Fanfara Station – Boussadia (Garrincha Go Go, 2022)

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“Boussadia” segna il ritorno dell’avvincente trio di strumenti acustici (fiati e percussioni), voci ed elettronica. Un ribollente party danzereccio officiato dal polistrumentista tunisino Marzouk Mejri, dal trombettista statunitense Charles Ferris, entrambi di lunga residenza italiana, e dal DJ e producer di musica elettronica Marco Dalmasso, conosciuto con il moniker Ghiaccioli e Branzini. Della loro formidabile convivenza sonora ci siamo già occupati in occasione della pubblicazione di “Tebourba”, ora è la volta di “Boussadia”, il cui titolo deriva da una figura folklorica un tempo molto diffusa in Tunisia e Algeria, una sorta di giullare, cantastorie e danzatore itinerante mascherato di ascendenza subsahariana. L’album, che si configura come prima tappa di una trilogia concepita come esplorazione delle culture e dei mondi sonori di ciascun membro del gruppo, è stato realizzato dalla band proprio in Tunisia per nutrirsi del soundscape locale. “Blogfoolk Magazine” è in conversazione con i tre musicisti.

Come vi siete incontrati e come avete cominciato a collaborare e a sviluppare la vostra musica? 
Marzouk Mejri - Fanfara Station nasce in un luogo speciale, dal nome evocativo: Il Giardino Liberato, un centro sociale napoletano. Forti dell’esperienza del “Marzouk Ensemble”, con il trombettista e trombonista nord-americano Charles Ferris sperimentiamo in una prima fase l’utilizzo congiunto della loop station, unendo i diversi strumenti della tradizione tunisina alla sezione fiati. Un percorso sperimentale al quale, dopo queste prime battute, si unisce il DJ e producer Ghiaccioli e Branzini. Quel concerto al Giardino Liberato è stato la scintilla per iniziare una lunga storia di prove, esperimenti e sfide con le macchine elettroniche. 
Sembrava di essere a un corso di addestramento, perché non è mai facile far interagire la tecnologia con l’esperienza umana. Marco, che è il più esperto in elettronica, ha reso lo spettacolo tecnicamente più facile e l’esibizione più potente musicalmente. 
Charles Ferris - Le sperimentazioni via via prendono una forma sempre più compiuta grazie anche a numerose residenze che ci hanno permesso di costruire un paesaggio sonoro sempre più particolare e originale senza tuttavia tralasciare le identità di noi tre. 

“Fanfara” fa pensare a una decina di musicisti: come e perché è spuntato questo nome per un trio? Di fatto, Ferris è l’unico a suonare strumenti da "fanfara” occidentale. Come avete prodotto i suoni della sezione d’ottoni che contraddistingue i brani? 
Charles Ferris - Fanfara è un termine utilizzato anche in Tunisia per indicare un ensemble che unisce fiati occidentali e fiati tunisini insieme alle percussioni. Quindi oltre alla tromba, trombone, basso tuba e clarinetto, abbiamo anche la zokra, mizwad e ney, che tipicamente dialogano con le percussioni. Nell’epoca dei Bey, la banda includeva questi fiati in varie misure (bassi, medio, acuti). Con l’utilizzo delle loop station riusciamo a moltiplicare la forza del suono come fosse una vera e proprio fanfara simile a quella in cui suonava il papà di Marzouk. 

Che è successo musicalmente tra il primo album e questo nuovo lavoro? 
Charles Ferris - Nel primo album, “Tebourba”, ci sono anche dei brani in duo, cioè senza il contributo Ghiaccioli e Branzini. Mentre quest’ultimo album è stato pensato e realizzato da tutti noi tre. All’interno troverete anche diverse collaborazioni con musicisti tunisini. 
Tra il primo e il secondo album abbiamo suonato tantissimo dal vivo in trio, questo ci ha permesso di sviluppare un suono inconsueto ma originale. Abbiamo cercato di elaborare un linguaggio che cercasse un equilibrio tra interazione umana e digitale. 

Quanto è stato importante registrare in Tunisia? Come e avete lavorato alle otto tracce di “Boussadia”, spesso stratificate ed elaborate? 
Charles Ferris - Il nostro processo di registrazione e arrangiamento ha varie fasi. Una performance ripresa in studio o dal vivo può funzionare da canovaccio per essere poi ripresa e ulteriormente elaborata fino a diventare una traccia compiuta.
Marco Dalmasso - Registrare in Tunisia, presso il centro d’arte contemporanea B7L9, è stato per noi fondamentale. La partecipazione dei musicisti tunisini ha intensificato il linguaggio stambeli, aiutandoci a connetterci con il tessuto musicale tunisino attivo ora nella capitale.
Charles Ferris - Oltre ad aver registrato a Tunisi, in quei giorni, abbiamo anche fatto diverse jam con i musicisti locali. Abbiamo scoperto, inoltre, come il pubblico di ragazzi tunisini abbia una grande voglia di sperimentazioni simili alla nostra. È stata veramente una sorpresa! Tunisi è una città molto vivace e cosmopolita, molto di più di quanto ci si possa pensare. 

Perché avete scelto per titolo dell’album il personaggio di Boussadia?
Marzouk Mejri - È un personaggio mascherato itinerante legato al folklore tunisino, tipo un saltimbanco, musicista e danzatore che suona percussioni, nacchere metalliche (shqashiq) o campanacci. Come si vede in copertina, il boussadia indossa una maschera di cuoio, un copricapo conico e un abito stracciato e multicolore. 
Un tempo faceva divertire gli adulti e terrorizzava i bambini, animando strade, piazze e mercati. A interpretare questo ruolo erano generalmente afro-tunisini, discendenti da quegli schiavi deportati da Paesi dell’Africa occidentale e stabilitisi in prevalenza nel Nord Africa. Per me, quello di usare la figura di Boussadia è una scelta anche politica: nonostante l’allegria e la gioia che portava nelle feste, rimaneva una figura discriminata, visto non favorevolmente dalla comunità bianca tunisina, proprio per la sua ascendenza africana.

Nell’album le parti recitate e cantate sono in diverse lingue: di cosa parlano questi brani e che voci stiamo ascoltando? 
Marco Dalmasso - I testi dell’album mescolano arabo classico, tunisino e sardo. Trattano di vari argomenti: La trazione stambeli, ripresa e rivisitata a modo nostro, in “Lafoo” e “Ya Baba”. L’amore felice e la passione sfrenata in “Nagran”, l’amore malinconico e riflessivo in “Sabra”, la bellezza della natura nel nostro omaggio ad Andrea Parodi con “Balai”, la riflessione sull’attualità in “Madinafrika” e infine il sufismo in “Yemule Muladdiwen” e in “Adra”. 

Con questo album aprite un nuovo capitolo musicale, di cui questa è la prima tappa: che intenzioni avete? 
Marzouk Mejri - L’idea è quella di costruire un percorso discografico che sviluppi un legame con le nostre tre diverse culture, dopo lo stambeli tunisino ci sposteremo in una dimensione internazionale che ci riconnetta con le strade del blues e della musica afroamericana. Vorremmo intensificare le collaborazioni nel prossimo album con ospiti internazionali. Il terzo album, che chiuderà la trilogia dei nostri paesi di appartenenza, avrà come focus l’Italia dove inviteremo tanti amici musicisti incontrati nel nostro percorso
e nella nostra vita. Non vediamo l'ora di metterci al lavoro, per l’inverno 2023 abbiamo già programmato una residenza a Parigi dove sviluppare le nostre nuove idee. 

Che rapporto c’è con le musiche tradizionali di questa parte del Maghreb? 
Marzouk Mejri - Sono cresciuto immerso nelle tradizioni tunisine, suonandole e cantandole anche in famiglia fin da piccolo. Charles ha iniziato a suonare diversi stili tunisini in formazioni tradizionali fin da quando mi ha incontrato quindici anni fa. Ghiaccioli e Branzini, nascendo come DJ, è da sempre un attento ricercatore di tutti gli scambi musicali avvenuti nel mediterraneo. Ascoltiamo musica tunisina nuova e antica nelle sue differenti espressioni. La musica stambeli, associata alle comunità nere della Tunisia di ascendenza subsahariana 1, è discriminata, non è conosciuta come la musica gnawa del Marocco, che da tanti anni è stata lanciata ed è conosciuta nel mondo. Invece lo stambeli è rimasta una musica di nicchia con cerimonia che la comunità nera fa rinchiusa in sé stessa. Penso che all’incirca dal 2011 c’è stato un inizio di nuovi gruppi che inseriscono strumenti e canti della musica stambeli. Sono nati gruppi che sulla scia della musica gnawa sperimentano con sezione ritmica occidentale e chitarra elettrica.
Marco Dalmasso - Non è sempre facile rintracciare alcuni artisti tunisini, di cui Marzouk ricorda solo il nome, spesso non hanno una distribuzione attraverso le comuni piattaforme di streaming; è bello riuscire a scovare musica dimenticata attraverso canali diversi da quelli usuali. Nel bene e nel male, non tutto è su Spotify. 

Come si è sviluppato la fase compositiva nella costruzione del dialogo tra strumenti ed elettronica?
 
Charles Ferris - Fanfara Station nasce come ricerca delle possibilità derivanti l’uso delle loop station, ovvero riuscire a creare un ensemble di percussioni tunisine con una fanfara di ottoni. Con il programming di Ghiaccioli e Branzini e attraverso l’uso di macchine, synth e drums sequencer, si è moltiplicata le possibilità di ottenere forme più complesse e una gamma di sonorità più vasta. Insomma, in trio gli strumenti acustici si liberano dai limiti imposti dalle loop station concentrandosi maggiormente sul dialogo tra i diversi elementi. In “Boussadia”, spesso abbiamo lavorato sull'incastro delle percussioni acustiche suonate da Marzouk e le drums elettroniche di Ghiaccioli e Branzini. Dopo questa prima fase ritmica compositiva, spesso sono stati aggiunti i miei fiati bassi. Da lì può succedere di tutto... 
Marco Dalmasso - Il nostro è sia un incontro musicale, ma soprattutto è un incontro umano e fisico di tre persone appartenenti a tre culture differenti. Ci piace pensare di essere come tre corde di un’unica treccia, più si annoda più diventa lunga e bella. Una treccia, tre corde e ogni corda, a sua volta, tantissime cordicine.
 
Volete passare in rassegna i brani?
Marzouk Mejri - “Nagran” è nato da un’improvvisazione collettiva sul palco: si è sviluppato in studio a Tunisi. È il racconto di una passione travolgente. Anche “Madinafrika” è frutto di improvvisazione, registrata dal vivo, il nome viene da una giovane imprenditrice di Tunisi il cui atelier di moda ben racconta la contemporaneità tunisina. 
“Sabra” è un racconto del mio vissuto: un amore non corrisposto ha quasi sempre qualcosa da insegnare... Invece, “Lafoo” è ispirato dallo stambeli e dalla mistica sufi tunisina, un brano che nella versione popolare è diventata una hit pop tunisina. “Yemule Muladdiwen” omaggia la leggenda del santo Sidi Marzouk, attraverso il racconto di un miracolo che lo ha reso simbolo della liberazione degli schiavi. “Balai” è una nostra versione della canzone di Andrea Parodi (Fanfara Station ha vinto l’edizione 2019 del Premio Andrea Parodi, ndr), un omaggio al suo sguardo verso il Mediterraneo e alla bellezza della Sardegna e della grande madre terra. “Adra” è un ritmo sufi che porta alla trance, un'evocazione degli spiriti e del creatore, “Ya Baba” è un grande classico della tradizione stambeli. 

Tra gli ospiti in “Madinafrika” c’è il rapper tunisino Vipa: come è nata questa collaborazione?
Marco Dalmasso - Eravamo in studio nel pomeriggio a Tunisi, aspettando un oudista che non si è più presentato. Avevamo il turno del pomeriggio libero, allora abbiamo chiesto a un ragazzo che ci aiutava in quei giorni: ‘Ma non conosci mica un rapper’? E lui fa: ‘Ce l’ho!”. Dopo un quarto d’ora è arrivato in studio Vipa in con indosso la maglia dell’Inter. Hanno messo un microfono in mezzo lui e Marzouk e hanno fatto un’improvvisazione di dieci minuti su cui è stato costruito il pezzo. Tutto a partire da quest’unico take di improvvisazione vocale.

Cosa ci dobbiamo aspettare dal vivo? 
Marzouk Mejri - Vogliamo farvi ballare e stare bene. Abbiamo un carico di energia che cerchiamo di canalizzare durante le performance live. Abbiamo fortemente voluto mantenere all’interno del concerto diversi momenti liberi dove poter restituire sotto forma di improvvisazione la forza che il pubblico di trasmette. Noi ci divertiamo molto e il tutto sembra funzionare bene. 


Ciro De Rosa e Alessio Surian

Fanfara Station – Boussadia (Garrincha Go Go, 2022)
Ad aprire “Boussadia” è “Nagran”, già singolo di questa ardente creatura musicale che è il trio-orchestra Fanfara Station. Il tema è nato da un’improvvisazione su cui è stato cucito l’implacabile tessuto electro-funky-arabo, il suo titolo allude a due significati: l’ingiuria napoletana “na’ grande str***ata” e il colpo dato sulla darbouka con le dita, come fossero beccate di uccello. Parliamo del nuovo album di Fanfara Station, pubblicato da Go Go Records, sussidiaria di Garrincha Dischi, label che si dedica alla world music e agli incroci di generi musicali. Loro sono Marzouk Mejri (voce, percussioni tunisine, ney, zokra, clarinetto, loop), Charles Ferris (tromba, trombone, tuba) e Ghiaccioli e Branzini (elettronica e programming, synths). Il suono penetrante del mizued di Amine Ayadi apre la prorompente “Madinafrika” che avanza incessante con il ritmo crescente, la melodia attraversata dai fiati di Ferris, i continui cambi di scena, featuring la voce del rapper Vipa, uno dei collaboratori tunisini del trio insieme ad Asma Ahmed Cherif (voce), Hela Kavak Guesmi (voce), Chedli Bidali (guembri) e Salih Jebali (gasba). Cambia l’ambientazione in “Sabra”, composizione cantata in arabo con un finale in francese, che ha i colori di una smooth ballad elettronica  con il clarinetto in bell’evidenza, mentre “Lafoo” trae ispirazione dallo stambeli, espressione della ritualità afro-tunisina.  Si avverte la maturazione del sound del trio, che appare più compatto, stratificato e collettivo, zeppo di idee e colori ma anche segnato da forte immediatezza, a testimonianza della lunga frequentazione ed elaborazione live. Le percussioni acustiche si incastrano con le macchine elettroniche percussive di Ghiaccioli e Branzini, i fiati si distendono, si intrecciano, ricamano intorno ai pattern ritmici, si contrappuntano e si aprono a svariate inflessioni. Tornando alla sequenza della tracklist, “Yemule Muladdiwen”, secondo singolo dell’album, ci trasporta verso Gabès, nel sud della Tunisia, omaggiando il santo Sidi Marzouk, raccontandone un miracolo che lo ha reso un simbolo dell’affrancamento degli schiavi. “Balai” è la rilettura di una canzone di Andrea Parodi (I Fanfara Station hanno vinto l’edizione 2019 del Premio Andrea Parodi, ndr), un richiamo al suo sguardo rivolto al Mediterraneo. Entriamo nella dimensione altra della trance estatica con il call & response e le vorticose circonvoluzioni della superlativa “Adra” e con “Ya Baba” (conosciuta anche come “Sidi Mansour”), un altro classico della tradizione stambeli, rivisitato con eccellente amalgama nella confluenza di voci, fiati ed elettronica.  Quello di Fanfara Station è un flusso ibrido e inarrestabile, l’improvvisazione resta la chiave di volta che sottende all’interazione del trio migrante, che va a intersecare poliritmie, scale, forme e stili tunisini con inflessioni funky, jazz e afro-beat portati dalla coppia Mejri/Ferris su cui agisce la creativa visionarietà del producer e DJ Ghiaccioli e Branzini, che non si limita a costruire avvolgenti sfondi elettronici, ma integra appieno le sue manipolazioni nel tessuto sonoro implacabilmente danzante e liberatorio.


Ciro De Rosa

Foto di Maxime_Bessieres (1), Kerttukruusla.image (2, 3 e 4)

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1  Sulla musica stambeli si rinvia a Richard C. Jankowsky, “Stambeli: Music, Trance, and Alterity in Tunisia, The University of Chicago Press, Chicago, 2010

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