C’è un luogo a Roma in cui la musica non è solo memoria o studio, ma gesto politico di resistenza culturale, luogo di relazione ed incontro. È il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali che, sotto la direzione illuminata dell’Arch. Sonia Martone, è diventato - nel corso degli anni - uno spazio vivo di attraversamenti sonori, confronti e ascolto consapevole. Il Museo anche quest’anno, ha ospitato – tra novembre e dicembre - il Festival Popolare Italiano, ideato e diretto da Stefano Saletti. Fin dalla sua nascita nel 2015 al centro Baobab, il festival ha scelto di stare dentro le fratture del presente, attraversandole con il linguaggio delle tradizioni in movimento e questa dodicesima edizione lo ha confermato in pieno: non una semplice rassegna di concerti, ma un progetto culturale coerente, laboratorio permanente sulle musiche popolari e del mondo, intese non come repertorio cristallizzato ma come pratica contemporanea, mobile, profondamente legata alle migrazioni, ai contesti sociali e alle nuove cittadinanze. Rispetto alle precedenti, l’edizione 2025 si è articolata in due sezioni “Sonus Mundi” e “Migrazioni Sonore” che non vanno letti come due programmi separati, ma piuttosto hanno rappresentato due capitoli di un medesimo racconto: quello di una musica che nasce dalle radici, si muove con le persone, cambia forma senza perdere senso. Un percorso unitario, dunque, nel quale la dimensione artistica e quella riflessiva si sono intrecciate costantemente, grazie anche al ciclo dei FoolkTalk, le
conversazioni in musica curate dalla nostra testata e diventate - lo diciamo con una punta di orgoglio - ormai un appuntamento immancabile della rassegna. La prima parte, “Sonus Mundi”, si è svolta dall’8 al 16 novembre ha esplorato le forme contemporanee della musica popolare d’autore, mettendo in dialogo radici mediterranee, ricerca vocale e scrittura personale. L’apertura è stata affidata a “Vocazioni” di Ra di Spina, progetto della cantante e ricercatrice vocale Laura Cuomo. Il concerto ha assunto fin da subito la forma di un rito sonoro: un lavoro centrato sulla voce come strumento primario e insieme attualissimo, capace di evocare memorie del Sud, spiritualità popolari e dimensioni collettive del canto. Le stratificazioni vocali e l’uso minimale degli strumenti hanno restituito un ascolto denso, sospeso, in cui la tradizione emergeva come esperienza corporea più che come citazione stilistica.
Il giorno successivo Samuel Mele, con “Il santo sforzo di capire cosa sia l’amore”, ha proposto un viaggio intimo tra new folk e world music, fondendo suggestioni mediterranee e mediorientali in una narrazione musicale che ha messo al centro l’amore come ricerca interiore e come tensione verso l’armonia. Il concerto si è sviluppato come un racconto intimo e spirituale, in cui la ricerca sull’amore diventava metafora di un cammino interiore, sostenuto da una scrittura essenziale e da un uso attento dei timbri strumentali.
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