Meïkhâneh – Chants du dedans, chants du dehors (Cas Particuliers/Buda Musique, 2022)

L’apprezzamento per la musica del trio di base a Rennes lo abbiamo manifestato già in passato, in occasione della pubblicazione del loro secondo lavoro, “La silencieuse”. A distanza di cinque anni, i Meïkhâneh esprimono nuovamente la loro poetica musicale nomade con la loro terza incisione, “Chants du dedans, chants du dehors”. Formatosi 2009, l’ensemble è composto da Maria Laurent, che canta e suona il liuto a manico lungo mongolo tovshuur, il banjo e il flauto traverso; Johanni Curtet, etnomusicologo, esperto di canto difonico, chitarrista, suonatore di liuto a due corde dombra, scacciapensieri e morin khuur, la viella a due corde dalla cassa armonica a forma trapezoidale e il riccio a forma di testa equina; il terzo membro è il percussionista di origine iraniana Milad Pasta, cantante e suonatore di zarb, daf, udu drum e riqq. All’album partecipano come ospiti Pauline Willerval (gadulka e violoncello) e Dylan James (contrabbasso). Nel programma raccolgono tredici brani plurilingue (cantano in mongolo, farsi, portoghese, greco, francese e in una lingua immaginaria) tenendo l’ago della bussola rivolto soprattutto al Vicino Oriente e all’Asia Centrale, sia per l’organico strumentale sia per le tecniche vocali adottate, ma innestando un certo minimalismo folk e inserti improvvisativi. Un ibridismo che l’ensemble riesce a tenere insieme con successo, mettendo al centro una ricerca interiore, che in questa terza opera è perseguita musicando componimenti poetici delle loro aree musicali d’elezione. La tracklist è aperta da “Chaque jour nouveau”, un motivo di ispirazione mongola cantato da Laurent, accompagnata da banjo, morin khuur, contrabbasso e percussioni, e la cui voce è raddoppiata dallo stile più grave e profondo di canto khöömii (kharkhiraa) di Curtet. Un inizio niente male, al quale segue “Belly”, composizione più placida e intimista, per voce, flauto, chitarra, contrabasso e tombak, dove Laurent canta in una lingua inventata: “immaginando i suoni che percepiti e le sensazioni provate dall'interno dell'utero”. Lo stesso idioma è proposto nell’altrettanto delicata “Le chemin simple”, tema di matrice folk con bell’accompagnamento del tovshuur. Invece con “Bi” si ritorna all’ambientazione da steppa mongola (come nel brano iniziale, il testo è del poeta Ölziitögs Luvsandorj), mentre in “Je m’en vais” i Meïkhâneh fanno convergere elementi iraniani e canto armonico. Viaggia sulle note della chitarra e del canto di gola “Üdesh”; debitrice nei confronti delle forme della musica persiana è la successiva “Kârevân”, in cui si impone la coralità delle voci ed entra con andamento sinuoso la viella ad arco bulgara gadulka. Ci si sposta in Grecia, ascoltando “Dehors, la mer” (un testo di Yannis Ritsos tratto dalla “Sinfonia della primavera”). Oltre, c’è “Nafas”, trasposizione in note di una lirica di Hâfez (tratta da “Divân”); si raggiunge, quindi, il Portogallo con “Romero” (estratto dalla raccolta di poesia popolare “As chaves da cidade de Roma”), tema che valorizza ancora il timbro di Laurent. Dai vocalizzi ammalianti della cantante al canto difonico che riempie “La pierre de Mongolie”. Magnetica è “Tel que tu me vois”, in cui il lirismo di Laurent si adagia sul bordone del canto di gola, per poi assumere movenze ritmiche più ardite con l’ingresso delle percussioni e degli archi. Concludono il programma con “Prière”, pezzo minimale per voce (ancora la lingua immaginaria di Laurent), canto difonico, chitarra e contrabbasso Mai convenzionali queste “Canzoni dall’interno e dall’esterno” della “Casa dell'ebbrezza” (questa la traduzione del nome della band che è mutuato dalla poesia persiana), che costituiscono un’esperienza oltremodo amabile. 


Ciro De Rosa

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