Rhiannon Giddens, Amythyst Kiah, Leyla McCalla, Allison Russell – Songs of our Native Daughters (Smithsonian Folkways, 2019)

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Quattro suonatrici di banjo ripensano la storia delle donne afro-americane, guardando agli avvenimenti contemporanei della loro nazione. Stiamo parlando di Rhiannon Giddens, Amythyst Kiah, Leyla McCalla ed Allison Russell, che hanno registrato “Songs of our Native Daughters” nella Cypress House di Breaux Bridge – nel bayou della Louisiana – , una struttura costruita nella metà dell’Ottocento, dove Giddens, mente di questo progetto, aveva inciso già “Freedom Highway, disco dedicato agli “human rigths”.Come in quel lavoro, anche “Songs of our Native Daughters” è prodotto da Dirk Powell (qui suona anche chitarre, mandolino e fisarmonica, piano, tastiere e violino), con la sezione ritmica con cui Giddens lavora da tempo (Jamie Dick alla batteria e percussioni e Jason Sypher al basso). L’album esce per la Smithsonian Folkways, la label discografica folk per eccellenza, nella collana “African American Legacy Recordings”. È un ribaltamento di prospettiva, perché nell’immaginario dei più il banjo, strumento che racconta la storia musicale americana: dal minstrel show al country & bluegrass fino al folk di protesta degli anni Sessanta del Novecento, è uno strumento identificato come maschile e ad appannaggio dei bianchi. Diversamente, com’è noto le sue origini sono nell’Africa occidentale e le sue trasformazioni sono parte dei sincretismi della cultura afro-americana. Giddens e le sue compagne afro-americane si riappropriano del cordofono: le banjoiste (a cinque corde, tenore, versione minstrel) hanno assemblato tredici canzoni politiche e militanti che parlano di diritti delle donne e di razzismo, partendo dalla condizione schiavista del passato fino ad arrivare alle questioni irrisolte del presente e all’attualità di movimenti come #MeToo e #BlackLivesMatter. 
Scrive nella presentazione Giddens che l’idea del progetto è scaturita durante una visita allo Smithsonian National Museum of African American History di Washington, per svilupparsi, poi, dopo lunghe riflessioni suscitate da immagini forti della classica pellicola “Nascita di una Nazione” di Nate Parker, in cui le emozioni e le reazioni di una donna nera violentata sono completamente negate dall’occhio della camera per dare spazio unicamente alla reazioni del marito. Per capire meglio in cosa consistano riappropriazione e rovesciamento di punti di vista, partiamo dagli stilemi folk di “Polly Ann’s Hammer” – guidata dal violino di Giddens – che riscrive il tradizionale “John Henry”, storica protest song sullo sfruttamento dei lavoratori, qui centrata sulla vedova di John, che appare nella parte finale della canzone originale («John Henry had a woman / Well her name was Polly Ann /Well John Henry took sick and he had to go to bed / Well and Polly drove steel like a man (well, well)/ Well and Polly drove steel like a man»). Nella riscrittura delle Daughters, Polly si appropria del martello con cui è stato ha ucciso il marito e ne fa un simbolo di affrancamento dallo sfruttamento («This is the hammer, killed John Henry/won’t kill me, won’t kill me»). Dai versi finali della stessa “John Henry”, nella versione del “musicista delle colline” Sid Hemphill, il bluesman compositore e pluristrumentista registrato da Alan Lomax, arriva il titolo del R&B di apertura, “Black Myself”, scritto da Kiah, la più giovane del quartetto, esponente del alt-country blues, nativa del Tennessee, che lo interpreta con la sua voce soul. 
La danzante “Moon Meets the Sun” ha un bel riff e un’ambientazione caraibica: è stato il primo brano scaturito dalle session (in trio, non c’è McCalla). Voce recitata di Rhiannon, con un bell’inciso strumentale di voce, banjo, chitarra e percussioni, in “Barbados”, brano che riprende i versi anti-schiavisti del poeta inglese William Cowper (da “Pity for the Poor Africans”, 1788). Segue “Quasheba, Quasheba”, firmata da Allison Russell (già con Birds of Chicago e Po’ Girls), esplorazione della sua linea familiare autobiografica indietro fino ai tempi della tratta. L’altra ex Carolina Chocolate Drops, Leyla McCalla, è la lead singer in “I Knew I Could Fly”, tutta voci e corde (chitarra, minstrel banjo e mandolino), dedicata a Etta Baker, chitarrista, esponente del Piedmont blues, la quale abbandonò la sua carriera dopo il matrimonio e nove figli, incidendo solo in età matura, dopo la morte del marito che le ave impedito di esibirsi. Il call & response a quattro voci, hand clapping e il battito percussivo di Dick esaltano “Mama’s Cryin’ Long”, portata in stile prison working song, e ispirata a racconti di schiavi: una donna violentata dal suo sorvegliante bianco finisce per ucciderlo; la prospettiva adottata è quella del figlioletto. L’unica cover presente nel disco è “Slave Driver” di Bob Marley, l’artista resistente per eccellenza, proposta in un bell’adattamento. 
La melodia di “Better Git Yer Learnin’ è attribuita al banjoista ottocentesco Thomas F. Briggs, ma al testo originario, pieno di luridi stereotipi razzisti, le nostre hanno sostituto liriche considerando il punto di vista di uno schiavo emancipato. Leyla McCalla porta in dote “Lavi Difisil”, cantata in un mix di creolo haitiano e inglese, dove Russell imbraccia il clarinetto: una canzone ispirata alla figura del trovatore haitiano Althiery Dorval. La voce di Kiah diventa ancora protagonista in “Blood and Bones” scritta di suo pugno. La matrice afro risalta nella vivace “Music and Joy”, derivata in origine dalla tradizione del minstrel banjo. Russell è, invece, la prima voce nella ballata “You’re Not Alone”, dichiarazione della forza della consapevolezza comune, un omaggio alla resilienza delle antenate da parte delle quattro Native Daughters, che chiude questo capo d’opera. 


Ciro De Rosa

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