Leyla McCalla – Breaking the thermometer (ANTI, 2022)

Tra tutti i Paesi caribici Haiti, che occupa circa un terzo del territorio dell’antica isola di Hispaniola condiviso con la Repubblica Dominicana, è forse quello di cui si sa meno in termini musicali: per molti anni gli unici nomi che hanno avuto una certa risonanza a livello internazionale sono stati i Tabou Combo ed i fenomenali Boukman Eksperyans e, in tempi più recenti, Lazou Mizik, Wesli e Moonlight Benjamin, generazioni di artisti che propongono un mix di rock, blues, jazz e forme tradizionali haitiane. Tuttavia, nonostante si stia parlando di una delle aree più povere del pianeta, la musica qui prospera da sempre e il dominio spagnolo prima e ancora di più quello francese hanno impiantato nei secoli le basi per la creazione e la diffusione, con l’inevitabile e fondamentale complicità dei ritmi importati dagli schiavi africani, di una molteplicità di espressioni musicali (come gli autoctoni compas e ra-ra ma anche gli importati calypso, merengue e zouk) che spesso, ma non necessariamente, trovano riferimenti anche nei riti voodoo e soprattutto nella lingua “creyol”. Per saperne di più, oltre ai dischi dei gruppi citati sopra, è consigliabile fare riferimento ad alcune raccolte, in particolare a “Konbit: Burning Rhythms Of Haiti” (A&M), compilation curata dal regista Jonathan Demme, che alla cultura e alla società dell’isola caraibica dedicò due documentari, e “Caribbean Revels” (Smithsonian Folkways). Ancora, ma su un piano del tutto differente, “Haitian Suite” (Music Of The World), disco assai poco celebrato (e forse dai più sconosciuto) di Marc Ribot, che qui riprendeva composizioni originali del chitarrista haitiano Frantz Casseus. Da questa cultura discende anche Leyla McCalla, nota specialmente per la sua militanza nei Carolina Chocolate Drops e in quello straordinario “supergruppo” chiamato Our Native Daughters che, nel 2019, ha partorito uno dei capolavori dell’arte musicale afroamericana degli ultimi anni, ovvero “Songs of Our Native Daughters” (Smithsonian Folkways), dedicato alla figura femminile nei tempi più bui della storia delle due Americhe, quelli della schiavitù. Leyla, nata è cresciuta a New York da genitori entrambi originari di Haiti, ha rivolto all’isola la sua attenzione in occasione del primo lavoro solista, “Vari-Colored Songs: A Tribute to Langston Hughes”, che conteneva in effetti alcuni poemi dello scrittore, attivista sociale e giornalista statunitense da lei stessa musicati, ma anche alcune canzoni folk haitiane in lingua creola. È probabile, se non del tutto certo, che quel lavoro abbia posto le basi per la nascita di questo suo quarto album che, però, è partito da una proposta commissionatale dalla Duke University di Durham (North Carolina) di raccontare la storia di Radio Haiti (i cui archivi sono ospitati nell’ateneo statunitense, che li acquisiti pochi anni fa), l’unica voce libera durante i cupi anni gestiti da una devastante serie di dittature, la più feroce delle quali è stata senza dubbio quella dei famigerati Papa “Doc” Duvalier prima e di suo figlio Jean Claude dopo, i quali hanno trasformato una dei Paesi economicamente più prosperi dell’area caraibica in un vero deserto di terrore, miseria e povertà. Per dare luogo a quest’opera – nata come spettacolo multimediale prima di diventare un disco – caratterizzata da un’alternanza di recitazione, musica, danza e frammenti di registrazioni d’archivio dell’emittente fondata nel 1968 da Jean Dominique, purtroppo assassinato nel 2000, tre anni prima della chiusura definitiva delle trasmissioni – non poteva che essere chiamata Leyla McCalla, alla quale sono state affidate, ovviamente, le partiture musicali successivamente elaborate dalla sua voce e dai suoi strumenti, soprattutto violoncello e banjo, nonché da un manipolo di fidati collaboratori che hanno aggiunto basso e contrabbasso, chitarre, percussioni e cori. Quanto basta per fare di questo disco un vero caleidoscopio che qualcuno ha definito, in modo alquanto sommario e ben poco esaustivo “world americana”, definizione che non riesce a spiegare affatto il susseguirsi di suoni, ritmi, melodie, idiomi (non solo il creolo ma anche inglese e francese) ed atmosfere diversissime ma sempre radicate nella ricca tradizione haitiana. L’opera si chiama “Breaking The Thermometer” e, nelle parole della stessa artista, presto ha cominciato a prendere forma nei suoi pensieri anche nelle fattezze di un album a mano a mano che il materiale cominciava a scaturire dalla sua penna o dagli arrangiamenti di brani tradizionali o di altri autori (fra i quali Manno Charlemagne: l’artista più sovversivo e come tale il più perseguitato di Haiti, da taluni considerato quasi una sorta di Bob Marley locale); e ben presto la storia di Radio Haiti ha cominciato a intersecarsi con la storia delle relazioni fra Haiti e gli Stati Uniti (che responsabilità l’hanno certamente avuta nella direzione politica della nazione antillana) e, nondimeno, con la sua storia personale. Dice a tal proposito l’artista: “Mentre molte delle canzoni sono ispirate dagli ascolti che ho fatto nell’archivio, gran parte dell’album è profondamente auto-riflessivo, integrando esperienze in cui ho navigato nel corso della mia vita come bambina sia negli USA che Haiti, in un viaggio che reclama la mia identità di haitiana e americana e comprende le esperienze, i sacrifici e le sfide che hanno affrontato i miei parenti immigrati. Questa storia è mia in molti modi e comunque appartiene al più grande movimento per la libertà di parola e diritti umani mondiale”. Come detto poco sopra, tutto questo si è concretizzato in una varietà di forme che contempla brani decisamente più ritmati e dal più intenso sapore afro-caraibico come “Le Bal Est Fini”, nel cui mezzo spicca il suono di una lacerante chitarra elettrica, “Dodinin” e ancora “Artibonite”, quest’ultima scandita solo da voce solista, coro e percussioni. Oltre, troviamo il clasiìsicheggiante strumentale “Ekzile” con in evidenza il violoncello della titolare, retaggio degli studi accademici di Leyla. Quiete e deliziose ballate folk sono “Pouki” (del già citato Manno Charlemagne, in cui entra la voce di Melissa Laveaux) e “Vini We”, dove il canto è sostenuto soltanto dalle chitarre. Invece, è un “quasi-spiritual” “Boukman’s Prayer”, in cui è unica protagonista la voce. Gli episodi forse più in linea con la musica “Americana” sono indubbiamente “Memory Song”, che presenta un arrangiamento che si direbbe frutto di Daniel Lanois, e “You Don’t Know Me”, versione inglese di una vecchia canzone di Caetano Veloso che qui ha perso buona parte dei connotati originali. Questa generosa diversificazione di stili e arrangiamenti, insieme alle tematiche di cui tratta, estremamente profonde e drammatiche, fa di “Breaking The Thermometer” un lavoro tremendamente coinvolgente e ricco di emozioni. leylamccalla.com


Massimo Ferro 

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