#BF-CHOICE
Sono passati sette anni da “Core [Coracão]”, che è un altro disco bellissimo nella tua discografia. Questo uovo album è più radicale ed interamente dedicato a Chicho Buarque. Qual è la differenza principale tra questi due progetti, oltre al repertorio?
In “Core [Coracão]” c’era un repertorio molto ampio, anche con composizioni di Egberto Gismonti, di Guinga; c’era Mirabassi… era un disco più orchestrato, pur con moltissima improvvisazione. “Buarqueana”, invece, è dedicato interamente a Chico. Dopo esserci conosciuti e aver registrato insieme a Parigi, sono iniziati otto-nove anni di comunicazioni continue sulle traduzioni, prima ancora di pensare al disco. Il rapporto si è stretto sempre di più: ho tradotto moltissimo e lasciato fuori tanti brani, perché non potevo fare un progetto di cinquanta canzoni. È diventata una ricerca linguistica: il napoletano quotidiano ha convissuto con quello antico, quello di mia nonna, con parole desuete che ho voluto riportare alla luce. Chico ha seguito il lavoro passo passo fino all’ultimo. Correggevamo dopo aver già corretto, e lui stesso proponeva soluzioni in napoletano — che funzionavano! Ha persino imparato un po’ di napoletano. A un certo punto ha iniziato a dire: “Questo nostro disco”. Per me è un po’ come il mio Pulitzer. È diventato davvero un lavoro a quattro mani sulle parole. Musicalmente avevamo il quartetto, non più il quintetto — senza l’adoratissimo Mirabassi — e questo ci ha dato ancora più libertà. Ognuno di noi ha preso in carico un brano spontaneamente. Quando ho tradotto “Uma Palavra”, che è un manifesto del suo amore per la parola, ho pensato: “Questo deve aprire il disco”, immaginandolo come una nuvola, qualcosa di etereo. Tutto è nato in modo naturale, anche grazie ai concerti in trio (il progetto “Legna de Jipassi” con Roberto Rossi e Taufik), che hanno rodato molto materiale. E poi c’era Huw Warren: con lui ho un rapporto quasi telepatico, è un ascoltatore formidabile. Pianoforte e chitarra non è facile farli convivere, ma loro non si urtano mai.
A livello umano, quanto ti ha arricchito il rapporto diretto con Chico, prima epistolare e poi dal vivo?
Enormemente. Tutti dicono “Chico è timido”. No: è riservato — ed è diverso. Ed è dotato di grande umorismo. Io sono una perfezionista, quindi gli chiedevo spesso: “Perché hai usato proprio questa parola?
Perché a me comunica due luoghi diversi?”. Lui mi spiegava perfettamente l’intento, facendomi entrare in storie complesse e dolcissime. Per esempio “Meu caro amigo”: sembra una lettera un po’ egoistica, uno che scrive all’amico e dice “è sempre la stessa storia, samba, calcio…”. Io gli chiesi: “Cosa in Italia distrae le persone, anche nei momenti brutti?”. E ho messo Sanremo: jazz, pop e rock’n’roll. Capiva perfettamente la situazione italiana. Ogni cosa era un’occasione di apprendimento. E poi c’è la sua abilità nel nascondere riferimenti politici per sfuggire alla censura. “Cotidiano”, che sembra parlare di una relazione, in realtà parla della dittatura. Questo mi ha fatto capire molto del Brasile. Ho cercato di tradurre in modo quanto più letterale possibile, conservando le sonorità. Tradurre è un po’ tradire, ma ho cercato di tradire il meno possibile. E in studio Chico mi disse una cosa bellissima: “In questo momento tu sei l’unica che mi tradisce con tanto amore, cercando questa fedeltà”. Sono rimasta commossa.
Musicalmente, come avete costruito gli arrangiamenti? Come avete incastrato le liriche tradotte con melodie e timbri?
L’affiatamento tra noi era enorme: io e Warren lavoriamo insieme da tanti anni, io e Taufik pure. Con Roberto Rossi abbiamo un interplay rodato dai concerti in trio. Siamo abituati a partire da un’idea e poi lasciarci portare dall’improvvisazione, con grande fiducia reciproca. In “Cotidiano” io sentivo una batucada sotto; Roberto propose: “Maracatù”. Ne è venuto fuori un Cotidiano maracatù. Quando Chico l’ha sentito ha detto: “Geniale!”. Per “Uma Palavra”, invece, l’arrangiamento era talmente nuovo che Chico si è quasi spaventato: “Ma è mio questo pezzo?”. Con “Almanaque” abbiamo lavorato nel soggiorno di casa mia. Avevo uno xilofono vietnamita in do, la tonalità del pezzo, e l’introduzione è nata
lì, con una suggestione afro. Poi spazi, idee, vuoti… Quando siamo arrivati in studio è stata buona la prima. Roberto Rossi ha avuto un’idea bellissima per i cori finali, che non avevamo potuto registrare insieme. E siccome Chico con me si firma “Ciccillo” (gliel’ho insegnato io: in napoletano Francesco si dice così), Roberto ha trovato una canzone antica napoletana — quella che ha dato origine alla sceneggiata “Don Ciccillo” — e l’ha inserita come intro e finale. E poi una frase cantata da Angela Luce: “Nun è che si sbagliata, io songo felice e cchiù felice ’e te”. Una volta Chico mi chiamò per sbaglio su WhatsApp. Io rispondo: “Chico, che c’è?”. E lui: “Ma non mi hai chiamato tu?”. “No, mi hai chiamato tu.” E lui: “Ah, m’aggio sbagliato!”, con accento napoletano perfetto. Siamo morti dal ridere.
Poi avete registrato anche in Brasile?
Una prima parte a Roma, poi siamo andati a Rio, nello studio di registrazione della Biscoito Fino. Due giorni intensissimi. Il primo giorno abbiamo registrato i due pezzi con lui, più la sorpresina in “Samba do Grande Amor”: fa solo una “rispostina”, ma ci ha talmente gasati che il giorno dopo abbiamo riregistrato anche brani già fatti a Roma. Avevano un’altra energia. Abbiamo usato le versioni di Rio.
Qual è stato il riverbero dell’atmosfera di Rio sulla musica?
Ho fatto un’esperienza mai fatta prima: le prove di rua delle scuole di samba. Era gennaio, Carnevale alle porte. Centinaia di percussionisti, poi la sfilata: prima i ballerini professionisti, poi la gente comune. Anziani, bambini, tutti che cantavano con coreografie semplici ma perfette. Mi sono messa a piangere: quanto siamo belli quando siamo insieme. In un momento storico così orribile — il più orrendo che chi non ha vissuto la guerra abbia mai visto — quella bellezza collettiva mi ha straziato e riempito. Me la sono portata dentro.
Sono stata puntualissima. Tutto ciò che potevo tradurre letteralmente, l’ho tradotto così. Quando era impossibile, cercavo un equivalente sensato. In “Meu caro amigo”, per esempio, dove c’era un riferimento intraducibile, ho messo Sanremo: a Chico piaceva molto. “Almanaque” è stato complicatissimo: un elenco lunghissimo di parole. Per “matite colorate” ho usato ’e lápse a culùr, un’espressione antica. In altri punti ho rispolverato frasi come “A giarratella nun s’è scassata?”, che significa “non è esploso il conflitto”. Parole che vengono dalla mia memoria infantile. E chiedevo sempre a Chico: “Posso tradurre così?”. È stato un lavoro di scavo profondissimo.
Soffermiamoci su “Angélica”. Come hai scelto questo brano?
L’ho scelto perché commuove fino alle lacrime. Ho studiato tantissimo la storia: Zuzu Angel fu la prima stilista brasiliana a imporsi a Hollywood. Suo figlio Stuart era un oppositore della dittatura: fu torturato, ucciso e gettato da un aereo. Lei lo cercò ovunque, scrisse anche a Chico dicendo: “Se muoio, non sarà un incidente”. Una settimana dopo fu uccisa da un camion, nel tunnel oggi dedicato a lei. Chico scrisse “Angélica”, ma la pubblicò solo dopo la dittatura. Quando gli ho detto che volevo tradurla e mi piacerebbe cantarla con lui, rispose: “Bella idea, tirarla fuori ora”. La prima frase, “Quem é essa mulher?”, poteva diventare “Chi è questa signora?” o “Sta femmena chi è?”. Io propose femmena, che dà una connotazione viscerale dell’amore materno. E lui: “Facciamole entrambe”. E così abbiamo fatto.
Come avete lavorato sulle voci?
Avevamo un’idea generale, ma abbiamo definito tutto in studio. L’impasto è venuto da sé, come in “Todo sentimento” ai tempi di “Core/Coração”: eravamo in due booth diversi, senza vederci, e sembrava tutto
Il duetto con Monica Salmaso è uno spettacolo: voci diversissime che si compenetrano.
Monica è meravigliosa: timbro unico, grana stupenda, una persona dolcissima. Avevamo già cantato insieme nel disco “Porto da Madama” di Ginga e poi nei concerti. Nel duetto ho costruito un contrappunto tra portoghese e napoletano, soprattutto in un verso che piace molto a Chico. È stato tutto naturale.
In diversi brani si percepisce una napoletanità nuova: antica e inventata insieme. Da cosa sei stata guidata?
Dal mio subconscio. Alcuni brani mi spaventavano: “Construção”, “Valsinha”, “Samba e Amor”… capolavori intoccabili. Li traducevo, li lasciavo lì, ci tornavo dopo una settimana: e lì uscivano le parole giuste, dalla memoria profonda, dalla voce dei miei nonni. Il napoletano è una lingua stratificata: araba, greca, latina, francese, spagnola… anche qualcosa delle dominazioni più antiche. È perfetto per accogliere Chico.
C’è una rotta sotterranea tra Napoli e Brasile? Una parentela misteriosa?
L’ho percepita davvero quando l’associazione Napoli-Bahia mi invitò a un concerto all’università di Bahia. Un professore mi regalò l’opera omnia di Dorival Caymmi: quelle canzoni potrebbero essere state scritte a Napoli e cantate da Murolo. Prima della bossa, la musica brasiliana guardava anche all’Argentina, ai bolero… e tanti sambisti erano di origine italiana. Caetano Veloso dice che baiani e napoletani si somigliano perché sono popoli impertinenti. È verissimo. Bahia ha visto tutto, come Napoli. Napoli accoglie, non discrimina: i femminielli sono parte della cultura, con la Madonna di Montevergine che li protegge. Io amo Napoli follemente: è il mio luogo dell’anima, anche se sono andata via 35 anni fa.
Se ti metti davvero a disposizione della musica, la musica ti trasforma. Se invece pensi solo alla carriera, rischi di diventare il jukebox di te stesso. Io ho sempre voluto solo la musica. Essere nata a Napoli è un dono: il canto napoletano è naturalmente ibrido, cancella la distinzione tra musica alta e bassa. Ho iniziato nella musica popolare, poi in un gruppo dell’Istituto Orientale dove cantavo in tredici lingue: macedone, albanese, russo, bulgaro, greco, grecanico, spagnolo, portoghese, quechua… A sedici anni ero una spugna. Cantavo come una Fregoli della voce: ho capito presto che non esiste una voce, ma mille. Poi sono arrivati il jazz, Sarah Vaughan, Norma Winstone, John Taylor, Demetrio Stratos. Mi si è aperta la testa: ho capito che dovevo trovare la mia voce, non imitare. Due frasi mi guidano “Il dovere dell’artista è essere fedele al proprio stile” di Luciano Berio e “L’esperienza musicale ti trasforma: non esci mai uguale da un concerto” di John Cage. Spero di avere ancora energia per molte altre metamorfosi.
Parliamo di “Dreamers”: io ho adorato la tua versione di “Simple Twist of Fate”. Com’è nato quel progetto?
È nato durante le prime “trumpate” in America e il ritorno dei razzismi da noi, con Salvini ecc. Io pensavo: “Abbiamo vissuto un’epoca meravigliosa, con autori che ci facevano pensare e crescere”. Ho scelto quei brani per ricordarlo. All’inizio volevo inserire “Here Comes the Flood” di Peter Gabriel. La scrisse dopo aver sognato che tutti potevano leggere nella mente di tutti: ne derivava la fine del mondo. Mi sembrava perfetta per descrivere i social — e ora anche l’intelligenza artificiale. Poi è arrivata la pandemia, e quel brano è diventato quasi troppo vero, e l’ho tolto.
Più che denuncia, è riflessione. I miei progetti guardano sempre al presente: “Mind the Gap”, “Dreamers”, “This Woman’s Work” e ora Chico. In “Dreamers” c’è “Pig, Sheep and Wolves” di Paul Simon: i “pig” erano Trump e Salvini, le “sheep” coloro che si comportano da pecore, i “wolves” i lupi solitari che provano a combattere. Chico è sempre stato politicamente impegnato. Ma oggi, nel periodo post-bolsonarista, non può più girare liberamente: una volta, all’uscita di un ristorante, lo hanno insultato. Sui social gli attribuiscono assurdità: aveva scherzato sul non ricordare più gli accordi e qualcuno ha diffuso la voce che avesse rubato le canzoni. Il mondo è devastato dall’ignoranza e dalla manipolazione.
Avrà una declinazione dal vivo questo disco? Lo porterai con il quartetto?
Alla Casa del Jazz ho una carta bianca di tre giorni: il 22 e 23 gennaio facciamo “Buarqueana”, e il 24 “Murmuration”.
L’attività didattica: quanto è importante per te?
Molto. Mi piace fare la motivatrice, non solo l’alfabetizzatrice. Insegno tutte le settimane a Napoli. Con i ragazzi del primo anno faccio ciò che è necessario, ma poi dedico molto spazio all’ensemble vocale, che adoro: lavoriamo sulle moresche di Orlando di Lasso — come nel mio disco — e su brani dei Take Six, degli Swingle Singers… Subito capiscono che si può arrivare molto in alto.
Hai lavorato a “For Pino” di Gonzalo Rubalcaba. Com’è stata questa esperienza?
Meravigliosa. E poi lavorare nell’ultimo disco di Gonzalo Rubalcaba, “Gonzalo Plays Pino” dedicato a Pino Daniele è stato magnifico: ho cantato quattro brani. Gonzalo è gentile, riservato, ma è una macchina da musica.
Salvatore Esposito
Maria Pia De Vito feat. Chico Buarque e Mônica Salmaso – Buarqueana (Parco della Musica Records, 2025)
Nel suo album “Core [Coracão]”, dedicato alla musica brasiliana, Maria Pia De Vito aveva selezionato tre brani chiave dal repertorio di Chico Buarque: due dagli anni Ottanta, “O Meu Guri" (1981) e "Todo sentimento" (1987), con lo stesso Chico Buarque come ospite, e il capolavoro “Construção” (1971). Il nuovo lavoro, interamente dedicato a Chico Buarque, non poteva che prendere le mosse da “Uma Palavra”, una parola. Alla lingua e alle parole stanno dedicando molta attenzione i migliori cantautori brasiliani, da Arnaldo Antunes (“Pra Não Falar Mal”, Per non parlare male) ai recenti dialoghi di Lucas Santtana con Gilberto Gil, nell’ “A História Da Nossa Língua”, e con Dimartino in “Strati di tempo” dove narrano la “lingua, figlia errante, dove atterra diventa mutante”. Erranza e mutevolezza sono profondamente legate alle esperienze italiane di Chico Buarque, in parte narrate nel libro pubblicato l’anno scorso, “Bambino a Roma”, memoria degli anni ’50, della casa in cui abitò vicino a Corso Trieste, dell’imparare italiano e inglese, del rendersi conto che “in Italia non c'erano persone nere. Niente poteva essere più strano di questo”. Proprio questa “assenza” aveva segnato alcune traduzioni in italiano delle sue canzoni fra gli anni ’60 e ’70 (emblematica, per esempio, l’eliminazione della “roda” e del samba da “9 di sera”). Alla traduzione in napoletano dei versi di Chico Buarque Maria Pia De Vito ha lavorato impastando insieme cura e accuratezza, memoria e creatività, generando un percorso in quindici tappe in cui ogni brano splende di luce propria e, nel gioco di continuità e contrasti, contribuisce a far brillare gli altri. Quasi un gioco di specchi con “Uma Palavra”, l’album pubblicato esattamente 30 anni fa da Chico Buarque in cui ri-arangiava quindici canzoni in compagnia di un trio stellare, le percussioni e la batteria di Chico Batera e Wilson das Neves e la chitarra di Luís Cláudio Ramos, prendendo il titolo dalla composizione scritta nel 1989 che mise in coda a tutte le altre, mentre in “Buarqueana” apre la scaletta divenendo “Parola primma”. Anche in questo caso la voce interagisce con tre straordinari musicisti: Roberto Rossi, con batteria e percussioni, stende un tappeto su cui tessono e ricamano senza una sbavatura Huw Warren al pianoforte e Roberto Taufic alla chitarra. “Almanacco” (1981) e “Amico mio (Meu caro amigo, 1976)” raccontano a meraviglia la capacità del quartetto di prendere per mano l’anima carioca dei brani invitandola a danzare fra le strade di Napoli: nel primo caso il quartetto sceglie un approccio granulare, spargendo qua e là timbri, voci, cellule melodico-ritmiche fatte lievitare con sapienza per fondersi e salire di volume nel crescendo finale; la lettera alll’amico (che Chico Buarque indirizzò a Augusto Boal, esiliato a Lisbona) evidenzia l’affinità rio-partenopea nella “resistenza” quotidiana, striando versi “sereni” di gesti e semi di solidarietà e rinascita. Fra i due brani le percussioni fanno una pausa e si inserisce “Maninha” (1977) toccante duetto in portoghese De Vito-Buarque dove i ricordi d'infanzia di quest’ultimo offrono rimandi alla repressione politica da parte della dittatura militare, con il verso “Perché non ho più cantato, oh sorellina, dopo che lui arrivato” che sottintende con “lui” il regime autoritario, responsabile di aver silenziato molte voci. È un brano che è entrato nel repertorio anche dell’altra voce brasiliana che partecipa all’album, Mônica Salmaso, qui toccante protagonista del duetto, napoletano- portoghese, in “Valsa Contro ‘o tiempo (Valsa Brasileira, 1989)”.
Alessio Surian
Foto di Riccardo Musacchio - Musa (1, 2, 3, 4, 5, 6) e Boccalini (8)





