Pianista tra i più autorevoli e riconoscibili della scena jazz internazionale, Gonzalo Rubalcaba si è affermato fin dagli anni Ottanta come una figura capace di coniugare un virtuosismo naturale, mai esibito, con una tensione costante verso la ricerca, che lo ha portato ad attraversare con disinvoltura territori stilistici diversi senza mai smarrire la propria identità. Incoraggiato agli esordi da due mentori decisivi come Dizzy Gillespie e Charlie Haden, ha costruito un percorso artistico di eccezionale coerenza e profondità, testimoniato da oltre quaranta dischi come leader o co-leader e da collaborazioni con alcuni dei protagonisti assoluti della musica improvvisata, da Paul Motian a Ron Carter, da Jack DeJohnette a Richard Galliano, fino a Chick Corea e Herbie Hancock. Al centro della sua poetica si colloca un linguaggio inconfondibile, in cui la formazione classica, la pulsazione afrocubana e la libertà del jazz si fondono in una sintesi espressiva personale, aperta e di respiro universale, capace di parlare a pubblici diversi e di oltrepassare i confini di genere con naturalezza. È proprio questa attitudine a “abitare più mondi” che ha reso quasi inevitabile l’incontro con il songbook di Pino Daniele, dando vita a un dialogo tra due musicisti che, pur provenendo da geografie e storie differenti, hanno fatto della fedeltà alle proprie radici il punto di partenza per una visione musicale senza frontiere. L’intuizione di questo incontro prende forma nel 2021, quando Rubalcaba è ospite del Pomigliano Jazz Festival per il progetto Mascalzone Latino”. Il direttore artistico Onofrio Piccolo gli suggerisce l’idea di lavorare sul songbook di Pino Daniele. La risposta del pianista cubano non è teorica ma immediatamente musicale: in coda all’esibizione regala al pubblico una versione dilatata e visionaria di “Tutta n’ata storia”, oltre quattordici minuti di improvvisazione tra pianoforte e tastiere elettriche che accendono l’entusiasmo della platea e lasciano intravedere con chiarezza le potenzialità del progetto. I ricordi portano dritto a quel concerto che Pino Daniele tenne a Cuba nel 1984 per il Festival De Varadero. Ad accompagnarlo c’erano gli amici Rino Zurzolo, Joe Amoruso e Agostino Marangolo e, salito sul palco, salutò il pubblico proprio con una travolgente “Tutta n’ata storia”. Un cerchio, insomma, stava per chiudersi e da quell’episodio germinale al Pomigliano Jazz, ha preso vita il disco “Gonzalo Plays Pino” e presentato in anteprima nella cornice dell’Anfiteatro Romano di Avella con la stessa formazione che compare sull’album: Daniele Sepe al sax tenore, Aldo Vigorito al contrabbasso, Claudio Romano alla batteria, Giovanni Imparato alle percussioni, Giovanni Francesca alla chitarra e Maria Pia De Vito alla voce.
Registrato a giugno tra Castellammare di Stabia e Miami e mixato e masterizzato a San Francisco, il disco è il risultato di uno studio attento e rispettoso del repertorio di Pino Daniele, affrontato però senza timori reverenziali: Rubalcaba ne riscrive le partiture, ne riplasma le architetture armoniche e ritmiche, inserendo aggiunte e divagazioni che si muovono con eleganza e lirismo, aprendo i brani a nuove prospettive espressive. Ne nasce un lavoro di grande equilibrio, tra gli omaggi più riusciti nel decennale della scomparsa di Pino Daniele, capace di parlare tanto a chi conosce profondamente quel canzoniere quanto agli estimatori del pianista cubano. Rubalcaba offre una riscrittura profonda e meditata del canzoniere del cantautore napoletano, mettendo in dialogo due identità musicali che, a distanza di latitudine e lingua, condividono la stessa idea di radice aperta, di Sud come categoria estetica prima ancora che geografica. Ad aprire il disco è “Cumbà”, tratta dall’album Schizzechea with Love del 1988, scelta programmatica che stende un ponte tra L’Avana e Napoli, il Malecón e i vicoli, affidando al pianoforte un disegno essenziale, quasi rituale, sostenuto da una sezione ritmica che lavora per sottrazione, lasciando emergere il respiro profondo del brano; il tema si distende con naturalezza, le percussioni di Giovanni Imparato e la batteria di Claudio Romano costruiscono un tessuto pulsante ma mai invasivo, mentre il sax tenore di Daniele Sepe irrompe nel finale con un fraseggio che sa essere insieme post-senesiano e pienamente contemporaneo. “Sicily”, scritta da Pino Daniele con Chick Corea, prosegue su un registro lirico e controllato, ipnotico nella sua pulsazione circolare, con il contrabbasso di Aldo Vigorito a scandire il tempo e la chitarra di Giovanni Francesca a inserire colori elettrici che dialogano con il pianismo elegante e misurato di Rubalcaba, lontanissimo da ogni tentazione virtuosistica fine a se stessa. “Tutta n’ata storia” è uno dei vertici dell’album, perde volutamente l’urgenza esplosiva dell’originale per trasformarsi in un racconto disteso, quasi uno standard jazz, dove il tema viene esposto con chiarezza e poi attraversato da improvvisazioni che ne esaltano la struttura armonica, con Rubalcaba e Sepe a muoversi in perfetta sintonia sopra un groove solido e mai rigido. Con “Gesù Gesù”, il disco cambia passo e atmosfera: l’ingresso della voce di Maria Pia De Vito, inizialmente quasi a cappella, imprime un carattere liturgico e raccolto, una preghiera laica costruita sui silenzi tanto quanto sulle note, che si apre progressivamente all’intervento della band senza mai perdere intensità; la stessa poetica della sottrazione governa “Pace e serenità”, ballad rarefatta e sospesa, dove tutto concorre a creare un clima di intimità e ascolto profondo. “Toledo” è uno dei momenti in cui la mano di Rubalcaba si avverte con maggiore evidenza compositiva: il brano diventa un piccolo laboratorio di fusione tra jazz e matrice latina, con un phrasing fluido, inserti percussivi del piano, dinamiche dosate con intelligenza e un senso del groove che mantiene sempre saldo il filo narrativo, rendendo omaggio allo spirito ibrido dell’originale senza imitarlo. “Napule è” viene riletta come un canto interiore, affidato a un contrabbasso dal passo roncarteriano e alle spazzole, senza bisogno di parole, perché la melodia è ormai patrimonio emotivo collettivo. “Chi tene ’o” mare si trasforma in una ballad universale, sospesa tra Mediterraneo e Caraibi, con Sepe a evocare le ombre lunghe di James Senese e Rubalcaba a cesellare delicate note blu. “Maggio se ne va” e “Lazzari felici” mantengono una malinconia luminosa, dolce e mai compiaciuta, preparando l’approdo finale a Quando, letta con calore e misura, tutta al servizio della cantabilità del tema. “Gonzalo Plays Pino” è molto più di un omaggio riuscito: è la dimostrazione che il repertorio di Pino Daniele regge senza complessi il confronto con i grandi songbook del Novecento e che può essere abitato, reinventato e rilanciato da uno dei musicisti più autorevoli della scena jazz contemporanea, capace di tenere il proprio ego un passo indietro per far emergere, con rara eleganza, l’energia già potentissima di quella musica.
Salvatore Esposito
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