Whisky Trail – Il vento che scuote l’orzo (Radici Music, 2025)

“Il vento che scuote l’orzo” raccoglie la celebrazione dei cinquant’anni dei Whisky Trails, band più che longeva che ha alle spalle una carriera imperniata sull’amore per le musiche irlandesi e scozzesi – avvicinate e assorbite attraverso innumerevoli sfumature. Chi conosce il gruppo – nato nel 1975 e oggi considerato uno dei più importanti della scena irish-folk internazionale – sa bene che l’assetto non è quello di chi guarda a una cultura espressiva per rappresentarne le parti, le voci, i suoni che più gli piacciono. Piuttosto – e questo è più che evidente anche in questo splendido album, che denota chiarezza espositiva (si permetta la semplificazione) in ogni sua parte – l’assetto di questa band è quello determinato dallo studio, dalla ricerca e dall’analisi. Dalla propensione alla lettura e alla rilettura – non solo alla riscrittura – di infinite espressioni musicali che avviluppano storie, movimenti, letterature. Diremmo addirittura culture, scivolando nell’ovvio ma, allo stesso tempo, provando a restituire l’ampiezza della prospettiva dei Whisky: conoscitori raffinati della lirica degli incroci, dell’epica della sovrapposizione, della poesia di quelle espressioni che ammettono la propria marginalità tanto quanto la propria ineluttabilità. Che l’album sia intriso di tante storie appare evidente fin dal titolo, che lega il lavoro della band a una tradizione multiforme – che ricomprende musica, poesia, storia e letteratura – che arriva fino a “John Barleycorn”, la ballata popolare resa celebre dal poeta e compositore inglese Robert Burns, ma interpretata attraverso gradazioni sempre diverse da grandi artisti contemporanei come Steeleye Span, John Renbourn e Martin Carthy – eroe alquanto solitario, quest’ultimo, del folk inglese e della chitarra fingerpicking. A capitanare questa cavalcata del cinquantennio dei Whisky è Stefano Corsi (voce, arpa celtica, armonica a bocca), con Valentina Corsi (voce, harmonium e piano), Claudia Tosi (voce e flauto traverso), Lorenzo Greppi (voce, dulcimer, bodhran, whistle), Paolo Lamuraglia (voce e chitarra elettrica) e Valerio Vagnoli (recitazione). La prospettiva di Corsi – come avevamo evidenziato in queste pagine qualche anno fa, in occasione della pubblicazione di “Open”, un album pieno di passione e forza – incrocia sì tutto lo scenario che abbiamo delineato fin qui, ma va dritta verso la sperimentazione di un linguaggio concreto, contemporaneo. Un linguaggio che non perde la mistica del patrimonio storico di cui si nutre, ma che, con la stessa caparbietà, interpreta un mondo diverso, dentro al quale trova spazio una gamma più articolata di strumenti (elettrici e tradizionali del genere) e una riflessione forse più ponderata: più calata nell’atmosfera di una celebrazione. Che – badiamo bene – non è un’incensata alla propria storia e alle proprie passioni (che comprendono la ricerca e tutto il resto), ma un’ulteriore riflessione sul significato che i propri riferimenti assumono in un nuovo contesto. La sensazione di un linguaggio teso ma non contradditorio, di una selezione attenta ma non circoscritta ai dati, agli effetti, più d’impatto, di una verità aderente al suono, pervade chi ascolta fin dal primo degli otto brani in scaletta (e forse – in ragione di quella prospettiva che deposita ragione e chiarezza nello sguardo – non è affatto un caso). Proviamo a spiegarci meglio: “Daith Bech Buide” ci appare come una piccola suite, in cui sono impressi gli elementi centrifughi che imperniano questo viaggio non tanto nello sperimentalismo ma nello spazio di una ricerca di efficacia discorsiva. E questa evidente efficacia poggia proprio su alcuni degli elementi tradizionali delle musiche a cui i Whisky si ispirano, come la polivocalità – che qui arriva con la forza di una raffica di vento freddo e denso. Ma, allo stesso tempo, si riconosce nel dialogo degli strumenti a corda, tra cui compare anche la chitarra elettrica. Lo stesso incastro linfatico si ritrova nel brano successivo “Siobhan ni Dhuibhir - Eileen”, diviso dal primo dall’intervento di Valerio Vagnoli, che legge, tornandovi nelle introduzioni di tutti gli altri brani, le poesie di Lorenzo Greppi (raccolte nel libro che è uscito insieme all’album). Questo insieme di idee, versi e suoni (brillanti e ritmici) rende “Il vento che scuote l’orzo” un album irrinunciabile: una storia lunga dentro un racconto perfetto. 


Daniele Cestellini

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