L’immortale afrobeat di Tony Allen

Negli anni ’60 e ’70 non c’era quasi alcuna attenzione per le musiche dell’Africa subsahariana da parte del mercato discografico e dei circuiti dei concerti dal vivo. Musicisti di quattro paesi contribuirono a far sì che la cartografia musicale cominciasse a tenerne conto: Miriam Makeba e Hugh Masekela (Sudafrica), Francis Bebey e Manu Dibango (Camerun), Franco & TPOK Jazz (Zaire, oggi RDC), e Fela Kuti & Africa 70 (Nigeria). Con la scomparsa di Hugh Masekela nel 2018, le morti ravvicinate, a Parigi, di Dibango e del direttore musicale degli Africa 70, Tony Allen, restituiscono tutta intera la distanza ed i decenni intercorsi da quella primavera di indipendenza e creatività. Eric Trosset, il manager di Tony Allen, giovedì 30 aprile, ne ha così comunicato la dipartita: “Era in piena forma, è successo all’improvviso. Gli ho parlato alle 13; due ora dopo ha avuto un malore ed è stato trasportato all’ospedale Pompidou dove è spirato”. A parziale consolazione, Allen e Masekela ci consegnano uno splendido disco postumo, “Rejoice”, che ha appena visto la luce dopo dieci anni di gestazione.

Tony Allen (1940-2020)
«Ricordo che una volta, arrivando in Gran Bretagna, il doganiere mi guardò sospettoso e mi chiese dove fossi andato a prendere il cognome ‘Allen’. Lo guardai, sbottai a ridere e gli risposi: ‘Magari potessi conoscere il mio vero cognome. Allen viene da voi. Me l’avete dato voi, è storia, perché chiedete a me da dove viene’. Se ne restò zitto». 
Il passato (e il presente) coloniale della Nigeria è in bella mostra fin dalla prima pagina dell’autobiografia di Tony Oladipo Allen, nato a Lagos il 20 luglio 1940 e cresciuto in una “buona zona”, Lafiaji, al numero 15 di Okusuna Street, proprio al centro di Lagos Island. Ventiquattro anni dopo, da batterista, avverrà un incontro musicale decisivo: quello con Fela Kuti, allora ancora al piano e alla tromba, cui la (saggia) madre aveva appena consigliato «Start playing music your people understand, not jazz.» (comincia a suonare musica che le persone capiscano, non jazz). Nascerà così, nel 1965, una nuova formazione dei Koola Lobitos, «il nucleo della band eravamo Fela, io, Ojo Okeji al basso elettrico, Lekan Animashaun (Baba Ani) al baritono» (con Tunde Williams e Eddie Aroyewu alle trombe, Isaac Olasugba al sax alto, Tex Becks e Christopher Uwaifor ai tenori, Fred Lawal o Yinka Roberts alla chitarra, e Easy Adio alle congas). Allen aveva già una discreta esperienza con Victor Olaiya, Agu Norris and the Heatwaves, The Paradise Melody Angels, Western Toppers Highlife Band, e con lo stesso Fela nel NBC quartet. «All’epoca, avevamo due patrie del jazz: il Nord America e il Sudafrica. Era un’epoca coloniale e anche se avevamo un po’ tutti gli stessi vissuti, il Sudafrica aveva un ruolo a parte. Alla radio passavano molta musica sudafricana, di tutti i tipi, compreso zulu jazz. Sono cresciuto ascoltandolo. E naturalmente ascoltavamo Miriam Makeba che ha reso popolare la musica sudafricana in tutta l’Africa occidentale».
Dall’highlife-jazz all’afro-beat, il sodalizio fra Fela Kuti e Tony Allen sarebbe durato dal 1965 al 1979, producendo, soprattutto con gli Africa 70, decine di dischi, innumerevoli concerti, attraversati da una musica sempre in ebollizione, da “Roforofo Fight”, a “Zombie”, “Unknown Soldier”, “Water No Get Enemy”, “Yellow Fever”. Allen ricorda così il punto di svolta: «Quando si suona un assolo di batteria nell’highlife, la gente balla l’assolo. Suonarlo è come parlare. La maggior parte dei batteristi parlano con la batteria, è quel che facciamo con i nostri tamburi tradizionali. Raccontiamo parabole. Le capisci se conosci la lingua. A quel tempo era di moda ed è quel che ho fatto anch’io. Dovevo saper suonare come gli altri prima di guardare oltre. Ma non era quel che cercavo. Mi domandavo in quale direzione ci saremmo dovuti muovere. A quel punto ho capito quale fosse il mio compito: avevo un lavoro da fare e ho cercato di farlo bene». C’è un episodio del 1969 a Los Angeles che riassume il percorso di crescita strumentale. «Frank Butler era in sala ad ascoltare il nostro concerto ed io dissi a Fela: ‘Stanotte vorrei ascoltare questo batterista, chiamiamolo a suonare un blues in dodici battute’. Lo ascoltai suonare e mi sconvolse. Dissi a me stesso ‘Hai ancora tanta strada da fare!’. Quando smise di suonare lo chiamai e gli dissi ‘Sei meraviglioso’. Lui disse a me ‘Tu sei meraviglioso’». Nel frattempo, “Allenko” sviluppa anche le sue abilità come compositore ed arrangiatore e Fela produce i suoi primi dischi, “Jealousy” (1975), “Progress” (1977), “No Accommodation for Lagos” (1979), il disco della maturità:
«Compongo da batterista, evito che gli strumenti si scontrino fra loro. Nel creare Afrobeat, tutto va intrecciato. I monologhi sono noiosi. Deve svolgersi come una conversazione. A prescindere da chi compone, tutti dovrebbero prendere parte alla conversazione, gli strumenti devono parlare l’un l’altro. Questo significa che ogni strumento deve suonare qualcosa di diverso dagli altri. È così che facevano i grandi della nostra tradizione, come Haruna Ishola. Io ho imparato ascoltando musica tradizionale. Ho dovuto aspettare fino a “No Accommodation” per riuscire a comporre nel modo giusto». Il disco viene registrato nel 1978 in tre giorni, ma Fela, impegnato sul fronte politico e alle prese con una comunità sempre più numerosa da gestire, ne ritarda l’uscita per mesi. Le tensioni durante il tour degli Africa 70 a Berlino nel 1978 sanciscono la rottura fra Fela e Allen che saluta Lagos, nel 1979, registrando “No Discrimination”: abbandona il formato con un solo brano per facciata caro a Fela, celebra tolleranza, fratellanza e pace. Da allora continuerà a sfornare ottima musica e fioccheranno le collaborazioni di tutti i tipi facilitate dal trasloco prima a Londra e poi a Parigi. Senza snaturare un accento del suo drumming inimitabile, lo possiamo ascoltare con King Sunny Ade, Manu Dibango, Angélique Kidjo, Oumou Sangaré, Jimi Tenor, Ernest Ranglin, Charlotte Gainsbourg, i brasiliani Metà Metà, Air, Moritz von Oswald (memorabile “Sounding Lines”, 2015), Sébastien Tellier, Jeff Mills (“Tomorrow Comes the Harvest”, 2018), Yann Jankielewicz (nelle registrazioni più orientate all’improvvisazione), il Damon Albarn di Africa Express e Rocket Juice and the Moon.
Rimane forte l’amore per il jazz del Nord America, con i dischi Blue Note del 2017 “A Tribute to Art Blakey & the Jazz Messengers” e “The Source”, e del Sudafrica, con il disco registrato per la World Circuit nel 2010 con Hugh Masekela, e pubblicato solo a marzo di quest’anno. Una storia vissuta sempre con energia e creatività, volentieri anche in Italia, chiedete anche dalle parti del Laboratorio Sociale Afrobeat a Bologna dove è stato ospite nel 2015. Una vita riassunta in “Film of Life” (2014) e in parte documentata dal libro (200 pagine) del 2013 per la Duke University Press “Tony Allen: An Autobiography of the Master Drummer of Afrobeat, scritto con Michael E. Veal (autore anche di “Fela: The Life and Times of an African Musical Icon”). Alla sua musica sono state dedicate innumerevoli analisi. Una buona sintesi l’ha curata Anil Sahinoz in “Afrobeat Drumming, Beats of Tony Allen” in cui ha trascritto 54 groove di batteria sia dai lavori solisti di Tony Allen, sia brani registrati con Fela Kuti. Daniel Faber mette a disposizione alcuni esempi nella pagina “Afrobeat Drumming in the Style of Tony Allen”. Sul suo modo di suonare e restare al passo con i tempi aveva detto recentemente a Pan African Music «Non cerco di predire il futuro, la musica è spirituale, non si tratta di predire, ma di suonare con quel che senti in quell’instante. Se conosci un buon modo di narrare, la musica cura. Può fare molto, tutto dipende dalla tua mente. In ogni caso, è infinita. Resterà a lungo dopo di noi, possiamo giusto fare del nostro meglio per farne buon uso quando siamo sufficientemente fortunati da trovare l’ispirazione».


Alessio Surian

Tony Allen & Hugh Masekela – Rejoice (World Circuit, 2020)

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