamento costante e quasi asfittico è assicurato non solo da batteria e chitarra distorta, ma anche da alcuni interventi di tastiere mediose. In termini generali l’album è molto interessante e, nella misura in cui gioca molto con l’immagine stessa della world music più internazionalista, trova delle formule efficaci al di là di ogni immaginazione. Anzi, è proprio questa sorta di interpretazione dell’interpretazione (delle musiche e dei suoni più locali, più legati a un contesto), che ne proietta la visione in uno spazio tutto nuovo: contemporaneo e allo stesso tempo epico, senza tempo e luogo. “Sumo Eh-Ngo” è probabilmente la sintesi più rappresentativa dell’album.
Afrika Mamas – Afrika Mamas (ARC Music, 2016)
L’album omonimo delle Afrika Mamas ci trasporta in una dimensione profondamente aderente all’Africa. Non è certo facile supporlo(e neanche scriverlo), sopratutto perché so di essere italiano e di vivere in Italia. Ma, lasciando che l’ascolto dell’album stabilisca una preminenza sulla riflessione e riconoscendo come inevitabile una forma di suggestione legata alle immagini e alle rappresentazioni dell’Africa e della femminilità africana, credo si possa sostenere. Anche solo per il breve tempo necessario a introdurre il carattere di questo album. Ascoltiamo i dodici brani in scaletta e succhiamo la bellezza del canto a cappella, che a volte ci spinge verso il gospel (a cui ci rimanda il brano di apertura “Robe and Crown” e “Who’s gonna help me”), ma che ci vuole soltanto trascinare nella voce. Paul Simon lo ha capito da parecchio e, come tanti altri con cui anche le Mamas hanno avuto a che fare (Steve Kakema, Brenda Fassie), si è rivolto proprio a questo: una specie di trascendenza, un flusso che sposta l’aria prima di far muovere i piedi. Qualcosa che non inibisce ma immobilizza, anche solo qualche minuto, il tempo necessario a un primo orientamento. Ascoltate in perfetto silenzio “Nontsokolo” (prima anche di leggere di cosa parla) e riuscirete a muovervi solo alla fine del brano. D’altronde questo settetto di cantanti vuole proprio questo - parlare di Africa, inquadrando la narrazione in un progetto culturale più ampio, che tira dentro l’educazione, l’emancipazione, i diritti ecc. - e la narrazione che ha imbastito è oggettivamente efficace. Brani come “Tonny” - una litania espansa nella quale le voci in coro si alternano alla voce solista in un contrappunto perfetto - sono la dimostrazione che cantando si parla. Che le parole giuste sono il primo elemento per un’estetica più condivisibile. E che è quindi necessario individuare il codice giusto e incastrarlo dentro una grammatica precisa. Tra i brani migliori “Thuli”, “Amabheshu” e “Bayalibuza”