Marzouk Mejri: costruire il ney tra tradizione orale e sperimentazione contemporanea

Tunisino di nascita e napoletano d’adozione dal 1994, Marzouk Mejri vanta un percorso artistico che intreccia tradizione orale, ricerca timbrica e sperimentazione, ponendo al centro del proprio lavoro il dialogo fra le culture musicali del Nord Africa e quelle dell’Europa meridionale. Cantautore, compositore e polistrumentista, Mejri padroneggia un ampio spettro di strumenti della tradizione maghrebina e mediterranea, tra cui il ney, il mezued, lo zukra, oltre a un articolato set di membranofoni quali darbuka, bendir e tar. Nato a Tebourba, a nord-est di Tunisi, all’interno di una famiglia di musicisti, viene avviato precocemente alla pratica musicale dal padre, maestro di percussioni (rullante e darbuka), che ne orienta la formazione iniziale. Questo percorso si consolida con il diploma in percussioni conseguito presso il Conservatorio di Tunisi, base tecnica e teorica da cui prenderà avvio una ricerca personale sempre più ampia, non limitata all’esecuzione ma estesa all’organologia e alla riflessione sui materiali sonori. 
Dopo il trasferimento a Napoli, città che diventa il suo principale laboratorio artistico, Mejri fonda il Marzouk Ensemble, progetto con cui inizia a rileggere il patrimonio musicale tunisino in chiave contemporanea. Successivamente dà vita, insieme al trombettista canadese Charles Ferris e al DJ e produttore torinese Ghiaccioli e Branzini, ai Fanfara Station, formazione che rielabora il malouf tunisino attraverso l’innesto di elettronica, fiati bandistici e linguaggi urbani, ottenendo un significativo riscontro anche in ambito internazionale. Più recentemente il progetto Maluf System con il chitarrista, oudista e accademico napoletano Salvatore Morra, che definiscono come “movimento di post-revival del mālūf” con cui ha inciso “Eddiwen”  per Liburia Records. Nel corso della sua carriera, Marzouk Mejri ha collaborato con numerosi protagonisti della scena musicale italiana —
tra cui Daniele Sepe, James Senese, Peppe Barra, 99 Posse, Eduardo De Crescenzo, Enzo Avitabile, Modena City Ramblers, Nuova Compagnia di Canto Popolare e Nu Genea — muovendosi con naturalezza tra jazz, musiche di tradizione orale, canzone d’autore e pratiche sperimentali. È in questo intreccio di musica, artigianato, memoria e sperimentazione che si colloca anche il lavoro di Mejri come costruttore di ney, flauto obliquo ad imboccatura terminale appartenente alla famiglia degli aerofoni a fessura. I ney costruiti dal musicista tunisino non sono concepiti come strumenti standardizzati, ma come oggetti sonori unici, strettamente connessi alla materia prima e alla relazione fisica con l’esecutore. La canna utilizzata non è il bambù — spesso impropriamente indicato come tale — bensì canna palustre di fiume o di lago (Arundo donax), selezionata secondo criteri morfologici rigorosi: maturità della pianta, regolarità e distanza degli internodi, presenza del diaframma naturale e leggerezza complessiva del tubo. La fase di selezione avviene direttamente sul campo, presso corsi d’acqua o bacini lacustri. Contrariamente a una lavorazione esclusivamente meccanica, Mejri interviene manualmente anche sull’interno del tubo, effettuando una svuotatura parziale mediante punte lunghe e abrasione con carta vetrata. Questo passaggio risulta cruciale dal punto di vista acustico: una canna eccessivamente carnosa smorza la vibrazione, mentre una svuotatura totale compromette il carattere timbrico dello strumento, trasformandolo in un semplice tubo risonante e privandolo del tipico fruscio aerodinamico che costituisce una componente essenziale del suono del ney. Uno degli aspetti più rilevanti della pratica liuteristica di Mejri riguarda il sistema di misurazione dei fori e la questione dell’intonazione. Il punto di riferimento iniziale è una nota fondamentale denominata Radded nella tradizione tunisina. A partire da questa, la canna viene suddivisa secondo rapporti proporzionali: dapprima in due sezioni (con uno spostamento di
circa un centimetro verso l’imboccatura), quindi in quattro e successivamente in tre, seguendo una logica frazionaria di derivazione orale piuttosto che teorico-matematica. In una prima fase, tale metodologia produce strumenti pienamente funzionali all’interno del sistema modale tradizionale. Tuttavia, il confronto con strumenti a intonazione temperata (pianoforte, chitarra, fiati occidentali) rende necessaria una revisione del metodo. Mejri introduce quindi l’uso sistematico dell’accordatore elettronico, sacrificando numerosi strumenti nel processo, fino a comprendere i meccanismi di compensazione necessari per rendere il ney compatibile con contesti musicali misti, senza comprometterne l’identità timbrica. Questo passaggio rappresenta un punto di contatto particolarmente significativo tra organologia tradizionale e prassi musicale contemporanea, aprendo il ney a forme di dialogo interculturale esteso. Abbiamo incontrato Marzouk Mejri nella sua casa-laboratorio per approfondire la sua pratica di costruzione del ney, di cui è oggi profondo conoscitore e depositario.


Come ti sei avvicinato al mondo della musica?
È un’eredità di famiglia, soprattutto da parte di mio padre, che era un grande appassionato di musica. Era il suonatore di rullante della banda del mio paesino. Non solo: lui, insieme ai suoi amici, ha spinto anche le generazioni successive a imparare musica e a farla attivamente. Da mio padre ho imparato i ritmi, le percussioni, in particolare la darbuka. Ho studiato il canto, sia il malouf che il repertorio della banda, oltre al canto sufi. Successivamente ho intrapreso un percorso autonomo: ho fatto le mie esperienze, i miei viaggi, e ho sostenuto l’esame al Conservatorio di Tunisi, dove mi sono diplomato in percussioni.

Come ti sei avvicinato alla costruzione del ney?
Quando sono arrivato in Italia — non so bene perché — forse anche perché mio zio suonava il clarinetto, sentivo che il mio DNA era portato verso i flauti, verso gli strumenti a fiato. In Tunisia, fin da bambino, questo strumento mi affascinava molto e ho cercato di impararlo. Mi sono avvicinato ai suonatori, ho ascoltato i loro racconti su come lo strumento viene costruito, su come funziona. Poi sono venuto in Italia e questa passione, questa fissazione, è rimasta. Da solo, sono andato al lago d’Averno, vicino Napoli, e ho cercato le canne che piacevano a me: con il diaframma giusto, con internodi ravvicinati. Ne ho prese diverse e ho iniziato a lavorarci, ricordandomi dei racconti degli amici naysti e flautisti, cercando di applicare quello che avevo appreso. All’inizio non usavo l’accordatore: contavo i nodi, facevo i miei calcoli, nove, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove… e lo strumento suonava. Però quando andavo a suonare con pianoforte, chitarra o trombone, non funzionava: l’intonazione non reggeva. A quel punto ho capito che dovevo intonarmi con l’accordatore. Ho iniziato così, e piano piano ho buttato via tantissime canne. Alla fine però ho compreso il meccanismo: le misure, l’intonazione, come farlo suonare
bene, davvero bene, sia con strumenti occidentali che con strumenti medio-orientali o arabi. Per me oggi non c’è nessun problema.

Successivamente hai avuto contatti con altri costruttori di ney? Tornando in Tunisia, per esempio, sei entrato in contatto con qualcuno che lo costruisce ancora?
I suonatori lo vedono, lo provano, gli piace, lo apprezzano. Non c’è dubbio: è una ricerca continua. Ti faccio un esempio: io suono anche il clarinetto e utilizzo un’ancia molto morbida, una uno e mezzo, non uso ance dure. Per me è più facile, più naturale. Però il mio clarinetto risultava sempre calante rispetto agli altri strumenti. Allora ho applicato la stessa logica di ricerca: ho accorciato il barilotto superiore del clarinetto. Ora suono benissimo con l’ancia uno e mezzo ed è perfettamente intonato. So come intervenire, so come risolvere questi problemi.

Ovviamente la costruzione del ney è parte integrante del tuo percorso musicale, ma non è un’attività commerciale in senso stretto. Non vendi abitualmente i tuoi strumenti…
Qualche volta sì. Qualcuno me lo ha chiesto, magari un amico che voleva fare un regalo particolare a un flautista innamorato dello strumento. In questi casi li vendo, ma non in quantità: capita, non è una produzione.

C’è una canna particolare che utilizzi per il ney? La scegli secondo criteri specifici?
La canna non è bambù, come molti dicono. No, è sbagliato. Il bambù è una canna molto diversa. Io uso la canna di fiume o di lago: è sottile. Anche se è già sottile, comunque la svuoto ulteriormente con la carta vetrata, perché un ney più leggero, meno carnoso, suona meglio. Vibra di più, risponde meglio. Quindi:
canna leggera, assolutamente non bambù.

Utilizzi una misura standard o realizzi ney di diverse lunghezze?
La tonalità dipende dalla lunghezza. Più la canna è lunga, più la nota è grave. Questo, ad esempio — anche se non è ancora completo e va intonato meglio — è più lungo.
Più la canna è corta, più la nota è acuta.

Ripercorriamo brevemente le fasi costruttive del ney….
All’inizio bisogna andare in un lago o in un fiume e trovare le canne secche. Anche se non sono completamente secche, basta tagliarle e lasciarle all’ombra per qualche mese. Meglio ancora se le trovi già secche. La cima della canna deve essere matura: una canna che ha completato il suo ciclo vitale. È lì che troviamo gli internodi più ravvicinati, che non troviamo nella parte bassa. Cerchiamo una canna abbastanza dritta; se non lo è, la si può raddrizzare scaldandola sul fuoco e raffreddandola subito con un panno umido. Una volta dritta, si inizia la misurazione. Questa nota di base, in Tunisia, la chiamiamo “radded”. Si prende la canna, la si divide a metà, spostandosi però di circa un centimetro verso la parte dell’imboccatura. Quella metà la si divide in quattro: trovi il punto centrale e ottieni quattro segmenti. Poi quello che hai trovato lo dividi in tre: uno, due, tre. Ripeti l’operazione più volte. È un sistema tradizionale, molto preciso.

Utilizzi anche strumenti non manuali, ovviamente: trapano, punte, quindi c’è una fase di svuotatura interna.
Sì, certo. Una volta scelta la canna, bisogna svuotarla perché all’interno è chiusa. Con un trapano e una punta lunga la si svuota, ma solo parzialmente: si lavora soprattutto sulla metà superiore. È quella parte che produce il suono, perché l’aria, soffiando, colpisce la membrana naturale e crea quel movimento,
quell’effetto “vento”, quel soffio caratteristico. Se la svuoti completamente, il suono diventa troppo pulito, sembra un tubo: perde quel fruscio, quell’anima.

Sulle tecniche costruttive hai sperimentato qualcosa di nuovo rispetto al modello tradizionale?
Sì. Per esempio, su un ney ho montato il bocchino di un sax soprano. È stata una felicità per me, perché non me lo aspettavo. Ha mantenuto l’intonazione e ha prodotto un suono che somiglia a quello di un clarinetto, forse di un clarinetto antichissimo. Mi piace sperimentare, mi interessa molto.

A livello timbrico, tu hai suonato in un progetto sperimentale come Fanfara Station, utilizzando anche il ney. Come hai lavorato sull’integrazione con l’elettronica?
I suoni delle canne funzionano molto bene, secondo me, perché sono delicati. Si adattano alla musica classica, alle fanfare, perché il ney è un fiato. Un fiato dialoga naturalmente con tromba, trombone, clarinetto. In un certo senso il ney può essere considerato il nonno del clarinetto: è molto più antico. Condividono frequenze, atmosfere, colori sonori. Con Fanfara Station mi sono trovato molto bene. Ho usato spesso il ney, soprattutto quello acuto e acutissimo, perché tromba e trombone tendono a coprire. Anche il ney grave, come questo, funziona benissimo per creare atmosfera. Con il delay, con gli effetti, si possono esplorare moltissime possibilità sonore.


Salvatore Esposito

Foto e video di Salvatore Esposito eccetto n. 2 di Marzia Bertelli e n.3 di Gabriella Vaghini

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